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In ascesa tra le stelle, proprio sul bordo del nono cielo, il più cristallino e il più veloce, Dante guarda in basso verso la terra, e vede, al di là del limite oc- cidentale dell’Europa continentale, il varco attraverso cui Ulisse raggiunse l’Atlantico (Paradiso,XXVII,82-4):

sì ch’io vedea di là da Gade il varco folle d’Ulisse, e di qua presso il lito

nel qual si fece Europa dolce carco.

Secondo Dante, il «varco folle d’Ulisse» spinse l’eroe omerico attraverso e ol- tre lo stretto di Gibilterra, diritto incontro alla morte. In questo saggio, il mio viaggio seguirà la sua scia, attraverso le Colonne d’Ercole che si ergevano sul- la soglia oltre la quale il Mediterraneo si getta nell’Oceano Atlantico; esplo- rerò quel passaggio in quanto simbolo di confini, e quelle colonne in quanto «celebri testimoni» della «suprema orbis meta», come scriveva Erasmo citan- do Pindaro – in altre parole, gli estremi confini della terra oltre cui si esten- deva «l’oscurità infernale» (zòphos). Il linguaggio estremo di tali metafore classiche può suonare strano se consideriamo la quantità di traffici che si svol- gevano attraverso lo stretto di Gibilterra sia nell’antichità che nel Medioevo, ma da Pindaro a Dante la tradizione vuole che le colonne erette dall’eroe mar- cassero una sorta di viaggio nell’aldilà. Evocando la presenza spettrale di en- trambi gli avventurieri – Ulisse ed Ercole –, analizzerò la riapparizione di quei segni di confine sulle prime monete coniate nel Mundo Otro, come i conqui- stadores spagnoli chiamavano il Nuovo Mondo, sulle quali il minaccioso sim- bolismo originale delle colonne è trasfigurato, e in seguito esplorerò come ta- li segni si siano fusi nei contorni familiari, e soprattutto nelle ambizioni glo- bali, del simbolo del dollaro. Svilupperò l’ipotesi, precedentemente proposta

* I miei ringraziamenti vanno a: John Onians, che per primo attirò la mia attenzione alla possibile connessione tra il simbolo del dollaro e le colonne d’Ercole; Philip Attwood, del Di- partimento di Monete e Medaglie del British Museum; Peter Hulme per i suoi saggi illuminan- ti sul tema dei traffici nel Mediterraneo antico; Valerio Lucchesi, Meg Bent, Helen Cooper, Peter Hainsworth e gli altri membri della “Dante Society” di Oxford per i loro commenti quando, per la prima volta, suggerii questi pensieri. Traduzione di Elena Sibilio, rivista e ap- provata dall’autrice.

in pieghe dimenticate della numismatica e toccata da Earl Rosenthal in un im- portante articolo del 1971 («Plus Ultra, Non Plus Ultra», and the Columnar De- vice of Emperor Charles V), secondo cui le colonne non starebbero soltanto al-

la base della forma visiva del segno, ma addirittura narrerebbero una storia squisitamente umana di limiti ed eccessi, di sforzi e fallimenti, di vincite e per- dite. Attraverso l’episodio secondario del mito eroico, spero di gettare una lu- ce obliqua e inquietante sulla costruzione delle Torri Gemelle di New York, sulla loro distruzione e la conseguente crisi politica che stiamo vivendo.

Dante nel Paradiso guarda verso il Mediterraneo, e la sua occhiata al- l’indietro, al «varco folle d’Ulisse», rimanda il lettore al magnifico – e giu- stamente famoso – canto XXVIdell’Inferno, nel quale Virgilio parla con la fiamma a doppia lingua che imprigiona Diomede e Ulisse e domanda a que- st’ultimo di raccontare la propria fine. Alla richiesta appassionata di Virgilio, l’eroe epico narra di come «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esper- to, / e delli vizi umani e del valore» (vv. 97-9) lo consumasse. Racconta così la storia del suo ultimo viaggio, descrivendo come navigò attraverso e oltre le Colonne d’Ercole, finché dopo cinque mesi (o il quinto mese) vide una montagna dai contorni velati, e subito dopo fu colpito da una violenta tem- pesta che portò la sua nave al naufragio (vv. 100-20):

ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno, e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto. [...]

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta: dalla man destra mi lasciai Sibilia, dall’altra già m’avea lasciata Setta. «O frati», dissi «che per cento milia perigli siete giunti all’occidente, a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

E così ripete il discorso che fece alla sua ciurma per rianimarla, esortando i suoi uomini a navigare con lui verso l’ignoto, «di retro al sol, del mondo san- za gente», quell’oscurità infernale invocata da Pindaro, al di là delle terre abitate.

Nei licei italiani era abitudine imparare questi versi a memoria, e forse ta- le abitudine sopravvive tuttora. Nel capitolo Il canto di Ulisse della sua auto- biografia, Se questo è un uomo (1958), Primo Levi ricorda come ad Auschwitz lo recitasse al suo compagno di lavoro Jean, conosciuto come Pikolo, dopo che quest’ultimo, un alsaziano che parlava sia francese che tedesco, aveva espresso il desiderio di imparare un po’ di italiano. Mentre camminavano per andare a prendere le razioni per il proprio gruppo di lavoro, Primo recitava il discorso di Ulisse. Levi ricorda il suo stato d’animo:

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo in- franto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo im- pulso. L’alto mare aperto [...]. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle co- lonne d’Ercole [...]. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: «[...] Fatti non foste a viver come bruti [...]». Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momen- to, ho dimenticato chi sono e dove sono1.

Questo capitolo, così pieno di emozioni, segue le difficoltà di Levi mentre cerca di ricordare i versi, senza riuscire a recuperarli completamente. Trattiene Jean, deve svelarglieli, quei versi, con la stessa urgenza che una di quelle ombre mor- te dell’Inferno ha di parlare a Dante, finché non giunge alla conclusione del canto, quando Ulisse e i suoi uomini vengono ingoiati dalle acque (vv. 137-42):

ché della nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque: alla quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che’l mar fu sopra noi richiuso.

Levi, ricordando, scrive:

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «com’altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo es- sere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così uma- no e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del no- stro destino, del nostro essere oggi qui...

Il capitolo termina con il verso finale del canto, quando la nave naufraga e af- fonda: «infin che’l mar fu sopra noi richiuso».

Per Levi, il campo di concentramento era un inferno vivente, ricreato nel qui e ora, e la morte per annegamento riservata a Ulisse dalla volontà divina

era il desiderio dei brutali creatori del campo di vederne morire i prigionieri. Il passaggio rende magistralmente la forza che Levi traeva dalla poesia, ci fa capire come essa ravvivasse la speranza nella sua lotta disperata per la so- pravvivenza all’interno del campo, e come questi versi in particolare riportas- sero sia lui che Jean a un barlume della propria natura umana, nonostante la degradazione che veniva inflitta loro. Ma allo stesso tempo l’impresa di Ulis- se era destinata al fallimento, e più tardi l’immagine di quell’avventura finita in fondo al mare avrebbe riecheggiato con profonda tristezza nella metafora che unisce le meditazioni di Levi sull’ideologia nazista e le morti che ha cau- sato, meditazioni che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Levi sviluppò un crescente e profondo fatalismo riguardo all’esperienza nei campi: i migliori venivano annegati, scriveva, i peggiori salvati. L’Ulisse di Dante adombra, nel pensiero di Levi, quei migliori dimenticati dalla Shoah, i questers, gli avventurieri, tutti coloro che sanno lottare – gli idealisti. In vari scritti successivi, tra cui I sommersi e i salvati (1986), temeva la moralità dei so- pravvissuti, dell’egoismo meschino, della violenza che aveva permesso loro di sopravvivere. Questo pensiero continuava a tormentarlo, poiché anche lui non era annegato.

Io credo che, al di là dell’audacia, della sfida e dell’eroico individualismo che Levi legge in Ulisse, si possa intravedere un altro messaggio, estrema- mente diverso, un messaggio che riguarda l’oblio come conseguenza del viag- gio verso l’ignoto. L’ecologista contemporaneo Robin Grove-White, metten- doci in guardia contro i rischi che devono essere valutati oggi, parla di “igno- ti sconosciuti”, in senso politico. Ai suoi albori, il nazismo era un ignoto sco- nosciuto: prima che si manifestasse, un tale orrore era inimmaginabile. Ulisse e il suo viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, nell’ignoto sconosciuto così co- me lo si intendeva allora, incarna pensieri che oggi abbiamo fatto nostri, e che Levi aveva profeticamente anticipato.

Recentemente, Adrienne Rich, in una lezione a Cambridge, ha riflettuto con eloquenza sul ruolo della poesia, come modo di resistere alla brutalità, al- l’ipocrisia e alla falsità e come campo di sollecitazione alla coesione e all’al- largamento degli orizzonti del pensiero. Ha esortato noi, il suo pubblico, ad ascoltare le voci oracolari dei «poeti antichi», a cercare tra le loro stesse esi- tazioni e i balbettii una chiave verso una più profonda comprensione e una maggiore armonia. L’Ulisse di Dante, sebbene condannato duramente a bru- ciare tra coloro che abusano del linguaggio, del racconto e dell’intelligenza – i consiglieri fraudolenti – contraddice brillantemente la propria colpevolezza ufficiale in quanto prova vivente della capacità di lottare e del desiderio di co- noscenza insiti nella natura umana.

Sulla scia del destino immaginato per Ulisse e delle tormentate medita- zioni di Levi sulla sua storia, penso sia possibile sviluppare un discorso che in- daghi quanto le Colonne d’Ercole siano lugubremente pertinenti alle nostre

vicende contemporanee, e che associ tale simbolo al periodo di guerra e di brutalità che stiamo attraversando.

Il viaggio per mare che Ulisse propone ai propri uomini, convincendoli così abilmente a intraprenderlo nonostante l’età avanzata e la spossatezza, implica seguire il sole a ovest, e li porta, come racconta Ulisse, oltre il punto al di là del quale nessun uomo aveva mai navigato. Una volta oltrepassate le colonne che demarcavano i limiti del mondo conosciuto, dopo cinque mesi, Ulisse e i suoi uomini vedono, da lontano, una grande montagna, una «nova terra». Un dantista inglese, John D. Sinclair, collega questa nuova terra nel- l’oceano alla montagna del Purgatorio; altri l’hanno identificata con le Isole Fortunate (oggi conosciute come Canarie), ma potrebbe anche rappresenta- re il continente immaginario di Atlantide che dà il nome all’oceano. In due dialoghi di Platone, Timeo e Crizia, la leggendaria isola di Atlantide si erge oltre il Mediterraneo, dove inizia il flusso oceanico, le acque che cingono il mondo. In quei dialoghi Atlantide è descritta minuziosamente, e, dal punto di vista dell’Ulisse dantesco e del suo viaggio, vale soprattutto la pena nota- re che Atlantide cade sotto la giurisdizione divina di Poseidone, che circon- da l’isola di bastioni e pareti d’acqua; alla luce di ciò, mi sembra che potreb- be essere stato il dio del mare stesso a decretare il naufragio della nave di Ulis- se per la propria soddisfazione, piuttosto che il dio di Dante o il demiurgo ottenebrato della prospettiva storica illuministica di Primo Levi. Poseidone è l’implacabile nemico di Odisseo da quando ha accecato suo figlio Polife- mo, storia, questa, che anche Enea narra nell’epica di Virgilio.

La montagnosa Atlantide, cinta dalle acque, sarebbe stata ricca di metal- li e di vegetazione, e sarebbe stata affidata da Poseidone a suo figlio maggio- re, Atlante, affinché la governasse. Il nome di Atlante appare spesso nelle av- venture di Ercole: l’eroe si serve dell’aiuto del gigante per rubare le mele del- le Esperidi, le ninfe del sole ponente. Il loro giardino si trova tanto a occidente che Ercole manda Atlante in sua vece, poiché persino lui trema di fronte a un tale viaggio, e mentre il gigante compie questa impresa per conto dell’eroe Er- cole prende sulle proprie spalle il fardello del mondo. È Erodoto che nomina per la prima volta l’Atlante, la catena di montagne nord-africana, dal nome del gigante leggendario, e le leggende successive che lo riguardano sono estre- mamente confuse. In ogni modo, la sovrapposizione con il figlio maggiore di Poseidone, il re della montagnosa Atlantide che, in alcune leggende, è anche il padre delle Esperidi, sembra una confusione piuttosto comprensibile. Atlante prende il posto di Ercole: in termini narrativi si tratta di eroi positivi intercambiabili. Ercole appare varie volte anche nel ciclo dei miti di Ulisse, come suo precursore e modello; tra tutti gli eroi classici, è lui a fare da batti- strada a tutti gli eroi classici, più di Giasone, addirittura più di Teseo. Per Dan- te, egli prefigura il tentativo di Ulisse di passare attraverso lo stretto di Gibil- terra, ma Ulisse, essendo mortale, fallisce nella sua impresa e muore annega-

to. Ulisse, in quanto uomo, non può fare ciò che a Ercole, in quanto eroe, è concesso, perché Ercole è un semidio, destinato all’Olimpo. Al contrario, l’Ulisse della mitologia sopravvive per l’inganno e l’astuzia, oltrepassa il limi- te contro tutte le disposizioni che la provvidenza ha stabilito per l’umanità e le Colonne d’Ercole rappresentano il confine che egli, sbagliando, attraversa. Le colonne demarcano sì un limite geografico, ma tale limite funziona im- plicitamente come un confine morale che rappresenta allo stesso tempo sia la grandezza che la piccolezza della natura umana: la mappa romanzata del Me- diterraneo, pullulante di storie esemplari e ammonitorie sulle avventure degli dei e sul destino dell’umanità, rappresenta allo stesso tempo una mappa psi- cologica ed etica, in cui tutto è molto meno definito e stabile. Le simpatie del poeta vanno alla grande e alta fiamma infernale nella quale Ulisse brucia con dignità epica, e Dante invita a identificarsi con lui come un ognuno. Questa figura dell’“ognuno” riappare nel canto XXVIdel Paradiso, quando Adamo ri- corda la caduta, e, allo stesso tempo, rappresenta esplicitamente il peccato della superbia, attraverso la metafora del superamento di ogni confine o fron- tiera concessi: «Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno» (vv. 115-7).

Secondo la tipologia dei manuali medievali, lo schema di Dante riflette nell’ultimo viaggio di Ulisse la colpa di Adamo, l’aver mangiato del frutto del- la conoscenza. Nell’Inferno, il cammino di Ulisse verso il sole rappresenta an- che altri due classici miti di superbia: Icaro, che volò troppo vicino al sole con le ali che suo padre Dedalo aveva costruito per lui, e Fetonte, che prese in pre- stito il carro di suo padre, il dio del sole, senza riuscire a controllarne i caval- li. Dante sceglie di alludere alla tragedia di entrambi i giovani quando rievo- ca la propria discesa con Virgilio nell’abisso delle Malebolge in groppa al mo- stro Gerione (canto XVII). Gerione vola giù, planando come un moderno del- taplano, disegnando ampi cerchi nell’abisso secondo le indicazioni di Virgi- lio; i versi che ne risultano rappresentano una delle sequenze più altamente drammatiche immaginate da Dante: «Ella sen va notando lenta lenta: / rota e discende» (XVII,115-6).

Per descrivere la «fera» che discende in lenti circoli, Dante paragona Ge- rione a un falco che vola disegnando un cerchio mano a mano più stretto, e che infine atterra, esausto: Gerione deposita il suo carico sul fondo dell’abis- so e svanisce, lasciando il canto XVIInel mistero di un finale ambiguamente aperto. Il passaggio prefigura il fato della nave di Ulisse, che vortica per tre volte nella furia della tempesta, finché, al quarto giro, si inabissa, e termina al- lo stesso modo il canto con la sua scomparsa.

Il mostro Gerione fa parte dei numerosi miti che concernono Ercole: ap- pare in una delle dodici fatiche imposte dal re Euristeo; Esiodo precisa che Gerione pascolava le sue greggi selvagge in Eritea, una terra oltre il tramon- to. L’identificazione con Gades, o Cadice, è stata fatta successivamente. In al-

cune leggende, Ercole spacca lo stretto proprio quando sta per uccidere Ge- rione e rubare le sue greggi; separa le montagne di Calpe (oggi rocca di Gi- bilterra) e Abyla (oggi Ximeira, o Montagna delle scimmie, in Marocco), e apre così la via di uscita dal Mediterraneo. È Dante che, come ben vide Pri- mo Levi, svela l’altra faccia del messaggio della storia, e insiste sul fatto che le Colonne d’Ercole sarebbero un avvertimento minaccioso contro l’oltrepassa- re il limite. Questa contraddizione insita nel significato delle colonne come passaggio che può segnalare sia un’entrata che un’uscita, sia un inizio che una fine, rimane intrinseca ai «riguardi» – le colonne – di Ercole.

Gerione possedeva una quantità enorme di animali, descritti da alcune fon- ti come mostri cannibali sorvegliati da un cane a due teste e dal pastore Euri- zione, entrambi uccisi da Ercole durante il massacro del prezioso gregge. Ge- rione stesso, secondo la Teogonia di Esiodo, ma anche dalle sue rappresenta- zioni sui vasi greci, aveva tre corpi uniti alla vita. Virgilio vi allude, ma Dante non segue la convenzione classica; egli sembra piuttosto prendere il suo spun- to immaginativo da altri mostri, come Lamia, che infestava la costa nord-afri- cana, e da altri antagonisti di Ercole, quei terribili ibridi che uccide nel corso di altre fatiche, come la feroce Idra e i maleodoranti uccelli stinfalidi. Il suo Ge- rione è un diabolico «fiero animale» (Inferno,XVII,79), una «bestia malvagia» (v. 30), una «fiera» (v. 1) con un aculeo di scorpione sulla coda e con pelle di ser- pente che scintilla «di nodi e di rotelle» (v. 15). Con la pelle maculata e la bella faccia che nasconde una natura malvagia e selvaggia, «quella sozza imagine di froda» (v. 7), il Gerione di Dante presenta varie affinità con peccatori come Ulis- se che hanno abusato dei loro poteri di affabulazione e di comunicazione: men- tre Dante si erge con così tanta potenza a ridare corpo all’anima dannata di Ulis- se dalla doppia lingua di fuoco, il bugiardo e l’ingannatore, allo stesso tempo il poeta, consapevole di condividere con l’eroe il potere della retorica, indugia con sincera emozione sulla falsità di Gerione. Gerione in questo senso anticipa la Lamia di Keats; è una delle più imponenti figure dell’Inferno, mentre giace sul bordo dell’abisso come una sfinge letale (Gerione, un mostro dalla fisionomia bella e falsa, ispirò a Botticelli uno dei suoi disegni più intensi, quello in cui rap- presenta la caduta vorticosa di Dante e Virgilio sul dorso del mostro).

Ci sono pervenuti frammenti enigmatici di una lunga opera corale del po- eta lirico Stesicoro, la Gerioneide, nella quale si celebra Gerione, e questi ver- si hanno a loro volta ispirato la poetessa canadese Anne Carson. Nel suo ro- manzo in versi, Autobiography of Red (1998), la Carson propone alcune