Fin dall’inizio si può constatare un investimento fortemente simbolico del tema del confine nell’opera di Ingeborg Bachmann, nata nel 1926 a Klagen- furt, quando in Carinzia era ancora molto vicino e vivo il ricordo del con- flitto confinario con la Jugoslavia all’indomani del crollo della sovranazio- nale monarchia austro-ungarica, e formatasi nel clima dell’esasperato nazio- nalismo propugnato prima e ancor di più dopo l’Anschluß dell’Austria alla Germania hitleriana. Nella sua nota autobiografica Biographisches (1952) l’au- trice, che si è appena affacciata alla scena letteraria, imputa alla sua terra d’ori- gine l’acquisizione di una coscienza del confine, che la porta a definire anche la città della sua formazione culturale e artistica, Vienna, come un luogo di con- fine: «Fu di nuovo una casa di confine: tra Oriente e Occidente, tra un grande passato e un futuro oscuro» (WIV, p. 3011). Questo aspetto spaziale e tempo- rale del confine rappresentato da Vienna è uno dei fili conduttori della poesia Grande paesaggio nei dintorni di Vienna, che chiude la sua prima raccolta liri- ca, Die gestundete Zeit (Il tempo concesso a revoca,1953). In questo testo non compare la parola Grenze, ma una formulazione che rimanda a un preciso mo- mento storico, quello del limes romano: l’espressione «il sentimento ebbro del limes» («trunkenes Limesgefühl») sta per una nostalgia pericolosa del passato, che va invece ricordato e registrato lucidamente, senza sublimazioni “ebbre”. L’impegno alla memoria storica è il filo conduttore dell’opera bachman- niana e rimanda talvolta a una situazione attuale e concreta, come nella poe- sia Mezzogiorno precoce o in numerosi dei successivi testi in prosa, talvolta a una situazione di filosofia della storia, sempre ambientata in topografie di con- fine, come per esempio la Carinzia del ciclo lirico Di un paese, un fiume e i la- ghi, la Venezia della poesia Valzer nero, la Roma del testo in prosa Quel che ho visto e udito a Roma (1955) o la Berlino del suo discorso di ringraziamento per il conferimento del premio Büchner (Un luogo per casualità,1964).
In particolare, nella quinta poesia del già menzionato ciclo Di un paese, un fiume e i laghi, la parola Grenze, in sette strofe di quattro versi ciascuna, compare sei volte: il confine politico-territoriale e i confini linguistici vengo- no rappresentati come qualcosa di innaturale (la natura vi si ribella) e di di- sumano, che può essere contrastato tramite un confronto e un fare propria la separazione da parte di ogni singolo individuo:
Affinché niente ci separi, ognuno deve sentire la separazione [...]
Noi però vogliamo parlare di confini,
e attraversiamo confini anche in ogni singola parola: noi li passeremo per nostalgia
e poi saremo in armonia con ogni luogo (WI, p. 89).
Nello sviluppo dell’opera bachmanniana il confine diventa sempre più un luo- go e un tempo interiore da cui nasce un potente insieme di immagini e meta- fore. I confini, i limiti, le zone d’ombra e di passaggio devono essere resi visi- bili tramite una scrittura che «dice le cose oscure», come suona il titolo di una poesia contenuta nella raccolta del 1953.
Nella prosa della fase centrale della produzione bachmanniana il tema della separazione e del conflitto che devono venir esperiti dal singolo nel pro- cesso di costruzione della soggettività trova la sua espressione letterariamen- te più completa nella breve prosa di Ondina se ne va, l’ultimo racconto del Trentesimo anno (1961): l’elemento che caratterizza la figura della ninfa Ondi- na, l’acqua, non conosce al suo interno né limiti né confini; proprio per que- sto Ondina parla dell’acqua come del «confine umido tra me e me» (WII, p. 254). Allo stesso tempo, il testo cerca di superare anche strutturalmente i con- fini comunemente posti a una narrazione, per esempio il confine della linea- rità, del prima e del dopo, della causalità: il testo realizza nella sua dinamica interna il movimento oscillatorio dell’onda, con le ultime parole si ritorna al- l’inizio del testo, all’andarsene annunciato nel titolo risponde alla fine l’ap- pello a venire, a tornare2.
Anche gli altri racconti del Trentesimo anno sono costruiti attorno al mo- tivo del superamento dei limiti comunemente accettati nei vari ambiti, il lin- guaggio, l’amore, la ricerca della verità; in una sua dichiarazione poetologica3
fatta nel periodo in cui più intenso è il lavoro a questi racconti (1959), Inge- borg Bachmann sottolinea l’intensa carica utopica del tema dei casi-limite (viene usato il termine Grenzfälle), per allargare i confini del proprio mondo, in un’interpretazione pragmatica dell’assunto di Wittgenstein «I confini del mio linguaggio significano i confini del mio mondo»4.
Perché in ogni cosa che facciamo, pensiamo o proviamo talvolta vorremmo arriva- re al limite estremo. Si risveglia in noi il desiderio di oltrepassare i confini che ci so- no posti.
[...] Da questa parte del confine, però, manteniamo lo sguardo rivolto a ciò che è perfetto, impossibile, irraggiungibile, sia che si tratti dell’amore, della libertà o di ogni pura grandezza. Nel rapporto dialettico tra impossibile e possibile ampliamo le nostre possibilità. Conta che noi creiamo questo rapporto di tensione, grazie al quale pos- siamo crescere; conta che ci orientiamo verso una meta la quale, certo, quando ci av- viciniamo si allontana un’altra volta (WIV, p. 276).
Nelle sue lezioni di poetica note come Lezioni di Francoforte (1959-60), in par- ticolare nella lezione intitolata Letteratura come utopia, l’autrice parla della letteratura come di un territorio che deve avere confini aperti verso il futuro, in modo da poter rappresentare «ciò per cui il tempo non è ancora venuto». D’altra parte, nell’opera della Bachmann si precisa la consapevolezza del- la necessità di rendere visibili le lacerazioni, gli strappi, le crepe, le separazio- ni, per esempio il Muro di Berlino (Un luogo per casualità,1964); nel testo con- cepito per la rivista internazionale “Gulliver” (1963) si legge:
Pensare, certo, pensare storicizzando e soprattutto pensare in modo utopico, in mo- do che le crepe un giorno veramente erompano, là dove devono erompere e dove si deve manifestare il tracciato dei confini, come crepe ideologiche, se si vuole, come cre- pe nell’uso del linguaggio, che non riguardano solo colui che scrive, ma che riguarda- no lui per primo (WIV,70).
Sembra di sentire qui l’annuncio del tema del romanzo Malina (1971), in cui, tra l’altro, la protagonista afferma a vari livelli la propria insofferenza per i confini tracciati dopo il crollo della monarchia asburgica. Malina è ambienta- to a Vienna, nella Ungargaße; vi è inserito un testo, I segreti della Principessa di Kagran, ambientato in un tempo in cui «non esistevano ancora i confini», la protagonista deve affrontare una situazione-limite, «al confine del mondo umano», in una vera e propria discesa agli inferi.
L’assunzione del confine come dimensione interiore, che era già stato an- che di Ondina (che ha molti tratti in comune con la Principessa di Kagran), ritorna nella protagonista dell’ultimo dei testi pubblicati in vita, il racconto Tre sentieri per il lago (1972); anche qui, come in Malina, viene immaginato un territorio privo di confini: la protagonista Elisabeth Matrei e suo padre ricor- dano spesso il passato dello Stato asburgico; Elisabeth, una fotografa di suc- cesso che vive a Parigi e che è ritornata a Klagenfurt a trovare suo padre, fa delle lunghe passeggiate intorno al Wörthersee e spesso rivolge lo sguardo verso sud e verso la zona tra Carinzia, Italia e Slovenia («Dreiländereck»):
fissò lo sguardo verso il Dreiländereck, laggiù avrebbe voluto vivere, in un luogo isola- to sul confine, dove c’erano ancora contadini e cacciatori e pensò inconsapevolmente che anche lei avrebbe incominciato così: Ai miei popoli! Ma non li avrebbe mandati a morire, provocando tutte quelle separazioni, poiché erano vissuti bene insieme, natu- ralmente sempre nell’incomprensione, nell’odio e nella ribellione, ma non si poteva davvero esigere dagli uomini di farsi governare dalla ragione (WII, pp. 444-5).
Il confronto con il passato storico viene ulteriormente approfondito grazie al- l’introduzione nel racconto bachmanniano dei personaggi ripresi dalla Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth, in particolare di Franz Joseph Eugen Trotta, «un extraterritoriale» che non riesce più a trovare un radicamento in nessun
luogo, fino ad arrivare al suicidio; ma la protagonista Elisabeth Matrei, a dif- ferenza di Trotta, riesce ad assumere la propria estraneità, la propria Fremd- heit, come destino.
In quella che Bachmann ha considerato la sua ultima poesia, La Boemia si trova sul mare, il superamento anche dei propri confini interiori5era stato pro- iettato su un territorio che ha un nome e una realtà ben determinati, ma che una lunga tradizione letteraria, iniziata con Shakespeare, ha reso un luogo del- l’immaginario letterario e utopico. Pubblicata nel 1968, La Boemia si trova sul mare è per Ingeborg Bachmann il testo a cui più si sente legata e dal quale tut- tavia potrebbe anche immaginare di togliere il proprio nome quale autrice, perché si tratta di un regalo a tutta l’umanità6:
Io confino con un parola e con un’altra terra, confino, anche se poco, sempre più con tutto,
boemo, chierico vagante, che niente ha, che niente trattiene
dotato soltanto dal mare, che è dubbio, di occhi per la mia terra d’elezione7. Note
1. Le citazioni sono tratte dall’edizione Werke (d’ora in avanti W, seguito dal numero del volume e della pagina), hrsg. von Ch. Koschel, I. von Weidenbaum, C. Münster, 4 voll., Piper, München1978.
2. Per il superamento, da parte della frontaliera Ondina, di altri tipi di confini, come quel- lo tra soggetto e oggetto, in particolare all’interno del discorso artistico, cfr. R. Svandrlik, Inge-
borg Bachmann: i sentieri della scrittura, Carocci, Roma 2001.
3. Si tratta del testo La verità è esigibile dagli uomini, discorso di ringraziamento per il pre- mio dell’Associazione ciechi di guerra, ottenuto per il radiodramma Il Buon Dio di Manhattan. 4. Cfr. i due saggi dedicati dall’autrice a Wittgenstein, nel quarto volume dell’edizione
Werke; cfr. anche il saggio di M. M. Schäffer Ungetrennt und Nichtvereint. Grenzverläufe im Werk Ingeborg Bachmanns, in “text+kritik”, XI,1995, pp. 59-70.
5. La connotazione attiva e dinamica di tale superamento è indicata dal fatto che in tutta la poesia non viene usato il sostantivo Grenze, bensì il verbo grenzen, cfr. anche Ch. Ivanovic’,
Böhmen als Heterotopie, in Werke von Ingeborg Bachmann: Interpretationen, hrsg. von M. Mayer,
Reclam, Stuttgart 2002, pp. 109-21.
6. Cfr. le annotazioni trovate nel lascito, citate nel volume di S. Weigel, Ingeborg Bachmann.
Hinterlassenschaften unter Wahrung des Briefgeheimnisses, Paul Zsolnay-Verlag, Wien 1999, pp. 319 e 356.
7. Traduzione di A. Raja, in L. D’Eramo, G. Sobrino (a cura di), Europa in versi. La poesia
femminile del ’900, Ventaglio, Roma 1989, modificata per poter mantenere “confinare” quale tra-