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tutti quei gestori di fondi di investimento che non sono regolat

3.1.3 Club deals

Se, con riguardo ai family offices, la Direttiva GEFIA offre all’interprete almeno qualche indizio per la risoluzione della questione della loro soggezione o meno all’area riservata, nulla essa dice invece circa i c.d. club deals.

L’espressione trae le sue origini dal mondo del private equity statunitense ove, con essa, ci si riferisce alle operazioni di

investimento in società non quotate effettuate non già da una singola private equity firm ma da un pool di fondi che, per l’appunto, si

costituisce in un club.

Le ragioni che inducono più operatori di private equity ad effettuare investimenti congiunti sono legate alle dimensioni dell’investimento: poiché i fondi di private equity si ispirano a politiche di diversificazione del rischio, laddove la società target sia una società di grande

dimensione, l’investimento da parte di un singolo fondo rischierebbe di risultare inidoneo a far conseguire ad esso quella posizione di

influenza nella gestione che costituisce quella condizione fondamentale per l’esercizio eden mestiere di apportatore di entrepreneurship; di contro, attraverso l compartecipazione alla stessa operazione da parte di più operatori , ciascun partecipante riesce a conciliare l’esigenza di diversificazione con l’esigenza di poter esercitare, le funzioni di azionista attivo.

La questione della applicabilità della Direttiva GEFIA si è posta proprio con riguardo ai veicoli di investimento che i membri del club

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negativa di applicazione della Direttiva è stata per lo più sostenuta facendo leva sulla preesistenza del gruppo.

Se il gruppo di investitori preesiste all’operazione di club deal, allora, non ci sarebbe raccolta di capitali esterni e, dunque, non ci sarebbe FIA o gestore di FIA. Seguendo l’orientamento di Banca d’Italia, il club deal non è soggetto alla Direttiva poiché i capitali raccolti non sono esterni rispetto al gruppo preesistente. In particolare, laddove non si dia la contemporanea presenza di una classe di investitori ed una classe di gestori , non ricorrerebbe la fattispecie di gestione collettiva del risparmio. La prestazione del servizio gestorio oggetto della riserva presuppone la presenza di parti con posizioni sostanziali distinte: gli investitori sono portatori di interessi diversi da quelli del gestore e suscettibili di essere soddisfatti solo per mezzo delle funzioni svolte da quest’ultimo nel corso dell’intera vita dell’organismo di investimento. Questa dualità di posizioni sostanziali si riflette strutturalmente nell’organizzazione del FIA e nei sui elementi costitutivi. Non può configurarsi un’attività di raccolta ove, considerando la sostanza dei rapporti, a raccogliere e conferire capitali siano i medesimi soggetti. 135 Se al contrario, il deal è costituito anche da soggetti apportatori di capitale esterno, allora ci si troverebbe a tutti gli effetti dinanzi a un FIA e opererebbe normalmente la riserva di attività.136 Nel primo caso, ci si troverebbe dinanzi ad un auto investimento, sebbene collettivo; nel secondo caso, invece, ci sarebbe anche un etero-investimento. Per sostenere una tale tesi è però necessario un passaggio: le guidlines interpretative dell’ESMA utilizzano l’espressione gruppo preesistente non già a mo’ di clausola generale, bensì quale precisa definizione del gruppo familiare. Conseguentemente, per poter sostenere che un club deal possa godere dell’esenzione dell’applicazione della Direttiva, è necessario sostenere, che nelle intenzioni dell’ESMA, il gruppo familiare sia non già il gruppo preesistente così come

nominativamente definito, bensì un esempio, fra i tanti possibili, qualsivoglia gruppo preesistente la ricorrenza del quale escluderebbe sempre e comunque la ricorrenza del requisito della raccolta di

135 Cfr. SCHIAVELLO, La Riserva Relativa al Servizio di Gestione Collettiva e la Società di Investimento, p. 46-47.

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capitale intesa come raccolta rivolta all’esterno. Lettura, questa, che parrebbe effettivamente legittimata da quanto Banca d’Italia ha enunciato nel corso della consultazione che ha condotto

all’emanazione del Regolamento sulla GCR ove l’Autorità ha precisato che l’attività di gestione “ deve essere svolta nei confronti di soggetti terzi rispetto al gestore”.137 Su queste basi, Banca d’Italia ha ritenuto che un veicolo di investimento costituito da una pluralità di investitori con “capitali propri” non sarebbe soggetto a riserva di attività.

Da parte di una certa dottrina la medesima conclusione dell’estraneità all’area della riserva di attività dei club deals è stata sostenuta

muovendo da presupposti, almeno in parte diversi, rispetto a quelli fondati sulla ricorrenza di un gruppo preesistente. “ il servizio di gestione collettiva del risparmio presupporrebbe che gestore e

investitori abbiano ruoli diversi, collegati ad interessi distinti, e che tale dualità di posizioni sia chiaramente riscontabile.”138

Si è detto, in particolare, che perché un certo veicolo di investimento sia qualificabile come FIA requisito imprescindibile sarebbe quello della autonomia di gestione; autonomia che, a sua volta, ricorrerebbe solo e soltanto laddove fosse possibile riscontrare, nella strutturazione dell’operazione di investimento, una differenziazione funzionale fra il ruolo del promotore/gestore e il ruolo partecipante/investitore. Una simile differenziazione strutturale si darebbe soltanto laddove il potere gestorio trovasse il suo titolo non già nell’entità del capitale

direttamente investito dal promotore, bensì in altra fonte giuridica. Le tecniche di dissociazione fra potere gestorio e entità

dell’investimento sono molteplici. La forma più semplice è, ad

esempio, quella connessa alla stipulazione di appositi patti parasociali fra il promotore/gestore e gli altri partecipanti al club deal in virtù dei quali al primo, che pure detenga una partecipazione minoritaria nel veicolo costituito, sia assicurata una preminenza in termini di poteri di amministrazione.

137 Provvedimento del 19 gennaio 2015- il resoconto della consultazione è disponibile sul sito www.bancaditalia.it

138 Cfr. SCHIAVELLO, La Riserva Relativa al Servizio di Gestione Collettiva e la Società di Investimento, p. 43.

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Un’altra modalità per raggiungere lo stesso obbiettivo è quella che fa leva sulla non proporzionalità dei conferimenti dei partecipanti al club: il promotore/gestore paga le azioni del veicolo al nominale, mentre i partecipanti pagano un ingente sovrapprezzo; conseguentemente, pur a fronte di un apporto patrimoniale minoritario, il promotore/gestore consegue una posizione di controllo rispetto ai partecipanti/investitori. Un’ulteriore modalità, è quella che fa leva sulla possibile dissociazione fra potere gestorio e investimento consentita da peculiari modelli societari, quali ad es. le società in accomandita semplice, le società a responsabilità limitata, la società in accomandita per azioni. Ed invero: in una società in accomandita semplice, il socio accomandatario è titolare di un potere di gestione che prescinde dall’entità del capitale investito; in una società a responsabilità limitata è possibile che ad un socio, pur minoritario, persona fisica o persona giuridica, sia attribuito il diritto particolare che può anche consistere in un potere gestorio a tempo indeterminato; in una società in accomandita per azioni, il potere gestorio dell’accomandatario , può essere disconnesso rispetto all’entità dell’investimento attraverso appositi accorgimenti.

Tutte le volte in cui il potere gestorio fosse, in questi termini,

dissociato dall’entità del capitale investito, ciò sarebbe indice di quella autonomia della gestione che costituirebbe tratto qualificante della fattispecie di gestione collettiva del risparmio, potendosi invero ben distinguere fra chi fa il mestiere di gestore collettivo del risparmio e chi ad esso si rivolge quale risparmiatore.

Ulteriore indice della presenza di autonomia della gestione, potrebbe essere desunto dai principi di remunerazione del

promotore/gestore.139

Se, in particolare, quest’ultimo partecipasse al profitto secondo principi di pura proporzionalità rispetto al capitale investito, ciò costituirebbe indice dell’assenza di un autonomo potere gestorio remunerato a tale titolo; se, al contrario, l’operazione fosse strutturata con modalità tali da assicurare al gestore una remunerazione

tendenzialmente indipendente rispetto al capitale investito, ciò

139 Cfr. SCHIAVELLO, La Riserva Relativa al Servizio di Gestione Collettiva e la Società di Investimento, p. 47.

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rappresenterebbe ulteriore indice di una autonoma attività gestoria esercitata professionalmente e conseguentemente remunerata come tale.

Una volta valorizzata in questi termini la autonomia della gestione quale elemento imprescindibile della gestione collettiva del risparmio, le conseguenze sono immediate: laddove un club deal fosse

strutturato con un veicolo societario che non deviasse dall’ordinario regime di proporzionalità fra capitale investito e potere gestorio e non prevedesse alcun meccanismo di remunerazione ad hoc dell’attività gestoria non si darebbe FIA, e dunque soggezione alla riserva di attività per la gestione collettiva del risparmio, non potendosi riscontrare una differenza funzionale fra gestori e risparmiatori; laddove, al contrario, il veicolo societario, consentisse di identificare un autonomo potere gestorio, ci si troverebbe dinnanzi ad un fenomeno di gestione collettiva del risparmio con conseguente soggezione al regime riservato. Muovendosi da una tale prospettiva, poco o nulla

rileverebbe che i partecipanti al club fossero o meno tutti membri di un gruppo preesistente; poco o nulla rileverebbe accertare se, fra colui che attivamente promuove l’iniziativa di investimento e colui che ad essa si lascia trasportare, vi fosse una pre-esistente relazione. Ciò che unicamente occorrerebbe verificare è se il club deal sia o meno

strutturato con modalità tali che consentano di descrivere la fattispecie quale incontro fra, da un lato, un ceto di gestori

professionali del risparmio e, dall’altra parte, un ceto di risparmiatori ove i primi si riservano un potere autonomo di gestione professionale ed i secondi remunerano i primi proprio in funzione dell’esercizio di una tale attività professionale.

Ebbene: nessuno dei due criteri prospettati per discriminare i casi in cui i club deals integrino la gestione collettiva del risparmio e siano, pertanto, soggetti a riserva di attività paiono convincenti. Non

convince quello che fa leva sulla ricorrenza di un gruppo preesistente, né quello che fa leva sulla autonomia di gestione; e non convincono, per una ragione a monta: l’uno e l’altro fanno dipendere la risoluzione della questione interpretativa da un pregiudizio circa l’essenzialità di un certo requisito della fattispecie senza prestare alcuna attenzione

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circa la ratio della riserva di attività istituito dalla Direttiva GEFIA. Si assume pure che, stabilendo lo speciale principio dell’irrilevanti

di una raccolta dei capitali operata nell’ambito di un gruppo familiare, il legislatore abbia inteso dettagliare un più generale principio secondo il quale perché ci sia FIA, occorrerebbe che la raccolta fosse rivolta all’esterno rispetto a qualsivoglia gruppo preesistente, familiare o di qualsiasi altra analoga natura.

Occorre allora chiedersi, una raccolta del capitale interna ad un gruppo pre-esistente (familiare o di altra natura ) sarebbe irrilevante ai fini della Direttiva GEFIA, mentre rileverebbe soltanto una raccolta che facesse appello a capitale esterno?

Si potrebbe rispondere – invocando, in via di ipotesi, quale ratio della diversità di trattamento un’esigenza di tutela degli investitori –

laddove consti una relazione preesistente l’investimento fiduciario del partecipante all’operazione trovi la sua ragion d’essere proprio nella predetta relazione di fatto, sicché verrebbe meno l’esigenza di tutela dell’investitore che si esprime attraverso l’imposizione del regime riservato. Ma si tratterebbe di rilievo assai poco persuasivo. Si, pensi ad esempio, al piano della gestione individuale – ove la ratio della riserva di attività muove senz’altro dall’esigenza di tutela dei

risparmiatori -: forse che la preesistenza di una relazione fra un certo soggetto ed una platea di risparmiatori fa venir meno il presupposto perché scatti la riserva di attività? Si potrebbe forse ritenere che, laddove un certo soggetto offra i suoi servizi di gestione individuale a favore di tutti i membri di un club sportivo, potrebbe consentire una eccezionale dis-applicazione del regime riservato? La risposta negativa è scontata: quand’anche un certo soggetto limitasse l’offerta dei suoi servizi di gestione individuale alla platea con cui egli intrattenga una previa relazione, qualora esse non fosse un soggetto autorizzato, egli sarebbe pur sempre commettendo l’illecito di esercizio abusivo di attività riservata. Ma, allora, se la preesistenza di una relazione fra gestore e risparmiatore è del tutto irrilevante rispetto alla riserva di attività della gestione individuale non vi è ragione che essa debba essere irrilevante rispetto alla parallela fattispecie di gestione collettiva. Se poi si considera che la logica della Direttiva GEFIA è

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effettivamente duplice, il criterio discretivo fondato sull’appartenenza dei partecipanti ad un gruppo preesistente risulta ancor meno

sostenibile.

Rispetto alla potenzialità di rischi sistemici originati da un qualsivoglia fondo di investimento, ivi incluso quello costituito secondo lo schema del club deal – l’origine, interna o esterna, del capitale raccolto risulta francamente del tutto irrilevante: ciò che conta, sotto questo profilo è piuttosto il quantum del capitale raccolto e il quantum di leva

finanziaria con cui esso decida di operare. Se poi si considera che, nell’esperienza statunitense, i club deal sono quelli costituiti non già da persone fisiche legate da relazioni preesistenti, bensì private equity firms che agiscono di concerto, è persino scontato constatare che un club deal genera semmai maggiori e non minori rischi sistemici. Tanto che si identifichi la ratio della Direttiva GEFIA sull’esigenza di tutela degli investitori quanto che si valorizzi piuttosto l’obiettivo si salvaguardia della stabilità del sistema finanziario, il criterio discretivo fondato sul requisito del gruppo preesistente non regge al vaglio di una adeguata interpretazione teleologica della fattispecie.

Ma nemmeno convincente è l’altro orientamento che si è sopra esaminato: quello che fa dipendere la qualificazione di un club deal in termini di FIA dall’accertamento di una differenziazione funzionale fra gestore professionale e risparmiatori e, segnatamente, della

autonomia gestionale del primo rispetto ai secondi.

Non s i può, innanzitutto, trascurare che il requisito della autonomia gestionale, non è affatto previsto quale elemento-tipico della

fattispecie fondo alternativo di investimento in seno alla Direttiva GEFIA; il che, anche alla luce del principio che il diritto nazionale deve uniformarsi a quello dell’Unione, rende assai dubbio che un criterio interno possa portare a concludere che, nel nostro ordinamento, sia attività non riservata quella stessa attività che , in altro ordinamento dell’Unione che non abbia enucleato questo ulteriore elemento della fattispecie, sarebbe senz’altro riservata.

Ma la perplessità più gravi suscitate dall’orientamento in esame sono in realtà altre.

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L’assunto che la autonomia della gestione postuli una strutturale differenziazione funzionale fra la figura del promotore/gestore e la figura del risparmiatore/investitore – e che, pertanto, non si darebbe GCR quando il potere gestorio trovi il suo “titolo” nella titolarità della maggioranza del capitale investito- è semplicemente smentito dal nostro diritto nazionale.

Per effetto dell’ art 37, comma 3, TUF, dispone che – nei fondi mobiliari chiusi la maggioranza dei partecipanti ha il potere di

89rimuovere il gestore140. Ciò dimostra in modo inequivocabile come si dia perfetta compatibilità fra gestione collettiva del risparmio e

correlazione fra potere gestorio e entità del capitale investito. E se, nel caso di un fondo contrattuale, ciò dipende dall’anzidetta norma “interna” di legge, nel caso di un fondo costituito in forma societaria, lo stesso identico regime di correlazione fra “potere gestorio” e “capitale investito” discende dal regime societario

adottato: poiché è pacifico che la Direttiva GEFIA consideri FIA tanto le SICAV, quanto le SICAF, non può seriamente dubitarsi che il fenomeno della gestione collettiva del risparmio sia perfettamente compatibile con un regime gestorio che faccia dipendere l’attività del gestore dalle “ordinarie” regole assembleari.

Tutto questo è, peraltro, coerente con le ragioni ispiratrici della riforma: l’esigenza di tutela dell’investitore ricorre anche quando l’investitore disponga dell’ordinario potere di influenza sulla gestione che si esprime attraverso l’esercizio del diritto di voto in assemblea; l’esigenza di salvaguardia della stabilità del sistema finanziario,

parimenti, non subisce alcuna attenuazione allorquando il gestore sia normalmente revocabile attraverso ordinari meccanismi di diritto societario.

Ciò che consente di escludere che un club deal integri la fattispecie di gestione collettiva del risparmio non è né l’appartenenza dei

partecipanti ad un “gruppo preesistente”, né l’attribuzione al gestore di “autonomia gestionale”. Piuttosto, l’elemento della fattispecie

140 La disposizione è stata introdotta come comma 2-bis dell’art 41-bis, comma 7, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge n. 326 del 2003; il d.lgs 4 marzo 2014, n.44 ha, da ultimo, riscritto l’inter

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gestione collettiva del risparmio che fa difetto nel caso di un club deal è, ben più a monte, proprio quello della “gestione”.

Nella sua conformazione social-tipica, con un’operazione di club deal i partecipanti/investitori non conferiscono affatto al promotore/gestore il proprio capitale affinchè quest’ultimo lo gestisca, cioè si assuma il compito professionale di adottare discrezionalmente scelte di

investimento e disinvestimento nell’interesse dei risparmiatori. Ben diversamente: il promotore si limita a proporre ai partecipanti una determinata opportunità di investimento rispetto ad un determinato target, ma è il destinatario della proposta che, se accetta di

partecipare al club, compie la scelta di investimento. Ora, è fin troppo evidente che laddove la scelta di investimento sia assunta

dall’investitore è difficile affermare che ci si trovi dinanzi ad una gestione del risparmio altrui.

Nelle operazioni di club deal i partecipanti, non attribuiscono al promotore dell’iniziativa la scelta dell’individuazione del target dell’investimento: in tal caso, ci si troverebbe dinanzi ad un

conferimento di potere gestorio. Nelle operazioni di club deal, per come note alla prassi, l’individuazione del target da parte del promotore avviene a monte: sicché ciò che viene proposto ai

partecipanti non è di conferire il patrimonio alla gestione discrezionale di chi assume l’iniziativa, bensì di partecipare ad un’operazione di co- investimento mirato.

Ora, laddove il promotore dell’operazione non abbia affatto il potere di decidere come impiegare il capitale conferito degli investitori, giacché sono gli investitori che decidono di aderire al club ciò che manca rispetto alla fattispecie gestione collettiva del risparmio non è tanto la raccolta del capitale, né la autonomia del gestore; ciò che manca è proprio l’elemento “gestione”.

Ma – eccoci al punto – se il promotore non ha affatto alcun potere discrezionale circa l’impiego del capitale raccolto, può, si venire in considerazione un profilo di tutela informativa dell’investitore, ma non certo un profilo di tutela del risparmiatore che conferisce il proprio patrimonio in “gestione”.

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Si ricordi: il quid originario dell’istituzione della riserva di attività di gestione professionale del risparmio è quello della tutela rispetto al rischio di conflitto di interesse: ma in tanto può sorgere un problema di conflitto di interesse, in quanto il gestore abbia un margine di discrezionalità. Se il margine di discrezionalità manca, non c’è alcun rischio di conflitto di interesse; non c’è, all’evidenza, alcun “gestore”. Né poi a conclusione diversa si può giungere rilevando come il quid dell’istituzione della riserva di cui alla Direttiva GEFIA non è solo quello della tutela dell’investitore, ma anche quello della salvaguardia della stabilità del sistema finanziario.

Una società-veicolo costituita per un investimento mirato non determina l’insorgenza di alcun rischio di destabilizzare il mercato atteso che – di nuovo- poiché si tratta di un investimento mirato rispetto ad una specifica società target non c’è affatto il rischio che la società-veicolo possa assumere condotte di “disinvestimento

disordinato” sul mercato del capitale. La società-veicolo costituita per un’operazione di club deal non è una società che “negozia” in titoli, bensì una società che acquista una certa partecipazione che detiene fino al completamento dell’operazione.

In ultima analisi, ciò che induce a ritenere non rientrante nell’area dell’attività riservata la società-veicolo che compiono operazioni di club deal è l’assoluto difetto di qualsivoglia elemento “gestorio”. E, se manca tale elemento, mancano ad un tempo sia le esigenze di tutela del risparmiatore rispetto al conflitto di interesse, sia le esigenze di salvaguardia del mercato dal rischio di destabilizzazione, ovvero rischio