• Non ci sono risultati.

1. Zarathustra è colui che annuncia il superuomo e l’eterno ritorno del- l’eguale. Il primo annuncio è in funzione del secondo: solo oltrepassando se stesso l’uomo potrà sopravvivere alla scoperta che il suo è un cammino senza meta, che nel suo futuro nulla v’è che già non sia stato. È questo, infatti, il pri- mo e più evidente significato della verità abissale che Zarathustra vuol rivela- re. Si tratta, certamente, di un modo di pensare l’eterno e l’infinito, questi luo- ghi canonici della tradizione metafisica, ma si tratta precisamente di quel mo- do di pensarli che più direttamente e radicalmente le si contrappone, rove- sciandola alla base, rovesciandola in quell’idea e sentimento dell’eterno a cui ogni visione teosofica e consolatoria si aggrappa. Pensarlo come eterno ritor- no significa impedirsi di pensare l’eterno come possibile condizione di senso del divenire. Significa obbligarsi a pensare il divenire e ciò che diviene come privi di senso, di telos, di direzione. Ma ciò che diviene è realtà, ogni aspetto della realtà. È la realtà tutta, dunque, ad apparire come un tale processo sen- za direzione, senza un dove da cui provenire e verso cui andare. L’immagine del circolo applicata non a questo o quel mondo storico1, ma all’intero pro-

cesso del reale, serve a Nietzsche per rendere impensabile l’idea stessa di per- fezione e, con essa, ogni idea di progresso: per togliere all’infinito e all’eterno ogni capacità di dare valore al finito e al tempo.

Nello sviluppo del pensiero nietzscheano, l’idea dell’eterno ritorno del- l’eguale si prospetta come un corollario della non meno celebre tesi della mor- te di Dio. Ma non ne è un corollario immediato. Certo, quella realtà peren- nemente protesa in un divenire senza vero futuro, privo di qualunque dimen- sione escatologica, è un mondo dove Dio è morto. Ma l’annuncio che Dio è morto, che non v’è in realtà alcun ordine e scopo a cui ci si debba piegare, ave- va suscitato dapprima, in Nietzsche stesso, nel suo stesso itinerario spirituale, un’immagine diversa2: l’immagine dell’uomo come spirito libero, come vo- lontà aperta su un orizzonte infinito, a nulla vincolata se non al proprio ob- bligo di verità, alla passione per quella conoscenza che l’ha resa libera. In que- st’ottica Nietzsche ha scritto i suoi libri del periodo cosiddetto illuministico, polemizzando, dunque, contro la metafisica dell’artista3, contro l’illusione che

la realtà abbia un fondamento (e sia pure un fondamento soltanto estetico) nella dialettica di dionisiaco e apollineo e che vi sia un’arte capace di rivelar-

lo e interpretarlo. Quella dialettica era pur sempre una condizione di senso, una ragione, una maniera di intendere il divenire che il poeta, se non l’uomo di scienza o di Chiesa, poteva ancora apprezzare. Ma il Nietzsche illuminista, votato unicamente alla passione della conoscenza e della verità, il Nietzsche che ripudia Schopenhauer e rompe l’amicizia con Wagner, vuol stracciare an- che quel velo, quell’ultima menzogna poetica.

2. La nuova intuizione, quell’idea dell’eterno ritorno dell’eguale, è destina- ta a cancellare dall’orizzonte di un mondo senza Dio anche l’ultimo riflesso delle illusioni umanistiche, il loro riflesso negativo, quella libertà negativa, gratuita e fine a se stessa, che caratterizzerebbe la condizione dello spirito li- bero (der Freigeist), di colui che ha raggiunto e varcato la soglia del nichili- smo4. Costui, venuta meno ogni coordinata e, dunque, ogni possibilità di tro-

vare un centro in sé o fuori di sé, tenderà a porre se stesso, un se stesso ridot- to a puro arbitrio, come solo punto di riferimento possibile. Sarà pur sempre la sua maniera di pensare in termini di fondamento, ma una maniera negati- va: la maniera di chi, con la propria negazione di ogni ragione ultima, prende il posto di quella ragione che nega.

Sembra questo, a Nietzsche, un passaggio obbligato per l’uomo moderno che voglia vivere fino in fondo la propria condizione storica, far valere fino in fondo gli istinti e i valori su cui la sua civiltà è costruita. Il nichilismo come pun- to d’arrivo della tradizione metafisica dell’Occidente. Nell’orizzonte storico dello spirito libero, la sola alternativa reale al suo nichilismo non è il santo (der Heilige)5, colui che continua a credere nella sacralità di un ordine ultimo e im-

mutabile, in un Dio che altro non è che la «maschera del nulla»6, ma l’ultimo

uomo (der letzte Mensch), colui che non si vuole né ricco né povero, né gover- nante né governato, e che nello sforzo di eludere ogni responsabilità tenta di ridursi a una vita minima (a Erdfloh, pulce di terra), a un’esistenza di tipo ve- getale7. Zarathustra non si rivolge al santo se non come a un fantasma del pas- sato e vano risulta il suo tentativo di parlare a coloro che coltivano per sé l’idea- le dell’ultimo uomo. Il solo interlocutore per lui possibile è il Freigeist: a lui Za- rathustra ritorna dopo gli anni del silenzio, nella sua condizione si cala e da es- sa muove per ricominciare il proprio insegnamento. A lui e soltanto a lui può proporre il passo ulteriore, l’ideale del superuomo, l’idea di un’umanità capa- ce di vivere ai confini di se stessa, nella prospettiva dell’eterno ritorno. 3. La condizione del Freigeist, di colui che «è giunto alla libertà della ragio- ne», è, in questo senso, strettamente connessa alla figura del viandante (der Wanderer), di colui che si vuole e si sente sempre in cammino:

Wer nur einigermaassen zur Freiheit der Vernunft gekommen ist, kann sich auf Er- den nicht anders fühlen, denn als Wanderer, – wenn auch nicht als Reisender n a c h

einem letzten Ziele: denn dieses giebt es nicht [...]; desshalb darf er sein Herz nicht allzufest an alles Einzelne anhängen; es muss in ihm selber etwas Wanderndes sein, das seine Freude an dem Wechsel und der Vergänglichkeit habe8.

Nel suo errare non v’è più nulla di tragico, nulla che ricordi e prolunghi la tra- gedia che si è consumata (la morte di Dio, la perdita di ogni verità e ordine eterni e immutabili, capaci di indicare a ciascuno la propria dimora). Non vi è più il pathos, l’irrequietezza possessiva o sofferente, che ha segnato i vian- danti della tradizione romantica. Il viandante di Nietzsche ha imparato a sta- re in cammino, a vivere ogni evento possibile con «l’equilibrio dell’anima mat- tinale». In nulla spera e, dunque, di nulla si dispera. Verranno anche per lui cattive nottate e giorni d’inganno e d’incertezza. Ma sa che non gli apparten- gono e che egli non appartiene loro. Sa che possono solo sfiorarlo e si lascia soltanto sfiorare. La sua gioia è nel mutamento stesso e nella transitorietà: in un sentimento della vita che gliela rivela sempre vicina, sempre e comunque presente nel suo trascorrere. A questa essenziale prossimità e trasparenza, a questo sentimento di un nascere continuo, allude, con straordinaria potenza figurale, l’immagine del mattino:

aber dann kommen [...] die wonnevollen Morgen anderer Gegenden und Tage, wo er schon im Grauen des Lichtes die Musenschwärme im Nebel des Gebirges nahe an sich vorübertanzen sieht, wo ihm nachher, wenn er still, in dem Gleichmaass der Vormit- tagsseele, unter Bäumen sich ergeht, aus deren Wipfeln und Laubverstecken heraus lau- ter gute und helle Dinge zugeworfen werden, die Geschenke aller jener freien Geister, die in Berg, Wald und Einsamkeit zu Hause sind und welche, gleich ihm, in ihrer bald fröhlichen bald nachdenklichen Weise, Wanderer und Philosophen sind. Geboren aus den Geheimnissen der Frühe, sinnen sie darüber nach, wie der Tag zwischen dem zehn- ten und zwölften Glockenschlage ein so reines, durchleuchtetes, verklärt-heiteres Ge- sicht haben könne: sie suchen die P h i l o s o p h i e d e s V o r m i t t a g e s9.

L’immagine del mattino è, in questo brano, visibilmente connessa con l’im- magine del meriggio: con l’immagine di un’unità estatica del tutto. I «mi- steri del mattino», i misteri di una nascita perenne, si sciolgono «fra il de- cimo e il dodicesimo rintocco di campana». Nell’unità incommensurabil- mente profonda (perché senza fondo) che quell’ora mostra, i viandanti (questi nuovi filosofi) cercano la loro «filosofia del mattino», la spiegazio- ne di quel loro sentimento della vita, di quel loro sentimento di un nascere perenne. Ma questo sentimento è concesso solo a chi altrettanto perenne- mente sa vivere nella prospettiva del tramonto. A nulla potrà arrestarsi e nulla potrà arrestare. In ogni inizio dovrà vedere l’ombra di una fine. L’im- magine del tramonto, correlata a quella del mattino, ha innanzitutto questa connotazione. E insieme alle altre immagini esemplari del corso del sole concorre alla visione di una maniera d’essere, di uno stile di vita. È la ma-

niera, lo stile di Zarathustra, di colui che al levarsi del mattino inizia il suo tramonto.

4. Nella foresta Zarathustra aveva incontrato l’eremita, nella città l’ultimo uomo. Là egli ha il diritto di annunciare che Dio è morto, perché là è in ef- fetti morto: in quel paesaggio artificiale che lo ha espropriato dei suoi pote- ri, vanificando le sue prerogative. Dio è irrevocabilmente morto per gli abi- tanti della città, ma essi non potrebbero prenderne atto senza sconvolgere la loro vita, senza dover riconoscere che il paesaggio artificiale in cui hanno scelto di vivere non ha sotto di sé alcun fondamento, alcun terreno su cui ra- dicarsi. È questa la condizione dell’ultimo uomo. L’uomo che riconosce di aver ucciso Dio supera se stesso in una nuova dimensione: nella dimensione del superuomo. Se è vero che l’idea nietzscheana non può assumere le vesti strette di un programma etico-politico realizzabile nella realtà di oggi, è an- che vero che non sembra trattarsi di un’utopia allo stato puro, di un’inven- zione priva di coordinate storiche. Il superuomo non è, per l’uomo presen- te, una possibilità ch’egli possa oggi tale e quale realizzare, ma è pur sempre una sua possibilità. Nel discorso Sulle Isole Beate Zarathustra dirà: «dass Al- les verwandelt werde in Menschen-Denkbares, Menschen-Sichtbares, Men- schen-Fühlbares!»10. Allora soltanto e solo in questo senso l’uomo sarà su- perato. Superato e realizzato. Superato perché realizzato nella sua vocazione di sempre, nel suo bisogno di trovarsi in ogni momento presso se stesso, in presenza di qualcosa che gli parli nel suo linguaggio e altro senso non riven- dichi se non quello che ha per lui. Il superuomo deve essere perché l’uomo effettivamente sia, perché non degradi, vittima dei propri autoinganni, delle proprie contraddizioni.

In questo senso, d’altronde, suonano anche le parole con cui Zarathu- stra prospetta l’esigenza del superuomo alla folla, che attende in piazza la promessa esibizione di un funambolo: «Der Mensch ist Etwas, das über- wunden werden soll»11. Quel “deve” è un soll, indica un’esigenza morale,

scoraggia in partenza una qualsivoglia interpretazione naturalistica. Il super- uomo è qualcosa che l’uomo può soltanto volere, che non incontrerebbe al- trimenti nella sua evoluzione, ma non può fare a meno di volerlo, perché al- trimenti regredisce al di qua della sua stessa realtà attuale e dell’immagine di sé che attualmente coltiva. Il suo rapporto col mondo in cui vive è ormai ar- rivato a un bivio che non gli lascia scampo: o un salto di qualità o la regres- sione. Queste pagine non dichiarano apertamente la ragione di tale alterna- tiva, di questo trovarsi tra due sponde: o avanti o indietro, in mezzo non si può sostare. Insistono tuttavia sulla sua natura morale. Alla dimensione mo- rale dell’alternativa e delle ragioni che possono averla determinata si riferi- sce anche l’unica definizione del superuomo che non sia semplice immagi- ne: «Der Übermensch ist der Sinn der Erde»12. Il superuomo è il solo senso

possibile di una terra vuota di sovraterrene speranze. Senso (Sinn) significa direzione, orientamento, criterio di condotta. È il correlato di una morale. Affermare che nel superuomo, nell’uomo del futuro, sta oggi la sola possi- bilità di senso, significa affermare che l’esistenza attuale dell’uomo ne è pri- va: priva di senso, priva di morale.

«Der Mensch ist ein Seil, geknüpft zwischen Thier und Mensch – aveva detto Zarathustra – ein Seil über einem Abgrunde. [...] Was gross ist am Men- schen, das ist, dass er eine Brücke und kein Zweck ist: was geliebt werden kann am Menschen, das ist, dass er ein Ü b e r g a n g und ein U n t e r g a n g ist»13.

Zarathustra ha parlato del superuomo: la folla, nelle sue parole, ha visto il fu- nambolo. L’equivoco ha una sua logica. Funambolo è, per definizione, «co- lui che cammina sulla corda o cavo». Il tedesco è ancora più esplicito: der Seiltänzer (colui che sulla corda o cavo danza). E dell’uomo si dice che è un cavo teso tra la bestia e il superuomo. È quanto la folla vede nelle immagini di superamento proposte da Zarathustra: il cavo, soltanto il cavo e ciò che nei limiti del cavo si muove senza sospettare che vi sia una logica e prospet- tiva del movimento, senza saperlo riconoscere nella sua natura di processo. Nel superuomo, nel processo che tende oltre l’uomo, la folla vede ancora e soltanto l’uomo. Il cavo è teso sull’abisso. Torna questa immagine partico- larmente cara a Nietzsche. Torna per dire che alla base della condizione uma- na (l’uomo è il cavo, non semplicemente sul cavo) v’è un’assenza di fonda- mento (Ab-grund). All’uomo non è dato di poggiare su nulla che appartenga alla sua condizione, che sia nei limiti della sua condizione: i soli suoi punti d’appoggio (i soli punti d’appoggio del cavo che egli è) sono un al di qua (la bestia) e un al di là (il superuomo). All’uomo non è concesso di consistere, ma solo di esistere. L’immagine del cavo è quella di un trovarsi sempre in ten- sione, sempre tra, sempre in cammino.

Mentre Zarathustra parlava alla folla, il funambolo si era messo in cam- mino sul cavo teso fra le due torri ai liminari della piazza, quando, a metà del suo percorso, mentre lentamente e faticosamente s’avvia verso la meta, so- praggiunge alle sue spalle un pagliaccio (der Possenreisser) dai panni multico- lori. È molto più agile e veloce di lui, procede a grandi balzi, incurante di quel vuoto che da ogni parte li circonda. Lo sbeffeggia, irride a quel suo procede- re faticoso, infine lo scavalca e lo fa cadere. Più esattamente: il funambolo stes- so, «vedendosi battuto dal rivale, perse la testa e l’equilibrio e – più rapido an- cora del bilanciere che aveva lasciato cadere – precipitò in basso, in un muli- nello di braccia e di gambe»14. Sarà Zarathustra a curvarsi su di lui, a rassicu-

rarlo (dicendogli che non deve temere il diavolo e l’inferno, perché non esi- stono, perché la sua anima sarà morta col corpo e prima del corpo), a confor- tarlo circa la dignità e il senso di quanto gli è accaduto. Al funambolo che di- ce «non perdo nulla, perdendo la vita. Non sono molto più di una bestia, che ha imparato a danzare a forza di botte e di magri bocconi», Zarathustra ri-

sponde: «tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non è nulla di spre- gevole. Ecco che il tuo mestiere ti costa la vita: per questo voglio seppellirti con le mie mani»15. E, mentre la folla si disperde e l’oscurità cala sulla piazza,

completa la sua riflessione:

Unheimlich ist das menschliche Dasein und immer noch ohne Sinn: ein Possenreisser kann ihm zum Verhängniss werden.

Ich will die Menschen den Sinn ihres Seins lehren: welcher ist der Übermensch, der Blitz aus der dunklen Wolke Mensch.

Aber noch bin ich ihnen ferne, und mein Sinn redet nicht zu ihren Sinnen. Eine Mitte bin ich noch den Menschen zwischen einem Narren und einem Leichnam.

Dunkel ist die Nacht, dunkel sind die Wege Zarathustra’s. Komm, du kalter und steifer Gefährte! Ich trage dich dorthin, wo ich dich mit meinen Händen begrabe16.

Sappiamo che il funambolo raffigura l’uomo della transizione: l’uomo che, dopo tante illusioni, si è scoperto semplice possibilità d’altro, cammino per- corribile in entrambe le direzioni, lungo il quale si può in ogni momento pro- gredire o regredire, mai sostare. La sua condizione è essenzialmente tragica. Nella sua prospettiva l’esistenza è «sinistra» e «ancor priva di senso». Qua- lunque cosa egli faccia, la sua esistenza non potrà ancora assumere l’unico sen- so possibile, poiché questo si dà solo in una prospettiva ulteriore, non ancora raggiunta: nella prospettiva del superuomo. L’uomo attuale vive in una con- dizione di non-senso. Ma vi sono maniere diverse di viverla e non sono affat- to equivalenti. Anche a prescindere dalla figura del “santo” che di nulla s’è accorto (essa appartiene idealmente al passato), v’è la maniera dell’ultimo uo- mo, che cerca di non vedere e si illude di avere ancora i piedi poggiati da qual- che parte. Barricato nella sua città, accetta il progressivo rimpicciolirsi del suo spazio vitale, pur di non vedere il vuoto ed evitare la vertigine. V’è, per con- tro, la maniera del funambolo, che nel vuoto accetta di muoversi e cerca di at- traversarlo, avendo come unico punto d’appoggio e di riferimento la corda a cui si trova sospeso, il progetto in cui si trova gettato, la possibilità di vita che gli è toccata in sorte. Il suo imperativo è: fare ciò che sta facendo, farlo co- munque sino in fondo, realizzare sino in fondo la possibilità che gli si offre, senza pretendere alcuna garanzia di senso, ma puntando egualmente tutto su di essa, perché è la sua, perché non v’è altro modo per lui di prendere sul se- rio la vita, di dichiararle la sua fedeltà17. E, di contro a lui, sta il pagliaccio.

Anch’egli si muove nel vuoto, nella piena consapevolezza di una mancanza di fondamento e di senso. Ma la sua veste multicolore e il suo procedere saltan- do (che è il contrario del procedere danzando di Zarathustra) raffigurano una reazione opposta: non un laborioso, metodico, disciplinato impegno nel per- seguire la propria opportunità di vita, ma il disimpegno irresponsabile di chi, caduti gli antichi principi, non fa più differenza ed è pronto ad assumere in- differentemente ogni possibilità, tutte insieme, tutte e, in definitiva, nessuna.

È questa sua irresponsabilità a renderlo tanto più agile dell’altro, a consentir- gli di muoversi nel vuoto attuale dei valori con la stessa sicurezza con cui l’al- tro, il tipo dell’uomo responsabile, si muoverebbe sulla terraferma delle cer- tezze perdute. Ma quel vuoto è anche il suo confine. Da esso non esce. In es- so il pagliaccio non precipita, ma svanisce all’improvviso. Lo si vede finché sta dietro il funambolo: non appena lo scavalca, esce di scena, svanisce in quel vuoto dove l’altro cade. Il pagliaccio è soltanto l’ombra grottesca del funam- bolo, la sua caricatura18.

5. Ciò che deve rinascere nella nuova prospettiva è precisamente ciò che è morto nella vecchia: un senso della vita che la vita stessa possa convalidare, un destino a cui si possa e debba essere fedeli. Ciò che è morto nella prospettiva dell’uomo (non l’uomo stesso, che può continuare a vegetarvi, ma la possibili- tà di un’esistenza sensata) deve rinascere in quella del superuomo. Chi si muo- ve su questo terreno ha una prospettiva di evoluzione spirituale. Gliela indica il primo discorso di Zarathustra, con la parabola delle tre metamorfosi: «Drei Verwandlungen nenne ich euch des Geistes: wie der Geist zum Kameele wird, und zum Löwen das Kameel, und zum Kinde zuletzt der Löwe»19. Cammello (das Kameel) è chi trova se stesso, la propria identità, nella sottomissione. Da questo bisogno di sottomissione, come sua diretta manifestazione, sono nate le virtù dell’umiltà, del sacrificio, della dedizione. Il destino di chi vive la propria vita in questa prospettiva di dedizione e sacrificio incondizionati è trascender- si, annullarsi. La vita del cammello è minata all’origine da questa vocazione ni-