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C’è una vignetta di Giuseppe Novello, nel Signore di buona famiglia, che di queste mie caricature rende bene la genesi – parola grossa, per così piccole co- se; ma tant’è. La didascalia dice: «Se a teatro ascoltassimo l’opera come l’ascoltiamo per radio a casa nostra». Il disegno mostra un teatro – palchi e platea – affollatissimo. Il pubblico è eterogeneo: una signora macina il caffè, una fa la maglia, un’altra (en déshabillé) si rammenda una calza; una coppia amoreggia, una mamma dà la pappa al bambino, un signore si fa la barba, un altro le unghie, un terzo il pediluvio. In primo piano, un signore si pulisce la- boriosamente il naso. C’è chi fuma, chi legge, chi sonnecchia; chi dorme.

Al posto dell’opera, si legga Consiglio di facoltà.

Sarà allora il collega che rivede le bozze, il collega che sfoglia il giornale, la collega che legge una tesi; quello che fa le parole crociate (il riferimento è puramente autobiografico). Il gruppetto di italianisti che confabulano; l’ame- ricanista e il linguista che parlano della Fiorentina; i tre storici che escono a prendere il caffè, i quattro filosofi che discutono se aspettare il prossimo pun- to all’ordine del giorno. Gli anglisti pronti a scattare, gli antichisti a saltar su, gli storici dell’arte ad azzannare. L’ispanista che fissa fuori dei finestroni. La collega di nuova nomina che, aperta la borsetta, smorfieggia nello specchiet- to – sì, il rossetto regge ancora. L’archeologo che cerca qualcuno con cui usci- re a fumare. Il collega che, finite le parole crociate, fa – o cerca di fare – delle caricature.

Consigli di facoltà. Consigli di corso di laurea. Consigli di dipartimento. Le commissioni – per la didattica, per gli orari, per le aule, per i dottorati, per la biblioteca, per i piani di studio, per l’assegnazione dei fondi di ricerca fan- tasma, per l’aggiornamento e la compilazione telematica della modulistica, per l’esegesi delle circolari dell’ufficio circonlocuzioni. Qualche congresso; qualche seminario. Qualche conferenza – tanto meglio se onorata dalla pre- senza del magnifico rettore, perché allora l’obbligo di comportarsi bene svuo- ta i volti in una fissità che lascia emergere la nostra vera natura.

Dalla lista dei colleghi e amici che, senza saperlo, mi hanno aiutato ad av- vicinarmi, senza troppi danni evidenti, all’età della pensione, si potrà rico- struire la mia fattiva partecipazione alle attività degli organi collegiali dei qua- li ho avuto il privilegio di far parte. Restano fuori i colleghi degli anni newyor-

ILLUSTRI COLLEGHI,AMICI CARISSIMI

kesi, causa l’impossibilità di abbinare il disegno al referente; si ritroveranno in- vece le tracce del passaggio dalla Sapienza, quindi dal Magistero fiorentino, in- fine da Lettere. Mi auguro che, ove si riconoscessero nei miei schizzi, gli ami- ci – e soprattutto le amiche – vorranno perdonarmi una lettura dei loro tratti forse meno lusinghiera di quella che, legittimamente, considerano la corretta. A mia discolpa, posso dire soltanto che questi schizzi sono nati dal tedio, da una presto rassegnata impotenza, dalla rattenuta impazienza per certi riti del- la nostra professione – nonché per la seriosità con la quale alcuni di noi vi si ri- conoscono. Stati d’animo che confido non essere del tutto ignoti ai colleghi, e che hanno avuto la loro parte nel farmi vedere le cose (e dunque anche loro, mie incolpevoli vittime) in una luce più cattiva del giusto.

E qui ringrazio (in troppi casi, ahimè soltanto in memoria) Sergio Baldi, Sara Barni, Piero Bigongiari, Aldo Celli, Serena Cenni, Carlo Cordié, Tullio De Mauro, Guido Fink, Giuseppe Galigani, Anthony Johnson, Domenico Ma- selli, Giulia Mazzuoli Porru, Eugenio Montale, Gavino Musio, Ettore Para- tore, Susan Payne, Mario Praz, Mario Rossi, Gigliola Sacerdoti Mariani, San- dro Serpieri, Simonetta Signorini, Giorgio Spini, Rita Svandrlik, Erminio Ce- sare Vasoli, Marina Warner.

La categoria della liminalità ha assunto negli ultimi decenni un’enorme rile- vanza teorica, anche in virtù del balzare in primissimo piano di quel grande protagonista del pensiero contemporaneo che è lo spazio, nelle sue moltepli- ci declinazioni. Che si tratti di uno spazio geografico, psicologico, testuale, identitario o corporeo, nella riflessione postmoderna l’idea di confine tende soprattutto a specificarsi come luogo di incontro delle differenze: negli studi più recenti di taglio tematologico e comparatistico, come nelle teorizzazioni delle nuove geografie del soggetto, il confine viene infatti inteso non tanto co- me linea che divide, e dunque definisce, bensì come luogo di contatto e di ibri- dazione tra realtà diverse, assimilando nel termine l’accezione di passaggio e trasformazione già attribuita al topos della soglia.

Nella cultura italiana questo dibattito critico è apparso finora vivace so- prattutto nell’area delle scienze antropologiche, filosofiche e sociopolitiche. Dedicare perciò un numero tematico di “Letterature d’Europa e d’America” alla rappresentazione del confine in testi, autori, generi e movimenti delle di- verse letterature, rappresenta un passo significativo verso la sua necessaria ri- cezione anche nell’ambito della cultura letteraria.

Alcuni dei saggi qui contenuti raccontano il confine come frontiera tra di- verse regioni culturali, in una prospettiva comparatistica che costantemente allude allo sconfinamento, allo scambio e alla sovrapposizione, richiamando quel “riassestamento dello spazio liminale” sulle cui potenzialità si è soffer- mata Susan Bassnett e sul quale ritorna anche Gayatry Spivak. Altrove il con- fine è invece da intendersi quale interfaccia tra stati psicologici ed emoziona- li costitutivi delle varie tipologie del personaggio: la condizione liminale tra veglia e sonno o tra vita e morte, in questo senso, si impone come luogo di at- traversamento per eccellenza, quello sul quale per Rella «convergono, batto- no e sciabordano le onde del dentro e del fuori». E se il confine è anche luo- go di rottura delle gabbie disciplinari, processo di transito e di ibridazione tra forme espressive eterogenee – letterarie, visive, sonore, multimediali –, per chi ha voluto sondare la materialità del testo esso coincide con i punti terminali di Butor o con le soglie – luoghi di transizione e transazione – di Genette.

A movimentare ulteriormente gli accostamenti ambigui e precari tra testo e senso, possiamo rivolgerci a Barthes, che ha teorizzato la liminalità come

ORNELLA DE ZORDO

unica strategia per sfuggire a qualsiasi “presa” del senso, o a Derrida, che at- tribuiva allo spazio neutro dell’instabilità semantica la capacità di resistenza alla logica del paradigma oppositivo occidentale. Quel che è certo è che l’epi- stemologia decostruzionista ha messo definitivamente in crisi il binarismo dentro/fuori valorizzando lo spazio del “tra” e mettendo in discussione il con- cetto stesso di confini testuali. Perché in quest’ottica il testo sconfina e ri- manda perennemente ad altre “tracce differenziali”, come anche prospetta Dole=el, ravvisando nell’incertezza di confine tra l’originale e la sua riscrittu- ra un processo irrimediabilmente biunivoco attraverso il quale sempre qual- cosa passa dall’uno all’altro, o meglio, nell’altro.

Il confine può essere il limite imposto ai corpi dal controllo normativo di cui parla Foucault, oppure la linea conflittuale di demarcazione tra l’essere soggetto corporeo sessuato e al tempo stesso costruzione culturale che su quel corpo si è stratificata, come la intende De Lauretis. Da prospettive non di- stanti, il confine equivale alla posizione del margine assunta dal soggetto-don- na come tratto della sua identità, una messa a lato rispetto al centro delle cui potenzialità sovversive parla bell hooks, ridisegnando i rapporti di potere tra i diversi confini di razza e di genere.

C’è poi un confine costantemente superato che corrisponde alla condi- zione liminale di esseri mutanti, nei quali categorie identitarie non ben defi- nite originano quel mostruoso fisico e psichico che col suo repertorio di de- vianze ha da sempre popolato il nostro immaginario.

Quel che oggi sappiamo, come gli studi postcoloniali ci confermano, è che ogni attraversamento dello spazio – sia esso fisico o metaforico – implica per il soggetto la ridefinizione dei propri confini. In tal senso, proprio l’essere pe- rennemente in viaggio, ossia in bilico su linee di demarcazione sempre meno certe, finisce per risultare la cifra della soggettività contemporanea, che non a caso tende così ossessivamente a riconoscersi in quel suffisso “trans” che per definizione indica la perpetua negoziazione con l’alterità, il passaggio oltre un confine.