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tutti quei gestori di fondi di investimento che non sono regolat

3.1.5 Le Holding Companies

Fintantoché il servizio di gestione collettiva del risparmio era soltanto quello consistente nell’esercizio del mestiere di diversificatore

professionale – ciò che, nel nostro ordinamento è stato vero fino a quando gli strumenti disponibili allo scopo il fondo di investimento mobiliare aperto di cui alla legge del 1983, la società di investimento a

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capitale variabile di cui la legge del 1992 o il fondo di investimento mobiliare chiuso di cui alla legge del 1993- i due mondi,

rispettivamente, degli organismi deputati al servizio di gestione collettiva del risparmio, da un lato, e delle holding companies, dall’altro, restavano insuscettibili di sovrapposizione funzionale: a fronte di un sistema normativo che, costantemente e coerentemente, imponeva ai primi l’assoluto divieto di acquistare partecipazioni sociali idonee a conferire una posizione di influenza notevole147 nella

gestione, ben si comprende come solo la seconda, holding companies, potessero legittimamente svolgere quel mestiere di apportatore di entrepreneurial skills148 del tutto precluso agli organismi di gestione collettiva del risparmio.

Tuttavia, prima per effetto del TUF e della regolamentazione

secondaria, ora per effetto della Direttiva GEFIA, la gestione collettiva del risparmio si è espansa fino a ricomprendere i fondi di private

equity, e segnatamente di quelli che effettuano acquisizioni di maggioranza, le linee discretive si sono inevitabilmente confuse. La questione è la seguente: cosa distingue un fondo di private equity che consegua il controllo di una società in vista di una sua successiva valorizzazione rispetto ad una società holding? Posto che l’uno e l’altra, attraverso il controllo o comunque l’esercizio di influenza notevole , perseguono lo scopo di influenzare le strategie

imprenditoriali attraverso l’esercizio delle prerogative dell’investitore attivo, qual è, se c’è, il tratto discretivo che, anche sotto il profilo dell’intendimento delle ragioni ispiratrici della nuova estensione della GCR, possa giustificare una eventuale diversità di trattamento sotto il profilo della Direttiva GEFIA?

Il compito dovrebbe in realtà essere reso più agevole da un’apposita norma, eurounitaria e domestica, che dispone la non applicabilità della

147 Ai sensi del D.Lgs n.127/1991 che ha modificato l’art 2359 c.c., si presume influenza notevole quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

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disciplina della gestione collettiva del risparmio alle società di partecipazione finanziaria.

Il legislatore definisce tale fattispecie come “ quelle società che detengono partecipazioni in una o più imprese, con lo scopo di realizzare strategie imprenditoriali per contribuire all’aumento di valore nel lungo termine delle stesse, attraverso l’esercizio del controllo, dell’influenza notevole o dei diritti derivanti dalle

partecipazioni” e rispetto alle quali sia alternativamente assolta l’una o l’altra delle due seguenti condizioni:

1. Che esse “operino per conto proprio e le cui azioni siano ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato dell’Unione

Europea”;

2. Che esse “ non siano costituite con lo scopo principale di generare utili per i propri investitori tramite disinvestimenti delle

partecipazioni".

Ora, lo scopo consistente nel “realizzare una strategia o delle strategie imprenditoriali attraverso le… imprese figlie, società associate o

partecipate al fine di contribuire al loro valore a lungo termine” , è, evidentemente, del tutto comune tanto ad una holding company quanto ad un fondo di private equity che effettui investimenti di maggioranza o comunque significativi. Sotto questo profilo, non è riscontrabile alcuna diversità funzionale fra i fondi di private equity e le holding companies. Il legislatore affida, piuttosto, il compito di distinguere fra gli uni e le altre due elementi chiave: la ricorrenza o meno del duplice requisito

consistente nell’operare per conto proprio e nel possedere lo status di società quotata ovvero la ricorrenza o meno del requisito consistente nello scopo prevalente di generare utili per i propri investitori tramite il disinvestimento delle partecipazioni.

A fronte di questa precisa indicazione normativa il primo problema che si pone all’interprete è il seguente: è il senso della disposizione quello di esentare dall’applicazione della Direttiva GEFIA fattispecie che, in sua assenza, vi sarebbero rientrate? Ovvero il suo senso è quello di

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normativa di società di partecipazione finanziaria sono in sé e per sé estranee all’area della riserva ?

A seconda che si propenda per l’una o per l’altra ricostruzione le conseguenze sono assai rilevanti:

1) Se alla norma si attribuisce portata propriamente “eccettuativa” , le società di partecipazione finanziaria costituiscono una specie del genere FIA che, proprio in ragione dei requisiti propri della specie , sono eccezionalmente esentate dalla Direttiva, altrimenti detto, le società di partecipazione finanziaria sono FIA, ma sono FIA

eccezionalmente esenti.149

2) Se, invece, alla norma si attribuisce una portata meramente

“dichiarativa” le società di partecipazione finanziaria non sono FIA e, dunque, la Direttiva GEFIA non è loro applicabile non già in via di eccezione, bensì in via di regola, pertanto la circostanza che una certa società non sia qualificabile come società di partecipazione finanziaria nulla direbbe circa la sua riconducibilità o meno

all’ambito della riserva, ben potendoci essere società che, pur non essendo qualificabili come società di partecipazione finanziaria, risulterebbero altresì insuscettibili di essere qualificate come FIA, proprio per questo, sono normalmente non soggette alla

Direttiva.150

Per orientarci in modo adeguato rispetto a tale bivio possono essere utili le seguenti considerazioni.

Sebbene la gestione collettiva del risparmio ben possa oggi comportare l’esercizio tradizionalmente proprio delle holding, ovvero l’esercizio delle prerogative tipiche dell’investitore attivo titolare di partecipazioni

maggioritarie, resta, tuttavia, ancor oggi vero che un simile mestiere

149 Così parrebbe orientato P. CARRIERE, La riformulazione della riserva di attività alla gestione collettiva del risparmio e le Sicaf, cit. p. 468; analogamente F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, cit. p. 198 ( nt. 3).

150 Così, G. SANDRELL, Raccolta dei capitali e attività di investimento, cit. p. 436, per il quale ben potrebbero esservi holding che non sarebbero qualificabili né come società di partecipazione finanziaria , né come FIA: ad esempio, le società che investono, con un’ottica di detenzione, partecipazioni

minoritarie insuscettibili, per via della entità della partecipazione detenuta, di consentire alla società partecipante di esercitare una influenza sulle strategie imprenditoriali.

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debba sempre e necessariamente accompagnarsi a quello di diversificatore professionale del rischio.

Tutto questo era, certamente vero allorquando le maglie della gestione collettiva del risparmio si sono per la prima volta allargate, per effetto del TUF del 1998 e della regolamentazione secondaria del 1999, con la

“rivoluzionara” rimozione del divieto di acquisti maggioritari per i fondi mobiliari di tipo chiuso.

A questi, infatti, è stato si consentito acquisire il controllo di profit-driven firm, ma pur sempre entro il limite di quel fund-based requirement che prescriveva che la percentuale massima del capitale investibile in un singolo emittente non potesse comunque superare il venti per cento del patrimonio complessivo del fondo. Ciò vuol dire che, nel regime normativo valso fino al recepimento della Direttiva GEFIA, il patrimonio del fondo chiuso mobiliare dovesse comunque rispettare un certo grado di

diversificazione che, ove spinto all’estremo, avrebbe potuto comportare l’impiego del patrimonio del fondo in non meno di cinque emittenti societari. Ma che la gestione collettiva del risparmio, pur quando esercitata attraverso acquisti di maggioranza o comunque significativi, continui a postulare un certo quantum di diversificazione è dato che continua a restar valido anche nel quadro del regime normativo inaugurato dalla Direttiva GEFIA e dalla corrispondente legislazione domestica.

La Direttiva GEFIA non detta precise regole di diversificazione applicabile ai FIA, come si legge in uno dei “considerando”, il legislatore eurounitario non ha inteso armonizzare le troppo diverse discipline nazionali dell’intero multiforme universo dei FIA, limitandosi piuttosto a dettare delle regole comuni applicabili al gestore di un FIA.151 Ma nonostante il combinato disposto dalla Direttiva GEFIA e degli orientamenti dell’ESMA, si ricava

151 Osservano, R. LENER e C.PETRONZIO, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit. p. 388: “ La AIFMD è incentrata sulla disciplina dei soggetti che esercitano l’attività di gestione di fondi alternativi, essendo nata dall’esigenza di disciplinare un fenomeno che, come mostrato dalle difficoltà finanziarie emerse in anni recenti, può contribuire a diffondere o amplificare i rischi sistemici sui mercati in ragione delle strategie utilizzate nella gestione di fondi liberamente regolati a livello nazionale. Il legislatore comunitario ha perciò disciplinato i gestori […] e non i fondi, poiché sarebbe stato impossibile armonizzare i tipi di organismi di investimento collettivo estremamente diversi per natura, oggetto dell’investimento e regole di funzionamento”.

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inequivocabilmente che, in tanto si dà FIA, in quanto l’organismo di investimento persegua una politica di diversificazione degli investimenti. Il FIA è, infatti, definito come quell’organismo che impieghi il capitale al fine di “generare un rendimento aggregato per gli investitori”. E il

rendimento aggregato si dà allorquando esso è generato dall’investimento in un pool di securities.

Coerentemente con la disciplina eurounitaria, il Regolamento sulla

Gestione Collettiva del Risparmio emanato da Banca d'Italia precisa che la “politica di investimento” di un qualsivoglia FIA debba basarsi sul

“principio del frazionamento del rischio” e debba identificare i “criteri di diversificazione dei rischi”. Vero è però che il citato Regolamento impone dei precisi requisiti minimi di diversificazione del rischio per i FIA aperti, per i FIA chiusi non riservati (a investitori professionali) e non già per i FIA riservati (a investitori professionali). Ma vero è anche che pure i FIA riservati devono “ investire il proprio patrimonio …nel rispetto

dell’esigenza di assicurare un frazionamento degli investimenti con gli obiettivi di ottimizzazione del portafoglio”.

A fronte di questi dati desumibili dal complessivo quadro normativo può quindi trarsi la conferma che l’ordinamento consente, sì, che l’esercente la gestione collettiva del risparmio possa altresì dedicarsi al mestiere di

apportatore professionale di entrepreneurial skills , ciò che è invero oggi possibile a tutti i FIA chiusi, sia a quelli riservati a investitori professionali, sia quelli aperti anche a piccoli risparmiatori, ma pretende, comunque, che tale mestiere sia esercitato nel quadro di una diversificazione

professionale dei rischi, che è rigidamente vincolata al rispetto di quantum minimi di diversificazione, nel caso dei FIA chiusi aperti agi investitori retail ed è invece lasciata alla libera auto-determinazione nel caso di FIA chiusi riservati agli investitori professionali.152

Queste considerazioni ci permettono di tracciare un primo punto fermo.

152 Sembrano concordare R. LENER e C. PETRONZIO, La gestone collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit. p. 402, per i quali la “ politica di investimento” pur lasciata alla libera determinazione privata, nei termini e nei limiti di cui alla regolamentazione secondaria, deve comunque definire i “criteri di diversificazione del rischio”.

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Se un certo quantum di diversificazione è elemento tipico imprescindibile della fattispecie FIA, ne consegue che tali certamente non sono quelle società holding che abbiano come scopo sociale quello della detenzione di un’unica partecipazione sociale153 .

Precisamente: tutte le holding poste a capo di un gruppo industriale cui è strutturalmente estranea qualsivoglia politica di diversificazione del

portafoglio non sono, semplicemente, società di partecipazione finanziaria che, grazie all’eccezionale esenzione, sono sottratte all’applicazione della Direttiva GEFIA. Esse sono, piuttosto società che a monte non sono

qualificabili come FIA e sono, quindi, estranee all’area riservata in via di regola e non di eccezione.

Già questo dato consente di disporre di un importante indizio ai fini della ricostruzione del quesito prima posto circa la natura “costitutiva” o

“dichiarativa” della norma che esclude l’applicabilità della Direttiva GEFIA alle società di partecipazione finanziaria: se le holding capogruppo non sono soggette non già perché FIA esenti, bensì a monte perché non-FIA, è allora legittimo assumere che, precisando la non applicabilità della

Direttiva alle società di partecipazione finanziaria, il legislatore abbia voluto definire la linea di confine fra ciò che è FIA e ciò che non è FIA, piuttosto che dettare una eccezionale norma di esenzione per una figura speciale di FIA-esenti.

Ma procediamo con l’esame.

Escludere che sia FIA una holding capogruppo e, più in generale,

qualsivoglia società che detenga un’unica partecipazione sociale al di fuori di qualsivoglia politica di diversificazione è, certamente, piuttosto agevole. Più complessa è, invece, la questione con riguardo a holding di

partecipazioni che adottino una certa politica di diversificazione. Se, invero, una holding non si limita a fungere da long-term active

shareholder, ma tanto fa nel quadro di una politica di frazionamento del rischio, la linea discretiva fra holding companies e fondi di private equity torna nuovamente a confondersi.

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Un importante indizio per discernere fra le une e gli altri può essere tratto dalla seconda delle condizioni dalla quale il legislatore fa dipendere la non applicabilità della Direttiva GEFIA, ovvero: la prevalenza dello scopo

“detentivo” rispetto allo scopo “dispositivo”. Perché una holding non ricada nell’alveo dell’attività riservata è necessario che essa non sia costituita con “lo scopo principale di generare utili per i propri investitori mediante disinvestimenti delle partecipazioni”154 . La finalità tipica dei fondi di private equity che effettuano investimenti maggioritari è pur sempre diretta, alla valorizzazione in ultima istanza della partecipazione oggetto di investimento: la partecipazione maggioritaria o comunque significativa è, innanzitutto, acquisita - primo step -; grazie all’apporto di entrepreneurial skills, essa , quindi, resa più profittevole - secondo step -; ma una volta adeguatamente realizzato il progetto di managerializzazione, la partecipazione è in fine monetizzata – terzo step -.

L’ottica di un fondo di private equity è, insomma, pur sempre quella

diretta alla dismissione della target secondo il modello buy-to-hold-to-sell: la detenzione (hold) funzionale all’apporto di entrepreneurial skills è pur sempre un medium fra il buy iniziale (investimento) e il sell finale

(disinvestimento) . Diversamente detto, il fine ultimo di qualsivoglia operazione di private equity è sempre quello che, muovendo da un investimento a monte, mi ad un disinvestimento a valle.

Diversa è, invece, l’ottica di fondo di una holding che pure adotti una politica di diversificazione di ultima istanza: al buy-to-hold, iniziale, segue un hold-to-hold finale.

Pertanto: allorquando una holding è si diversificata ma non già all’interno di una prospettiva “ dispositiva”, bensì “detentiva”, l’elemento

diversificazione diventa meramente accessorio o secondario rispetto all’elemento detenzione; allorquando, invece, una holding, non solo è diversificata, ma ha altresì una prospettiva comunque dispositiva, allora, è piuttosto l’elemento detentivo a risultare accessorio o secondario rispetto all’elemento diversificazione.

154 Tanto la Direttiva GEFIA, quanto, coerentemente il TUF all’art 32-quater richiedono che l’ottica dispositiva sia attestata da elementi risultanti dal bilancio o da altri documenti societari della società. Sulla rilevanza e la portata di tale prova, v. G. SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento, cit. p. 438.

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Nel nostro lessico la si potrebbe mettere in questi termini: posto che l’attività di GCR, originariamente coincidente con la sola attività di diversificazione professionale, può ora coesistere con a sola attività di apporto professionale di entrepreneurship, il criterio discretivo dettato dal legislatore è il seguente:

- Ci si trova dinanzi ad un FIA, allorquando l’apporto di

entrepreneurship è un semplice mezzo rispetto al fine, che resta comunque dispositivo o finanziario in quanto orientato, in

ultima istanza, alla monetizzazione dell’investimento maggioritario;

- Ci si trova dinanzi ad un non-FIA, allorquando, al contrario, l’apporto di entrepreneurship, lungi dall’essere un mezzo rispetto al fine costituisce piuttosto il fine ultimo dell’holder. Le conclusioni fin qui raggiunte – le holding “capogruppo” non

diversificate sono non-FIA; le holding diversificate sono non-FIA o sono FIA, a seconda che l’apporto di entrepreneurship costituisca,

rispettivamente, scopo ultimo ovvero semplice mezzo rispetto al fine- sono, peraltro, avvalorate dalla considerazione delle linee guida della Direttiva GEFIA:

- Tanto le holding capogruppo, quanto le holding diversificate senza orizzonte finanziario, sono strutturalmente inidonee ad evocare il rischio di contagio sistemico, le une e le altre sono per definizione players stabili, e come tali tendenzialmente

insensibili all’imprevedibile andamento dei mercati finanziari; - Tanto le une quanto le altre non espongono l’investitore ad

alcun rischio gestorio, atteso che l’elemento detenzione è prevalente sull’elemento trading. L’investitore in una holding, anche se diversificata, si espone al rischio di impresa delle società partecipate e non al rischio di gestione del suo patrimonio.

Fin qui, dunque, il senso della norma che esclude la soggezione alla

Direttiva GEFIA delle società di partecipazione finanziaria parrebbe andar chiarendosi.

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Occorre, però, ancor dar conto dell’altra condizione al ricorrere della quale una società di partecipazione finanziaria è dichiarata non-soggetta alla Direttiva GEFIA: lo status società quotata che agisce per proprio conto. Poiché tale condizione è testualmente alternativa e non cumulativa

rispetto a quella consistente nella prevalenza dell’ottica detentiva rispetto a quella dispositiva, parrebbe che il legislatore abbia inteso “esentare” dalla Direttiva GEFIA quelle holding companies che, pur condividendo con i fondi di private equity una finalità di valorizzazione di ultima istanza delle partecipazioni acquisite, resterebbero comunque estranee all’area della riserva di attività solo perché “quotate” che “agiscono per conto

proprio”.155

Almeno due sono le domande sollecitate da questa norma: per quale ragione lo status di quotata che agisce per conto proprio determina la non-soggezione alla Direttiva di una holding che pure si “comporta” esattamente come un fondo di private equity? E come può conciliarsi la regola della non-soggezione alla Direttiva GEFIA dei long-term active shareholders che siano quotati e che agiscono per conto proprio rispetto a quanto enunciato dal “considerando n.8” della medesima Direttiva ove si afferma che i fondi di private equity devono ritenersi tendenzialmente soggetti quand’anche siano quotati?

Che il quadro normativo sia oggettivamente ambiguo è fatto palese dalla circostanza che la Commissione Europea è stata invitata dagli operatori a fornire chiarimenti proprio in materia.

La risposta da essa fornita, pur dichiaratamente volta a restituire coerenza , si è rivelata tutt’altro che risolutiva.

La Commissione ha, in primo luogo, confermato che un fondo di private equity non può ritenersi non-soggetto solo perché quotato in borsa: lo status di quotato non sarebbe, di per sé, rilevante, ai fini di sfuggire alle

155 Il tema è ampiamente trattato da G. SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento, cit. p. 439 ss, osserva: “parrebbe dunque ipotizzabile – sempre attenendosi alla sola lettera dell’art. 32-quater- che possono sottrarsi all’applicazione della disciplina del risparmio gestito le società (quotate) il cui scopo è quello di generare utili per i propri azionisti attraverso i disinvestimenti nelle partecipazioni acquistate, pur rispettando il vincolo di realizzare le anzidette strategie imprenditoriali di lungo periodo. E sembrerebbe altresì ammissibile, di conseguenza, che le scelte di investimento e disinvestimento possano essere guidate da una vera e propria ‘politica’ resa nota con anticipo agli azionisti, non diversamente da quanto previsto, in generale, per gli OICR”.

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maglie della riserva di attività. E ha, in secondo luogo, rilevato come l’inciso “operare per conto proprio” starebbe a denotare l’assenza di un “intent to dispose of such shares”156p106: un soggetto che perseguisse l’obiettivo principale di disinvestire le partecipazioni acquisite resterebbe soggetto alla Direttiva, pur quando esso fosse quotato.

È, invero, evidente che, muovendo da una simile ricostruzione del quadro normativo, la condizione consistente nelle status di soggetto quotato che agisce per conto proprio finisce per coincidere con quella consistente nella “prevalenza di un’ottica detentiva rispetto ad un’ottica dispositiva”. La Commissione , dunque, restituisce, si coerenza al sistema, ma al prezzo di una interpretazione abrogativa della prima condizione che, pure sotto il profilo testuale è presentata come alternativa rispetto alla seconda. Se agire per conto proprio significa, agire secondo il modello buy-to-hold senza il conseguente obbiettivo hold-to-sell, allora l’intera prima

condizione risulta una mera ripetizione della seconda. In ultima analisi, la non-soggezione della società di partecipazione finanziaria resterebbe pur