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di Michele Ranchett

2 Über sich selbst

1. «Ha insegnato molto e non ha imparato “niente”». Ho immaginato que- sto mio necrologio già alcuni anni fa. E credo che sia vero anche a distanza di anni. È vero, mi sembra, nel senso che l’apprendimento, nel modo tradizio- nale, di acquisizione di nozioni, di fatti, di date, di esperienze, che caratteriz- za ogni esistenza (e in parte anche la mia) e corrisponde ad una crescita, a un itinerario verso una certezza o almeno una persuasione conoscitiva, estetica, morale, religiosa, si è sempre accompagnato, in me, spesso scontrato con una

sorta di deposito originario rimasto immutato, direi intangibile, in larga mi- sura, inconscio. Ed è a questo deposito non dottrinale, né esperienziale, che fa riferimento, meglio, che attinge ogni mia forma di espressione: poetica, ar- tistica, musicale, ma anche ogni idea, filosofica, o religiosa (per quanto possa apparire una contraddizione in termini).

2. Deriva da qui, io credo, la mia mancanza di curiosità, di spirito di avven- tura, di fantasia, l’impossibilità di leggere romanzi, di inventare storie, lo scar- so interesse per il teatro, e anche per la pittura narrativa. Potrei dire anche, esagerando, per la storia, in quanto storia di fatti che si sono succeduti a com- porre le vicende e i caratteri di un’epoca.

3. Tutto questo può sembrare, ed è forse arroganza, come di chi pretende di sapere già tutto, e non ha bisogno di altro che del proprio sapere, di cui si nu- tre. Ma non è così. O almeno non è così semplice. Nella realtà, io percepisco, in me, come due vie parallele: una tradizionale, quella dell’accrescimento del- la cultura e del perfezionamento della sua comprensione. E l’altra, che non è una via, ma un assieme indistinto di un sapere diverso, di cui non conosco l’origine e la provenienza.

4. Segno di questo sarebbe il fatto che in ogni mia forma espressiva (dise- gno, poesia, musica, prosa accademica) non vi è stato mutamento di “stile”, nessuna “sperimentazione” di generi, di maniere: è tutto rimasto come era al- l’origine, dalle prime poesie composte a tredici-quattordici anni alle ultime, dai primi disegni agli ultimi, senza un qualsiasi cenno di un percorso, di una “crisi” formale o teoretica (o religiosa), senza alcuna traccia di ricerca. 5. Naturalmente, qualche mutamento c’è stato, e si vede. Ma è come se il mutamento si fosse aggiunto ad una costante, rimasta immutata. Ossia, una contraddizione, o una tautologia più ampia.

6. Mi sono interrogato sulle ragioni di tutto questo. E da ragazzo sono an- che andato a confessarmi. Solo che, dopo qualche tempo, in luogo di esporre al confessore i miei peccati, in atto di contrizione, li ho esposti facendoli pre- cedere da un “non” («non devo, non avrei dovuto, non dovrò più») conse- guendo una assoluzione che mi ero già data e facendo coincidere consapevo- lezza e perdono.

7. Ho anche cercato una spiegazione in un lungo periodo di malattia, fra i do- dici e i sedici anni. Durante questo periodo ero diventato grasso e questo mi ha impedito di partecipare ai giochi dei compagni, isolandomi e sottraendomi ad una vita fisica. Ero escluso dalla ginnastica e anche dalle adunate. Mi invi- tavano a non prendervi parte, per non far sfigurare il manipolo dei balilla e poi degli avanguardisti, ero preso in giro dai compagni. Questo ha certamente prodotto una separazione dal mondo esterno ed un conseguente accumulo di esperienza interiore, non visibile, e forse il trasferimento nell’immobilità e nel- la fissazione dei movimenti di pensiero e di vita che, non agiti e non espressi, venivano a formare come uno strato di detriti di esistenza non consumata.

8. Ma è una congettura. In realtà non ricordo di aver sofferto in modo parti- colare di una diversità. Andavo a scuola, non ero bravo, ero solo un buon sco- laro non diligente e non interessato. Avevo pochi amici e prendevo parte agli amori di mio fratello maggiore, struggendomi in solitudine ma in fondo pago dei suoi successi e del suo grande amore per me, durato tutta la nostra vita. 9. Ritornato normale nel fisico dopo i sedici anni, mi sono trovato privo di quella giovinezza, certo irrecuperabile, e incapace di prendere atto del mio stato presente, perché avevo conservato quella distanza fra il mio corpo e l’esterno in cui ero così a lungo vissuto.

10. Vivevo in una famiglia agiata. Mio padre era siciliano, mia madre lombar- da. Mio padre non l’ho quasi conosciuto se non come una presenza affettiva e protettiva che si esprimeva in gesti. Non aveva potuto seguire la sua vocazione di medico perché aveva dovuto interrompere lo studio della medicina alla mor- te di suo padre e provvedere ai suoi sette fratelli e alla madre, analfabeta. Mi portava con mio fratello ogni anno a Palermo dove riprendeva a vivere “se- condo natura”, riparlava in dialetto, distribuiva coccole e dolci ai fratelli e ai nipoti. Ma era una parentesi, di cui io ricordo soltanto l’arrivo con la nave, di prima mattina, e si vedeva Monte Pellegrino. Poi la guerra gli ha impedito que- ste parentesi e le brevi riprese della gioia naturale di vivere gettandolo in una disperazione crescente che è divenuta quasi subito una malattia mortale. 11. Mia madre era lombarda, cattolica e fascista. Ha sempre creduto di esse- re credente ma non so se ne fosse del tutto persuasa. Me lo fanno pensare cer- te sue domande sul mondo dei morti, estranee alla dottrina della beatitudine eterna e piuttosto indice di un’incredulità nei confronti dell’assetto borghese del paradiso come continuazione e perfezionamento dell’agiatezza in cui era sempre vissuta: un’incrinatura, anche, della sua fede cattolica incarnata nel fa- scismo, una critica velata alla conciliazione, che tuttavia aveva accolto come l’opera maggiore del regime. Era patriottica e voleva patriottici i suoi figli, mentre mio padre considerava la patria e il fascismo perdite di tempo e di di- gnità civile. Mio padre non era religioso nel più puro stile della superstizione meridionale: aveva i santini nel portafoglio e li baciava ogni sera insieme alle fotografie dei suoi morti e dei suoi figli.

12. Sono stato educato nella confessione di fede cattolica, apostolica e roma- na. Educato, più che istruito, perché la dottrina del catechismo di Pio Xnon mi fu mai spiegata, ma indotta, nella preparazione alla Prima Comunione. Mi sembrava del tutto naturale che le cose stessero così, come dicevano i paragra- fi del catechismo, ma non mi sono mai chiesto, né nessuno degli istruttori al- l’oratorio mi ha fatto mai capire, cosa mai fossero queste cose che stavano co- sì, e di cosa mai parlassero i comandamenti. Era come una sorta di istruzione per l’uso di un farmaco per una malattia che non sapevo cosa fosse. Del resto, in ginnasio, il libro di religione si chiamava I conforti della fede, ma io e i miei compagni non ci siamo mai chiesti perché mai dovessimo essere confortati.

13. Non credo, quindi, a distanza di molti anni, di essere stato un giovanet- to religioso e quindi non credo di aver perso la fede. Se mai, posso chieder- melo ora, sostituendo a quasi tutti i principi che costituiscono la dottrina cat- tolica, altri principi che costituiscono l’essenza del cristianesimo e che pos- sono riconoscersi in quasi tutte le forme della cultura e dell’intelligenza in cui sono vissuto.

14. Non ho avuto maestri, non nelle scuole superiori, di cui non ricordo qua- si niente, né all’università, che ho frequentato subito dopo la fine della guer- ra. Credo dipenda dal fatto che la guerra, a cui non avevo preso parte per ra- gioni di età e altre, private (la partecipazione di mio fratello alla guerra con- tro la volontà di mio padre ha fatto prevalere in me la decisione di conserva- re, con la mia presenza, un equilibrio affettivo, una piccola vita di famiglia, in mancanza di un qualsiasi criterio di giudizio pubblico, di verità di parte) ha provocato un’esigenza di radicalità etica che non poteva essere certo sod- disfatta da alcune figure di docenti che intuivo corrotte da una lunga obbe- dienza al fascismo e dalla subita necessità di offrirsi disponibili al nuovo cor- so. O almeno così mi sembrava, forse a torto, anche per filosofi come Anto- nio Banfi o Gustavo Contadini. Sembrava a me che avessero fatto troppo pre- sto a rimettersi ad insegnare, senza una sufficiente meditazione, una pausa di ripensamento, di cesura.

15. Mi sono laureato in storia, con una tesi sul pensiero politico del Quattro- cento, suggeritami da Federico Chabod ma condotta da solo, perché Chabod era stato destinato a dirigere l’Istituto Croce di Napoli. L’argomento non mi era affatto congeniale e la tesi non fu giustamente meritevole di una borsa per l’Istituto di Napoli. Avrei preferito occuparmi di eretici, non so bene perché, ma un colloquio per la ricerca di un argomento con don Giuseppe De Luca, a Roma, mi aveva lasciato profondamente deluso. Umanamente deluso, per quella che mi era apparsa come una sua dolcezza eccessiva, quasi una melli- fluità allusiva e sapiente da prete romano che ne ha viste tante e tuttavia è ri- masto fedele sia alla ricerca che alla professione di fede cattolica.

16. Ho creduto allora che l’insegnamento universitario mi fosse precluso per sempre. E ho fatto altro, pur aderendo all’invito di Giuseppe Martini di di- venire suo assistente volontario alla cattedra di storia medioevale.

17. Ho fatto molti lavori. Sono stato segretario di Adriano Olivetti a Ivrea per due anni, ma senza troppo credere alla novità dell’esperimento umanistico in- dustriale che altri accanto a me contribuivano a realizzare. Qui ho conosciu- to Fortini, il primo, credo, a cui ho fatto leggere le mie poesie.

18. Avevo scritto poesie sin dai dieci, dodici anni, così come avevo disegnato e composto musica. Come un fatto naturale e non come un proposito di “espri- mere me stesso”. Ossia, mi sembra, non avevo alcuna necessità di affermarmi, di farmi presente al mondo delle lettere e delle arti, con la mia voce e le mie fi- gure. Non volevo essere riconosciuto e iscritto “nel novero” dei poeti e degli

artisti. Era una sorta di elaborazione privata. Potrei definirla un’elaborazione del lutto, se sapessi di quale mai perdita io fossi consapevole.

19. E così, in una sorta di vite parallele, ho continuato a fare fino ad ora. 20. Ho trovato maestri in alcuni autori, due in particolare: Wittgenstein e Freud. In entrambi ho cercato e riconosciuto il proposito, più esplicito nel se- condo, di cominciare da capo, ossia da un’interrogazione radicale, in una sor- ta di “prima” che mi sembrava corrispondere a un mio desiderio, piuttosto che a un mio bisogno teoretico: la costruzione di un luogo iniziale da cui far partire i tracciati della mente e degli affetti. Ho contribuito a farne conoscere le opere, iniziando un’edizione completa delle opere di Wittgenstein fino ad allora apparse in forma antologica non corrispondente agli originali e promo- vendo e curando in parte l’edizione italiana di Freud. Non credo affatto di averne capito il pensiero, così come non capivo il pensiero dei filosofi al liceo, ma mi sono posto in una sorta di imitazione conoscitiva ed etica che credo sia intervenuta a sorreggere quanto venivo scrivendo. Così, ad esempio, vorrei usare alcuni concetti fondamentali di Freud per descrivere il procedimento di composizione delle mie poesie: Besetzung, Verschiebung, Befreiung, ossia oc- cupazione, spostamento e liberazione, a indicare i diversi momenti (ma anche momento è termine freudiano): l’occupazione della mente da un peso nemi- co (Besetzung è un termine di origine militare), lo spostamento della tensione emotiva in altro, ad esempio una forma espressiva, alcune parole, e la conse- guente liberazione dall’oppressione e dalla fissazione emotiva. In ogni caso, per tutto il breve percorso, se così si può chiamare, è l’affetto, in senso freu- diano e spinoziano, a dettare le regole che a me, esecutore, rimangono tutta- via in un certo senso estranee. Quanto a Wittgenstein, mi sono accostato al suo proposito, che non è unicamente morale, di divenire un uomo decente forse solo per poter dire con lui, alla fine della mia esistenza, di «aver avuto una vita felice». Dire agli altri, ai rimasti, forse più che a me stesso.

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Leggere Benjamin

1. Ho avuto sempre una grande difficoltà a leggere Benjamin. Per due ra- gioni, soprattutto: la difficoltà della lingua e la percezione, immediata e non motivata, di una particolare congenialità della sua figura. Due ragioni opposte solo in apparenza. La lingua di Benjamin è difficile, non immediata, non scor- revole. Difficile quasi come quella di Adorno, che gli stessi tedeschi faticano a intendere. Ma, mentre per Adorno si può ora ricorrere alla trascrizione delle sue lezioni, molto più semplici forse perché mediate dalla necessaria chiarez- za della esposizione orale; per Benjamin ogni singola frase, anche nelle lettere meno impegnate, nei biglietti di auguri, appartiene a una lingua articolata in un ductus che sembra contorto. È una lingua che respinge la traduzione, o al-

meno che non invita alla traduzione, come se, nel passaggio alla versione ita- liana, essa perdesse qualcosa di irripetibile e proprio. Mi viene in mente una frase scritta durante il nazismo e riferita da Klemperer nei suoi diari: «Un ebreo che parla tedesco, mente». Faceva parte, questa frase, dell’invasione della lin- gua ad opera della propaganda nazista, e Klemperer l’annota nella sua raccol- ta di espressioni della Lingua Tertii Imperii. La mia è un’associazione eccessi- va, certamente, ma indica, nel processo di estirpazione della forma naturale d’espressione dell’ebreo tedesco, per ricondurlo alla sua diversità non conver- tibile, la violenza di un potere che agisce là proprio dove il singolo ha la sua na- tura di parlante. Questo, almeno, come prima determinazione.

La seconda difficoltà, quella della congenialità della sua figura, non so davvero come e perché possa originarsi. Ma è un fatto. Non sono ebreo, non sono tedesco, non sono stato perseguitato, non ho dovuto divenire un erran- te. Non vi è, cioè, nulla che possa indurre un’identificazione motivata. Eppu- re, sin dalla prima lettura, in italiano, questa volta, degli scritti di Angelus No- vus, tradotti da Renato Solmi mio amico e compagno di classe, ho percepito un’affinità che sarebbe riduttivo definire elettiva. Mi chiedo, come mi sono chiesto molte volte, perché. Gli scritti che compongono l’antologia sono di ca- rattere vario: lo spettro degli interessi del loro autore non corrisponde a un progetto “disciplinare”. Sappiamo ora, dopo le biografie e le testimonianze su Benjamin, che questo carattere di interdisciplinarietà non è vocazionale, ma è indotto dalle circostanze, in particolare dal rifiuto dell’accademia ad acco- gliere la sua dissertazione e quindi a iscriverlo nei suoi ruoli, come a Benjamin sembrava naturale e giusto. Da questa cesura, o interruzione di un percorso prevedibile e, in un certo senso, tradizionale, deriva una sorta di dispersione della intelligenza critica di Benjamin in campi diversi, non tutti di ugual valo- re e rilevanza, con una disponibilità curiosa inestinguibile, come se tutto, ogni parola scritta, valesse la pena di essere osservata, compresa, ricondotta a una serie, a un progetto di scrittura e di vita. Non era così per molti autori mino- ri, oggetto delle sue recensioni, e ci si chiede perché Benjamin “sprecasse” la sua straordinaria intelligenza occupandosi di questi scritti di occasione. Non so se vi è una ragione prevalente se non forse l’idea che nulla dovesse andare perduto e, anche, che ogni cosa potesse avere il carattere di elemento costitu- tivo di una crescente fenomenologia composta di materiale di diverso ordine e grado ed era pertanto necessario procedere a un loro esame, per quanto provvisorio, nella prospettiva di un loro futuro ordinamento. E per far que- sto, era necessario non sovrapporre, per il momento, alcun criterio discrimi- nante tratto da una disciplina particolare: filosofia, teologia o anche lettera- tura. L’individuazione dei temi, delle categorie, sarebbe intervenuta in un se- condo tempo. L’amico Scholem operava certo al suo fianco, e la trascrizione dei loro colloqui che figura nei diari di Scholem testimonia dell’affinità dei lo- ro interessi. Ma mentre in Scholem già giovanissimo si intravede un percorso,

una progressiva riduzione delle curiosità e delle ambizioni (oltre alla perdita di una prospettiva messianica che poteva persino prevedere un suo investi- mento diretto come il vero “messia”), in Benjamin si avverte, a me sembra, una certa reticenza nei confronti di una riduzione del campo, che direi visivo, più che parziale. Ossia, in certo modo, una scelta, ma nell’ordine di un’espe- rienza continua, di un percorso non indirizzato a un fine, e la persuasione che solo nella disponibilità nei confronti di ogni aspetto della scrittura e della vi- ta consistesse per lui il compito non eludibile, il suo proprio.

Gli anni in cui si compie questa decisione verso l’esperienza conoscitiva sono quelli attorno alla prima guerra mondiale. Forse più di altri, e più dello stesso Scholem, a me sembra che Benjamin fosse, in un certo senso, prema- turamente consapevole del loro carattere straordinario, forse irripetibile: la presenza di correnti spirituali, politiche, artistiche al loro incrocio, che pote- va anche corrispondere alla loro fine, di contraddizioni in qualche modo com- patibili: di espressioni artistiche estreme nelle quali si accertava la compre- senza di volontà eversive di grado opposto in figurazioni simili. Erano anche gli anni della psicoanalisi nella sua forma di movimento tendente a rivoluzio- nare le coscienze di sé dei singoli non solo nell’aspetto della sofferenza ner- vosa, ma nella ricerca di un senso collettivo dell’esistenza dei gruppi, delle fa- miglie e della società, della scoperta degli affetti dell’inconscio e della neces- sità di una terapia non intesa a comporre nella norma le differenze delle pul- sioni e degli istinti quanto a riconoscerne le origini e a esplicitarne le ragioni e a viverle nei fatti. In quegli anni, mentre Scholem si interrogava sui modi e le forme del vero sionismo e ne riferiva all’amico Benjamin, altri cercavano di costruire un’intelligenza dell’ebraismo per via analitica attorno a Frieda Rei- chmann in un luogo, chiamato scherzosamente Thorapeuticum, dove si esa- minavano i testi della cultura ebraica, a cominciare dal Talmud, in una pro- spettiva per così dire delle origini, e in vista di conseguenze “operative” per la sorte dei singoli pazienti ebrei. In altre parole, era l’ebraismo ad essere sot- toposto ad analisi. Anche l’ebraismo, come tutto il resto.

2. Di questa prospettiva di interrogazione assoluta, non precostituita da competenze disciplinari (erano proprio queste competenze ad essere messe in dubbio), a me sembra che Benjamin sia l’esponente più autentico, ed è forse per questo carattere della sua figura che io ho creduto di avvertire la conge- nialità che ho indicato come la seconda difficoltà incontrata nel leggere Ben- jamin. Infatti il simile induce all’imitazione e non al confronto. E credo che siano in molti coloro che, letta una riga di Benjamin, in particolare un passo dei frammenti del Passagenwerk, si siano sentiti autorizzati a mettersi in cam- mino con lui, a passeggiare per Parigi, o Poggibonsi, e a raccogliere materiali per una nuova fenomenologia dei detriti. Ma a me sembra che essi forse ab- biano frainteso l’intenzione che presiedeva il percorso solo in apparenza iti-

nerante di Benjamin: la necessità di costruire un ordine, e non di valersi, di appropriarsi e di usufruire del disordine. Talvolta in modo puramente edoni- stico, e non ludico. Benjamin non è riuscito, o meglio ha dovuto abbandona- re un progetto in cui si veniva riconoscendo il senso della sua esistenza, per- ché costretto a fuggire da una persecuzione; questi celebrano un banchetto dei resti. Benjamin ha lasciato alcune delle sue cartelle a Bataille, di cui era