Come si è avuto modo di osservare nel capitolo precedente, il d. lgs. 231/2001 ha finalmente riconosciuto un modello di responsabilità diretta delle persone giuridiche, superando così «l'antica obiezione legata al presunto sbarramento dell'art. 27 Cost. e cioè all'impossibilità
203 DI GIOVINE O., Lineamenti sostanziali, cit., p. 71.
204 A riprova di questo fatto, il già citato art. 12 del Decreto, che stabilisce che l’ente incorre comunque nella
responsabilità – e nell’applicazione della sanzione, benché ridotta – anche qualora non abbia ricavato alcun vantaggio dalla commissione dell’illecito.
di adattare il principio di colpevolezza alla responsabilità degli enti»205, seppellendo così
definitivamente il societas delinquere non potest: sgombrato il campo da una sua anacronistica concezione in termini meramente psicologici in favore di una lettura in senso normativo come ‘riprovevolezza’, la colpevolezza appare ora come un concetto adattabile anche alle realtà collettive.
In concreto, nella disciplina delineata dal “microcodice 231”, la colpevolezza dell’ente sembra assumere due diverse configurazioni: la prima nonché la più grave206, è la colpevolezza
come manifestazione della politica d’impresa, che è in qualche modo equiparabile al dolo; trattasi di una forma di colpevolezza verticistica, in cui i soggetti responsabili sono quelli posti in una posizione apicale all’interno dell’organizzazione aziendale, che sono essi stessi espressione delle scelte di politica aziendale207. La seconda accezione di colpevolezza che si
rinviene è quella cd. di organizzazione208, una sorta di colpa preventiva dell’ente, la cui
rimproverabilità si fonda sull’esistenza di un difetto di nella sua strutturazione interna, che ha reso possibile la commissione della condotta illecita.
A ben vedere tuttavia, la genericità del concetto di colpevolezza derivante dall’attuazione della politica aziendale – derivante dal fatto che il tenore delle scelte aziendali emerga da fattori quali il modo di gestire e organizzare l’impresa, difficilmente inquadrabili all’interno di precisi (ed eventualmente sanzionabili) schemi di comportamento – presta il fianco a possibili abusi e mal si concilia con il principio di tassatività, corollario del principio di legalità esplicitamente richiamato all’art. 2 del Decreto: per questa ragione, la dottrina maggioritaria ritiene che in realtà il legislatore delegato abbia deciso di configurare la colpevolezza dell’ente essenzialmente in chiave di colpa derivante da carenze
205 Relazione al decreto 231/2001, § 1.1.
206 DE MAGLIE V., L’etica e il mercato, op. cit., 356 e ss., attribuisce alla colpevolezza derivante dalla politica
d’impresa la maggiore gravità.
207 Come ricorda PULITANÓ D., La responsabilità da reato degli enti. Problemi di inquadramento e applicazione,
cit., p. 271, che riporta quanto osservato dalla Commissione Grosso, «spesso l’illecito è frutto dei condizionamenti sull’agire del singolo, all’operare per l’organizzazione: condizionamenti che possono derivare, e di regola derivano, da vincoli organizzativi, stili di comportamento, politiche imposte o additate ai portatori di determinati ruoli».
208 Il primo, fondamentale, contributo al concetto di “colpa di organizzazione” deve essere riconosciuto a
TIEDEMANN K., La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1995, p. 615 ss: l’Autore, nella ricerca di un fondamento giustificativo al paradigma di responsabilità
introdotto in Germania, individuò nel difetto di organizzazione la ragione dell'imputazione alla persona giuridica degli illeciti posti in essere dai suoi organi o rappresentanti, in quanto proprio la presenza di tale deficit avrebbe reso possibile o quantomeno agevolato, il compimento di reati da parte dei soggetti in essa operanti.
d’organizzazione, componendo di fatto i due tipi di colpevolezza209 – quella manifestazione
della politica d’impresa e quella conseguente il difetto di organizzazione dell’ente.
Ciò non impedisce tuttavia di valorizzare in modo differente la colpevolezza dell’ ente in base al soggetto che si rende responsabile della violazione: a tal proposito, la prova che l’ente dovrà fornire per non essere sanzionato per l’illecito commesso dagli apicali si configura come particolarmente gravosa – soprattutto nel caso di ente a base manageriale ristretta, in cui non è particolarmente evidente la frammentazione dei poteri decisionali – tanto da essere definita in dottrina “probatio diabolica”.210
Ai sensi dell’art. 6 del Decreto infatti, l’ente non risponde del reato commesso da soggetti posti al suo vertice qualora provi che l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; inoltre, l’ente deve anche dare prova del fatto che il compito di vigilare sul funzionamento e l’aggiornamento dei modelli sia stato affidato a un Organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo e da ultimo, che non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte di tale Organismo. In dottrina si registrano due diverse interpretazioni della formula di cui all’articolo in esame: secondo una prima concezione, il meccanismo previsto dalla disposizione sarebbe configurabile come di tipo “scusante”, volto pertanto ad escludere la colpevolezza dell’ente211; secondo un altro
orientamento, invece, la presenza di un modello di compliance sarebbe da inquadrare nell’ambito delle cause di esclusione della punibilità, pur restando fermo il riconoscimento della responsabilità in capo all’ente per l’illecito realizzato nel suo interesse o a suo vantaggio212.
209 In questo senso, DI GIOVINE O., Lineamenti, cit., pag. 81, la quale efficacemente rileva come «quale che sia
forma in cui si estrinseca, sul piano empirico, il criterio di attribuzione, proprio perché attinente all'organizzazione dell'ente, è stato costruito, dal punto di vista normativo, come sostanzialmente indifferenziato, e su base colposa». In senso adesivo, anche MANNA A., La cd. responsabilità, cit., pp. 509 ss.; PIERGALLINI C., Societas
delinquere non potest, cit.; FORTI G., Uno sguardo ai “piani nobili” del d.lgs. 231/2001, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, pp. 1249 ss.
210 Così, BERNASCONI A., PRESUTTI A., Manuale della responsabilità degli enti, cit., 171.
211 Propendono per questa orientamento, DE VERO G, La responsabilità, cit., p. 180; DE SIMONE G., I profili
sostanziali della cd. responsabilità amministrativa degli enti: la parte generale e la parte speciale del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in AA. VV. La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, a
cura di G. GARUTI, Cedam, Padova, 2002, p. 107.
212 In questo senso, IELO P., Compliance programs: natura e funzione nel sistema della responsabilità degli enti.
Modelli organizzativi e d.lgs. 231/2001, in Resp. amm. soc. ent., 2006, n. 1, pp. 99 ss; MEREU A., La responsabilità, cit., p. 64; sul punto, cfr. anche sentenza Trib. Milano 3 novembre 2010 (g.u.p. F.
D'ARCANGELO) in www.penalecontemporaneo.it: «l'adozione di un idoneo modello organizzativo e la sua efficace attuazione costituiscono non già elementi costitutivi della regola della responsabilità da reato degli enti, ma assumono esclusivamente valenza esimente di un illecito già completo in tutti i suoi elementi costitutivi». In sostanza, in questa prospettiva di analisi, la colpa di organizzazione - benché continui ad essere ritenuta un
Quale che sia il ruolo della previsione, stando alla lettera del dato normativo, il legislatore delegato sembrerebbe aver introdotto un’inversione dell’onere probatorio, in quanto, secondo la dottrina prevalente, opererebbe una presunzione, sia pur solo iuris tantum, di sussistenza della «colpa organizzativa» fondata sul cd. principio di identificazione, in forza del quale il requisito soggettivo della responsabilità dell’ente sarebbe da ritenersi soddisfatto nel caso sia riconosciuta la responsabilità del soggetto in posizione apicale: tale presunzione potrà essere vinta solo qualora l’ente riesca a dimostrare la sua estraneità fornendo la prova del suo corretto operare attraverso l’accertamento della sussistenza di tutti i requisiti, cumulativamente rilevanti, indicati all’art. 6 del Decreto. In realtà, come già accennato nel Capitolo precedente, nella nota sentenza sul caso ThyssenKrupp (Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343), le Sezioni Unite hanno specificato come in realtà nessuna inversione dell’onere della prova sia «ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al d.lgs.n.231, art.5, e la carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria»; pertanto, non ci si troverebbe di fronte a una reale inversione dell’onere probatorio, in quanto «militano a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui al d.lgs. n. 231, art. 6, afferenti alla dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi».
Oltre al requisito dell’adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione, il criterio d’imputazione soggettiva all’ente con riguardo agli illeciti commessi dai soggetti “apicali” delineato dall’art. 6 prevede un requisito ulteriore per la “prova liberatoria” dell’ente: infatti, dal comma primo, lett. c), si ricava che l’ente non risponde del reato ove provi che il soggetto responsabile abbia agito «eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione»: in questo caso non vi è rimprovero nei confronti dell’ente perché la struttura non è stata accondiscendente rispetto ai piani illeciti dell’individuo, a tal punto che quest’ultimo ne ha dovuto aggirare i meccanismi preventivi.213 La giurisprudenza di legittimità ha peraltro
elemento indefettibile del modello imputativo - troverebbe una corretta collocazione sistematica all'esterno del fatto tipico dell'ente, mentre la fattispecie ascrittiva della responsabilità da reato dell'ente sarebbe ‘integrata esclusivamente dalla commissione di un delitto presupposto nell'interesse o a vantaggio dell'ente da un soggetto in posizione apicale».
213 CONSULICH F., Il principio di autonomia della responsabilità dell’ente. prospettive di riforma dell’art. 8, in
Resp. amm. soc. ent., 2018, n. 4, p. 208; la previsione del meccanismo di discolpa attraverso la prova dell’elusione
fraudolenta accanto a quello dell’adozione di un modello adeguato prima del fatto è espressione della coesistenza, all’interno dell’art. 6, di due anime, una puramente oggettiva, fondata sull’immedesimazione tra apice e persona
specificato che il comportamento elusivo «non può consistere nella mera violazione delle prescrizioni contenute nel modello», quanto piuttosto debba sostanziarsi «in una condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola»214, idonea a ricomprende anche l’ipotesi del c.d.
“amministratore infedele” che agisce contro l’interesse al corretto funzionamento dell’ente. In ogni caso, l’ente non potrà godere degli eventuali profitti economici conseguenti all’operato dell’amministratore infedele: l’ultimo comma dell’art. 6 prevede, anche nel caso in cui l’ente abbia dimostrato la sua estraneità rispetto alla commissione dell’illecito, la confisca215 del
profitto derivante dal reato.
Meno problematica, almeno a una prima lettura, è l’ipotesi in cui l’autore della condotta criminosa sia un soggetto che si trova con l’ente in un rapporto di subordinazione, oggetto della disciplina di cui all’art. 7 del d. lgs. 231/2001: in quanto non necessariamente riconducibili a una manifestazione della politica d’impresa ma potenzialmente espressione di un isolato comportamento criminale, con riferimento a tali condotte, il delegato ha deciso di prevedere criteri di esclusione della responsabilità dell’ente differenti rispetto al caso di illeciti posti in essere dai vertici d’impresa. In particolare, in questi casi, la realizzazione del reato si pone come il manifestarsi di una condizione patologica all’interno della complessa gestione interna delle società: in questo caso, sarà la pubblica accusa a dover provare la sussistenza della colpa di organizzazione e l’ente sarà ritenuto responsabile soltanto qualora la commissione dell’illecito sia stata resa possibile dall’inosservanza di detti obblighi di direzione e controllo.
In realtà perciò, la disciplina fonda la responsabilità dell’ente non sulla prova della negligenza del sorvegliante, ma sulla prova di «una generale e strutturale colpa di
giuridica, una soggettiva, incentrata sulla colpa di organizzazione, come evidenziato anche da PALIERO C. E.,
Soggettivo ed oggettivo nella colpa dell’ente: verso la creazione di una «gabella delicti»?, in Le Soc., 2015, pp.
1285 ss.
214 Cass. pen., sez. V, 18 dicembre 2013 – 20 gennaio 2014, n. 4677, Impregilo; critico sul punto PALIERO C.E.,
Responsabilità degli enti e principio di colpevolezza al vaglio della Cassazione: occasione mancata o definitivo de profundis?, in Le soc., 2014, n. 4, p. 474, che commentando la citata sentenza, definisce «ciclopico» l’impegno
probatorio che graverebbe sull’dell’ente-imputato.
215 La confisca in questo caso assume «semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio
economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure inconsapevolmente) un profitto geneticamente illecito», così Cass. SS. UU. penali., 27 marzo 2008, n. 26654. Si rileva come l’interpretazione che concepisce il ruolo del modello organizzativo come causa di esclusione della punibilità consentirebbe di spiegare la disposizione in esame: D'ACRI V., La responsabilità, cit. pp. 264-265 che afferma come non si tratti di scusante, ma di una causa di esclusione della punibilità perché, oltre alla previsione dell’inversione dell'onere della prova, il meccanismo «non esclude la confisca, anche per equivalente, del profitto che l'ente ha tratto dal reato; misura quest'ultima che costituisce a tutti gli effetti una sanzione (...) e, quindi, la sua applicazione presuppone necessariamente un riconoscimento di responsabilità».
organizzazione nella prevenzione e protezione dell’azienda»216 dal rischio della realizzazione
di uno dei reati indicati all’interno del catalogo degli artt. 24-26; tale colpa si concretizza nell’assenza o nella mancata osservanza di protocolli di comportamento, di un modello organizzativo che – stante la sua chiara connotazione preventiva – costituisce la regola cautelare su cui si dovrà valutare se sono stati disattesi gli obblighi di direzione o vigilanza: infatti, il comma secondo dell’art. 7 statuisce che l’inosservanza di tali obblighi è esclusa qualora l'ente, ancor prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione idoneo a prevenire reati della specie di quello che si è verificato217; peraltro,
come specifica ulteriormente l’ultimo comma, non è sufficiente che il modello sia predisposto, ma occorre anche che la sua efficacia sia verificata tramite un «sistema di controllo preventivo/repressivo»218, di cui si dirà infra, nei paragrafi successivi.
3. La centralità dei compliance programs. La duplice funzione del modello