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Inscindibile dalla scrittura appare l’idea di movimento verso l’altrove e di un corrispondente movimento di ritorno. Le parole si muovono e si inseguono, camminano, vanno e vagano, e con loro il poeta: Wanderung e Wanderer rap- presentano alla fin fine l’atto dello scrivere. Rispetto alla fissità del dimorare, il wandern si pone come impeto di libertà irrinunciabile:

Sie alle meinen, es wäre

Sonst nirgend besser zu wohnen. Ich aber will dem Kaukasos zu! Denn sagen hört’ ich

Noch heut in den Lüften

Frei sei’n, wie Schwalben, die Dichter1.

Il fatto che poi Hölderlin vagheggi qui un viaggio verso le origini non ha nel- la nostra prospettiva molta rilevanza. Quello che interessa, al di là delle ra- gioni filosofico-culturali, è lo scatto, il moto di impazienza, lo strappo del- l’andare oltre. Il confine può anche restringersi da confine patrio a confine domestico; già uscire di casa è uno sconfinamento verso altro, un esercizio di ricerca dell’alterità:

Täglich geh’ ich heraus, und such’ ein Anderes immer, Habe längst sie befragt alle die Pfade des Lands2.

Una febbrile irrequietezza muove i passi del poeta in giornaliere piccole pe- regrinazioni alla vana ricerca dell’amata perduta:

Wohl geh ich täglich andere Pfade3.

Al di là del motivo amoroso, questa sorta di inquieta e incoercibile motilità si presenta come l’essenza della giovinezza, del suo sognante vagabondare4e fa tutt’uno con la condizione stessa dell’esistere e dell’esistere poetico fatto di una inestricabile agitata mescolanza di Lieb e Leid, amore e dolore:

Denn sie, die uns das himmlische Feuer leihn, Die Götter schenken heiliges Laid uns auch,

Drum bleibe diß. Ein Sohn der Erde Schein’ ich; zu lieben gemacht, zu leiden5.

Il figlio della terra e il figlio delle muse coincidono in Hölderlin e combacia- no in una condizione di eletta e struggente separatezza dagli uomini:

Doch kannt’ ich euch besser, Als je die Menschen gekannt, ich verstand die Stille des Aethers Der Menschen Worte verstand ich nie6.

E anche in un altro celeberrimo figlio delle muse, J. W. Goethe, essere poeti significa muovere da un luogo all’altro, vicini a tutti e da tutti distanti; signi- fica sentire nel proprio passo il ritmo stesso della poesia:

So gehts von Ort zu Ort! Und nach dem Takte reget, Und nach dem Maß beweget Sich alles an mir fort7.

Ihr gebt den Sohlen Flügel Und treibt, durch Tal und Hügel, den Liebling weit von Haus, Ihr lieben holden Musen, Wann ruh’ ich ihr am Busen Auch endlich wieder aus?8

E addirittura il disincantato novecentesco G. Benn si lascia travolgere dal ri- cordo del suo giovane cuore nel quale, in rimandi goethiani, si fondono lo slancio giovanile, la Wanderung e la poesia:

Schlug sich den Staub vom Rock, dann auf ein Lager

den Rucksack unter den Kopf, die beide nichts enthielten als für des nächsten Tags Gelegenheiten.

Ein paar Schuhe: Ein Musensohn. Damals war Liliencron mein Gott, Ich schrieb ihm eine Ansichtskarte9.

Non paia irriverente l’accostamento di scarpe e muse bensì solo significativo del fatto che anche per il sedentario Benn la poesia sembra possedere un’es- senza nomadica.

Tanto meno allora potrà stupire questo termine trovandolo in Hölderlin che errante ed errabondo lo fu di fatto, e dolorosamente, e non solo all’inter- no di un’immagine poetologica che situa il poeta in un rapporto simbiotico e osmotico con la natura e dunque dentro una irradiazione metamorfica:

[...] Allda bin ich Alles miteinander10.

[...] da werd’ ich zum Adler, und ledig des Bodens

Wechselt mein Leben im All der Natur wie Nomaden den Wohnort. Und nun führt mich der Pfad ins Leben der Menschen11.

In questa repentina svolta dall’agio ozioso di un libero vagare, svincolato da qualsivoglia costrizione, ai sentieri segnati e precisi degli uomini è contenuto il dialettico rapporto che la poetica hölderliniana intrattiene con il limite e il confine. E vi appare impressa l’andatura stessa della composizione lirica, mo- dulata e modellata sulla ininterrotta serie di avvii e di ritorni, di cammini che tornano su se stessi per reincamminarsi ben sapendo che alla Sehnsucht del- l’ignoto succederà inevitabilmente lo Heimweh del noto e viceversa e così via. Perché il verso, per determinazione etimologica, non può che voltare e la sua libertà consiste nel potersi abbandonare a proprio piacimento e a propria di- screzione al gusto o alla necessità di ritornare. Persino l’uccello, il signore del- l’aria, che fine farebbe se, come nell’atroce sarcastico apologo di E. Jandl, non potesse mai rientrare dall’ebbrezza del suo libero volo?

Fang eine liebe Amsel ein Nimm eine schere zart und fein Schneid ab der amsel beide bein Amsel darf immer fliegend sein Steigt höher auf und höher Bis ich ihn nicht mehr sehe Und fast vor lust vergehe Das müsst ein wahrer vogel sein Dem niemals fiel das landen ein12.

Senza dubbio il Wanderer alberga in sé orizzonti sconfinati:

Süd und Nord ist in mir13

ma quella spinta a cercare sempre altro, quel continuo andare, può diventa- re insostenibile e logorante, sterile: nei deserti africani il viandante ha chie- sto bellezza e ricevuto orrore; nei ghiacciai del polo, in quel «rigido caos», «invano fu detta la parola che infonde la vita»14. La conseguenza non può che

essere una:

Also sagt’ ich und jetzt kehr’ ich an den Rhein, in die Heimat15.

Così l’avanzare deve volgersi su se stesso e varcare a ritroso il confine. Quel- lo stesso confine che era stato oltrepassato con slancio impetuoso e pieno di baldanza accoglie ora e placa il logorato viandante restituendolo alla sua fan- ciullezza, alla sua condizione intatta di figlio:

Alt bin ich geworden indeß, mich blaichte der Eispol, Und im Feuer des Süds fielen die Locken mir aus.

Doch, wie Aurora den Thiton, unfängst du in lächender Blühte, Warm und fröhlich, wie einst, Vaterlandserde, den Sohn16.

Lo spazio circoscritto della propria terra perde il tratto limitativo, costrittivo e si rivela luogo di rigenerazione perché la stessa mite bellezza che un tempo aveva svegliato i suoi sensi e la sua fantasia adesso lenisce la tormentosa in- quietudine e anima di nuovo lo spirito esausto:

Schläfrig lässest du nicht werden mein alterndes Haupt. O, die einst mir die Brusterwekte vom Schlafe der Kindheit,

Und mit sanfter Gewalt höher und weiter mich trieb, Mildere Sonne! Zu dir kehr’ ich getreuer und weiser,

Friedlich zu werden und froh unter den Blumen zu ruhn17.

La forza pacificante del confine è un fedele affettuoso abbraccio che avvolge al suo rientro il fuggitivo il cui sguardo, ripercorrendo il paesaggio, ripercor- re il proprio passato:

Treu auch bist du von je, treu auch dem Flüchtinge blieben,

Freundlich nimmst du, wie einst, Himmel der Heimat, mich auf18,

Heimatliche Natur, wie bist du treu mir geblieben19.

Ma la benignità del confine patrio si bilancia con l’asprezza della soglia pa- terna ricomponendo l’immagine del solitario errante e decretando altresì l’im- possibilità di un vero ritorno:

Kommen werd’ ich, wie sonst, und die alten, die Nahmen der Liebe Nennen, beschwören das Herz, ob es noch schlage, wie sonst, Aber stille werden sie seyn. So bindet und scheidet

Manches die Zeit. Ich dünk’ ihnen gestorben, sie mir. Und so bin ich allein20.

La chiostra dei monti, per dirla con Andrea Zanzotto, è un «confine meta»21, fat-

Dort bin ich bald; euch traute Berge, Die mich behüteten einst, der Heimath Verehrte sichre Grenzen, der Mutter Haus

Und liebender Geschwister Umarmungen Begrüß’ ich bald und ihr umschließt mich, Daß, wie in Banden, das Herz mir heile22.

Il ritorno non può tuttavia essere mai definitivo, pena la morte della scrittu- ra, cioè l’arrestarsi del rigo e del verso in una immobilità senza sbocco. La for- ma chiama il limite ma anche l’informe all’interno del quale è tracciata alla stessa maniera del sentiero nel folto. Sempre il poeta dovrà rimettersi in cam- mino e inoltrarsi nella Wildnis, abbandonarsi al piacere della selvatichezza, se vorrà che il suo segno sia demarcazione di territorio e allo stesso tempo aper- tura verso l’illimitato, verso la ricchezza del caos:

Süß ists, zu irren, In heiliger Wildnis23.

Niente meglio del tardo verso hölderliniano «Und lustwandeln, zeitlos»24po-

trebbe costituire il passaggio a un’autrice del nostro tempo, Friederike May- röcker, per la quale l’essere in cammino, topos di fondazione del suo fare ar- tistico, deve intendersi anche come incessante superamento di limiti e confi- ni e di conseguenza come inclinazione metamorfica nascosta nelle pieghe eti- mologiche del verbo wandeln.

Certo, in lei il viandante romantico accampato sullo sfondo di grandi oriz- zonti, boschi frondosi, limpide acque correnti, si è trasformato, massima- mente nelle prose, in vagabondo se non addirittura in barbone metropolita- no che spia la natura nelle sporadiche tracce disseminate nella città oppure nelle cangianze della luce e cerca l’umano nei piccoli dettagli dello sguardo forzatamente ravvicinato. Tuttavia, l’atto di avanzare passo dopo passo appa- re inseparabile, ancora una volta, dall’atto dello scrivere che pone una parola dopo l’altra come si pone un piede dopo l’altro senza necessariamente sapere dove si stia andando:

So bin ich gewandert dieses mein ganzes Leben immer gewandert, mit dem Sohlen-, dem Fersenschuh aufgetreten, laufend, beschwingt, manchmal nachdenklich (be- dächtig), alles hat sich immer um das GEHEN gehandelt, wie wunderbar konnten die beiden Säulen sich fortbewegen, sie bewegen dich fort, du steckst selber in die- sen Säulen, deine Kraft, die du fühlen konntest, verlieh ihnen diese beglückende Rast- losigkeit, dieses dich berauschende Streben nach Nirgendwohin, diese Sucht nach REINER als LEERER Bewegung, ohne einen Inhalt ohne einen Begriff aufnehmen oder befördern zu wollen25.

La dolcezza del vagare senza meta ha come presupposto la forzatura del limes per eccellenza, quello della propria casa:

MAN MUSS DOCH AUCH WEG VON DEN ZIMMERN26.

Una volta fuori alle stanze il piede sfiora amorosamente le pietre del selciato, asseconda ogni avvallamento del marciapiede, segue le file di case quasi trac- ciasse le righe di una pagina. Il piede calcando il suolo ricalca e ricopia i suoi trapassi di linee, forme, nomi, identità, come nel caso di un fiume carsico che, simbolicamente, solo la Wanderung può accompagnare nel suo corso perché solo essa è in grado di riconoscerne, al di là dei mutamenti di denominazione e di aspetto, la continuità celata nella varietà:

hätte er nicht die Möglichkeit gehabt, dem Fluß in langen Fußwanderungen zu folgen, die Namen der einzelnen Abschnitte des Flusses abzuschreiben mit seinen Füßen27.

Il camminare è un tratto esistenziale di Friederike Mayröcker che proprio dai suoi vagabondaggi trae stimoli fondamentali per il lavoro, ma è anche l’im- magine del continuo emigrare del soggetto che via via sconfina da se stesso per diventare altro, esce da una forma raggiunta e conquistata per raggiun- gerne e conquistarne un’altra. Scrivere, come il suo corrispettivo leggere, è in ultima analisi una insistita violazione delle barriere: «ein unablässiges Rupfen in fremden Gärten»28.

Le frequenti metafore venatorie che ne derivano includono infatti sia lo spostamento sul territorio sia la rapacità predatoria. Il bottino che Mayröcker riporta dalle sue scorribande è un’inarrestabile metamorfosi del soggetto, tra- sformato in una quasi mostruosa entità proteiforme incurante di delimitazio- ni: il cacciatore si identifica con il cacciato e la preda dovrà a sua volta, e ine- vitabilmente, divenire predatore se non vorrà interrompere il moto senza frontiere della scrittura.

Il soggetto mayröckeriano e la scrittura che lo esprime hanno natura zin- gara che spontaneamente infrange ogni volta il proprio limite per andare ol- tre e poi trovare o porsi un nuovo limite da infrangere:

Da muß ich auf einen Augenblick warten, wo irgendetwas in mir schreibt und ich bin woanders29.

Nelle sue prose, i personaggi hanno identità mobili e scambievoli e nel suo mondo l’io poetico può impercettibilmente, scivolando su un verbo o un ag- gettivo, trapassare a pianta, oggetto o animale. Le forme e le immagini slitta- no l’una nell’altra frantumando l’identità in una miriade di identificazioni mentre l’io dilaga a moltitudine:

bin ein uferloser Mensch, habe ich ein urteilsloses ich meine uferloses Gehirn? [....] überhaupt scheint es mir, ich sei nur zusammengesetzt aus Einzeltelchen aller Men- schengehirne, mit welchen ich je in Berührung gekommen bin30.

L’andirivieni da e oltre i confini del sé è piuttosto frenetico e non deve stupi- re più di tanto in un autore del secolo che ha codificato la crisi dell’unità del soggetto. Tuttavia, in Mayröcker diviene un vero e proprio turbine che coin- volge, ovidianamente, tutto l’universo delle apparenze. Inoltre, essendo pre- clusa l’idea di origine come preciso e unico punto di scaturigine:

jene finsteren

Sonnen Seidenspinner in meinen mehreren Köpfen31

appare anche precluso un ritorno in senso proprio. Non rimane allora che un gesto di continuo ripiegamento, una sorta di strategia labirintica e reticolare che arresta la spinta propulsiva e obbliga al “verso”, alla conversione verso nessun dove disegnando confini momentanei e provvisori annullati dal suc- cessivo movimento.

Se non si inverte la direzione, infatti, il confine non viene sancito e non viene delineata la forma dall’informe. Più confini si pongono, più forme dun- que si conquistano ma anche più sconfinamenti si rendono necessari, con il conseguente obbligo a considerarsi nomadi.

Se si prendono le composizioni liriche di Friederike Mayröcker si vede co- me l’atto di tracciare linee di demarcazione e quindi di provocare il loro su- peramento si attua, oltre che a livello tematico, anche a livello formale e vi- suale nell’uso quasi violento dell’enjambement e nel particolarissimo impiego dei segni d’interpunzione. Essi costituiscono a volte dei veri e propri eserciti di occupazione che spartiscono prepotentemente e arbitrariamente il testo in- terrompendolo con continui sbarramenti. Altre volte invece si fanno notare per la loro assenza lasciando al solo respiro la decisione di stabilire l’estremo. Anche l’organizzazione interna delle sette raccolte liriche procede non per cicli o per blocchi, ma presenta una struttura mobile e disarticolata, pun- tillistica. Una geografia interiore ed esteriore nella quale l’io si muove a zig- zag, cambiando direzione, gironzolando senza meta e tuttavia sempre all’er- ta, pronto a cogliere ogni trasalimento o trapasso nella serie infinita di cui so- no fatti i mostri giorni, sia che si osservi il mondo fuori di noi che quello den- tro di noi.

Di questo vagabondare materiale e spirituale che si accende per attimi e occasioni sono spia anche le dediche che vengono a far parte della composi- zione, segnando punti fermi e riferimenti in questo andare “vuoto”, vale a di- re pronto ad essere colmato, come nella filosofia Zen, dove la disponibilità a ricevere è il primo passo della conoscenza.

La ricettività estrema, condotta a volte fino all’estrema passività32, sposta e confonde le delimitazioni date per acquisite e ne pone di nuove e diverse, come in un variegato irrequieto caleidoscopio:

das oszillierende Licht Veilchen vielleicht violettes Veilchenlicht: Lüster:

auf dem braunen zusammengeklumpten Lederhandschuh, augentäuschend am Morgen: Irrlichtfarbe und – duft, violette

Erscheinung, als ich schon stand in der Tür das Haus zu verlassen, violetter Handschuh auf der Konsole, oder die Trauergardine33.

Il “mestiere degli occhi” è importantissimo in Mayröcker, che ne fa lo stru- mento privilegiato dell’attivazione della poesia e anche motore di metamor- fosi, passaggi, connessioni percettive e mnemoniche destinate a scomporre e ricomporre l’insieme delle apparenze intrecciandole in nuove trame e profi- landone nuove figurazioni:

irgend Augegewerbe: süßes Lid einer mich heftig einholenden Vergangenheit, während der Estrich in sonnenüberfluteten

Gehäuse

Mit weißlichen Sternen übersät, die verschüttete Milch Oder die Blumen Saft34.

La liquidità permette la mescolanza e il mutamento e non a caso l’acqua è un motivo ricorrente in Mayröcker: l’acqua è nessuna e tutte le forme, è l’indi- stinto che contiene in sé ogni qualsiasi distinzione, analoga in ciò al groviglio e al viluppo, grumi di potenzialità:

nein / ich war damals

Hunger Kälte Bomberschwärme und Fatalismus (Körper eines Wassers)

ja / ich bin jetzt

erstickte Hybris gemiedene Lüge genährter Zorn vermeintliche Liebe

(Tiradengebüsch)35.

Il punto di arrivo delle linee della vita è ancora una volta il caos, l’intrico dei possibili, oltre che la rinuncia del soggetto ad addomesticare l’incoercibile sostanza vitale e verbale. L’infinita ricchezza polimorfa della giovinezza e del- la poesia alla conquista di se stesse parrebbe sfociare in uno scacco totale, se non fosse che l’immagine del Gebüsch ha anche una valenza positiva nel si-

gnificare la feconda selvatichezza della scrittura e del linguaggio. Il groviglio è intersezione dei molteplici, incrocio dei cammini, simultaneità delle dire- zioni, costante confutazione dell’idea di confine:

ich bin

keine Ameise sondern im

Lerchenkleid sondern feldgrün und blau Sondern das unzertrennliche

Freundespaar – Herzrose Blumenstern Dioskurenknospe in seiner Brust [...]36

Ein Liebespaar in der Nische, die Eichhörnchen In Gestalt von wandelnden Taubenpaaren37

warst du

dann grün oder braun, die Strasze hinunter, bist du das dann gewesen, Jasmin – ich sah dich

weisz oder grün in der Strasze38.

Il camminare immerge e confonde il viandante con il paesaggio e scambia i lo- ro tratti:

es schwirrt

empor und schmilzt

im Baum des Vogels Lied im frühen März im kahlen

Auge39

ich spiegelte mich im grellen Konturen, einer Landschaft

eines Horizonts der Abdruck des nassen Fußes auf dem Parkett – es zeichnete sich die Höhlung ab als trockenes

Eiland: plötzlich ein Delta drin, sagt E. v. S, ein Frauenschweben40.

Il “cane pellegrino” alla Dürer, che nella poesia citata sopra introduce il te- ma del girovagare, rappresenta una delle più frequenti identificazioni dell’io mayröckeriano e una delle metafore più insistite della scrittura: umile e ser- vizievole ma anche randagio, di casa ovunque e in nessun luogo come la sua amica nel cielo, la luna instancabile e vagabonda:

dieser

dunkle Mann mit dem breitkrempigen Haut dieser

Mann in den Margaritenfeldern geht dieser Tränenknecht dieser Mond

Oder Ringelblumengespinst geht dieser Mond oder Mann41. IL PASSO ZINGARO DELLA POESIA

L’orizzonte dei vagabondaggi è non di rado cittadino; è un aggirarsi un po’ in- dolente per strade e vicoli e la loro vita giornaliera osservata nei più piccoli cambiamenti della moda e del costume, spiata fino a trovarne il nucleo pro- fondo sotto la superficie allo stesso modo in cui si estrae energia espressiva dai cascami del linguaggio e dall’uso del parlato:

und eingewindelt in ihre Miniröcke Bermudashorts die jungen Frauen hochstöckig behindert

der junge Neger zur Seite getreten seitlich zur Wand wie um zu urinieren nämlich die Kravatte zu binden nämlich für diese Intimität unter den Torbogen des Hauses getreten sich meinen forschenden Blicken solcherweise entzogen42

die Allerjüngsten bereits mit Mode-, Marottenhaarschnitt, das Affen-, das Ärmelfutter gestreift

der Damenjacketts bis zum Ellbogen aufgekrempelt43

flüchtig über dem Bürgersteig, gestikulierend, mit dem Rücken gegen die Kirchenmauer, die

taubenfütternde Alte, ein abgestorbener herabhängender Lindenzweig wischt mir über die Stirn44.

Riemerge in qualche modo la figura del flâneur, ma con spirito meno di- staccato e più partecipe, consapevole di muoversi da marginale fra margi- nali e dunque ancora una volta pronto a uno scatto di sconfinamento e di immedesimazione, vuoi nell’impaccio di ragazze troppo alla moda e quasi indifese di fronte alla tirannia dei tempi, vuoi in una sorta di ineludibile do-