Capitolo 5. La natura vivente
5.6. Come iniziare a conoscere il mondo vivente sub-razionale?
Si è detto che, secondo Hacker-Wright, l’accesso in prima persona alla forma di vita permette di cogliere la capacità di agire che caratterizza l’essere umano. Sappiamo cosa vuol dire bere o mangiare perché abbiamo bevuto e mangiato. Sappiamo che possiamo scegliere di bere e mangiare perché abbiamo scelto di bere e di mangiare. Sappiamo, inoltre, che un altro essere umano può scegliere di bere perché gli attribuiamo la stessa capacità di scelta che abbiamo esercitato personalmente. Secondo Hacker-Wright e Thompson non solo comprendiamo cosa vuol dire bere attraverso l’azione del bere, ma comprendiamo che un altro essere umano “beve”, o almeno può esser descritto così il suo movimento, proprio perché abbiamo acquisito la nozione di natura umana e abbiamo attribuito la capacità di bere.
Rispetto ad un animale, invece, riconosciamo che la sua natura è simile a quella umana perché ci sembra di poter attribuire capacità simili. Non sappiamo che tipo di accesso, per esempio, un gatto abbia verso la propria forma di vita e verso quel movimento che descriviamo come “bere”. Tuttavia, ci sembra che certi movimenti del gatto siano simili alle azioni.
Questo modo di avvicinarsi alla natura di altri esseri viventi, mi sembra suggerisca che quando conosciamo forme di vita viventi non umane vi siano una disanalogia e un’analogia rispetto a come, invece, conosciamo la natura umana. L’analogia consiste nel riconoscimento che un movimento descritto dall’espressione “quel gatto sta bevendo” avviene a partire dall’applicazione di una certa capacità alla forma di vita del gatto che è stata precedentemente conosciuta in prima persona. La stessa nozione di forma di vita che acquisiamo quando conosciamo la natura umana viene, poi, applicata, ad altri enti a cui si attribuisce la capacità di essere principio di movimento. Alcuni enti fanno parte del mondo vegetale. Altri, che ci sembrano più complessi e più simili a noi, appartengono al mondo animale. A diverso titolo, però, tutti questi enti sono esseri viventi perché sembrano avere una forma di vita analoga a quella umana.
In questo senso, si può dire che nel caso della natura umana, un essere umano attribuisce ad un altro essere umano una capacità di movimento identica mentre
l’attribuzione della stessa capacità ad un vivente non umano avviene solo in maniera analoga. Si potrebbe dire, perciò, che la comprensione della natura vivente avviene sempre sotto un processo, chiamato da Spaemann, famigliarizzazione, che, nel caso dei viventi non umani, è una forma di antropomorfizzazione251. In tal senso, mi sembra plausibile sostenere che un certo livello di antropomorfizzazione sia inevitabile quando ci accostiamo al mondo dei viventi non umani. Al contrario di Annas, che considera un pregio del naturalismo neo-aristotelico l’aver fornito una visione non antropomorfizzata della natura e della normatività vivente non umana, credo ci si possa chiedere se, in realtà, si possa veramente prescindere da un certo grado di antropomorfizzazione quando si cerca di comprendere il movimento di piante e animali252.
In altre parole, nella misura in cui osserviamo e categorizziamo un ente come essere vivente, un processo di antropomorfizzazione è già avvenuto perché si è attribuito a quell’ente una capacità della natura umana. Per questo possiamo dire che anche piante e animali bevono.
In conclusione, mi sembra che il discorso di Hacker-Wright, metta in luce come la comprensione della natura vivente generale, non possa prescindere da una previa conoscenza della natura umana. Sapere a cosa corrisponde l’azione del ‘bere’, ci permette di dire che un sasso non beve, mentre una pianta (in maniera un po' forzata) e un gatto bevono253. Tuttavia, in senso proprio solo l’essere umano beve perché, nella misura in cui un ente ha accesso solo ad una forma di vita, un essere umano può avere conoscenza solamente di cosa vuol dire bere per un essere umano. Per questa ragione Thompson scrive che possiamo comprendere che “lo stesso fenomeno della "divisione cellulare" equivale alla riproduzione nei batteri e alla sopravvivenza per i condor della California”254.
Le considerazioni fatte finora, mi sembra suggeriscano che per il naturalismo
neo-251 Fini naturali, pp. 46ss. Per Spaemann, quindi, “l’antropomorfismo non è un «residuo erroneo da superare», piuttosto è la modalità necessaria con cui l’essere umano conosce la realtà”. Cfr. Amori, M., L’irriducibilità
del fine. Modernità, antropomorfismo ed etica nel pensiero di Robert Spaemann, Guida, Napoli 2012, p. 198.
252 Per quanto credo si possa distinguere l’antropomorfismo dall’antropocentrismo. Secondo Hursthouse, infatti, l’attribuzione di un bene alla natura vivente non umana (attribuzione che avviene sempre secondo un certo grado di antropomorfizzazione) mostra l’indipendenza del bene di un cactus dal desiderio di un essere umano (antropocentrismo) Spaemann, sottolinea la differenza tra antropocentrismo e antropomorfismo in Fini
naturali.
253 Si pensi anche, scrive Thompson, a quando si dice “quella macchina beve molto”, The Representation of
Life.
254 “the same phenomenon of ‘cell division’ amounts to reproduction for bacteria whereas it amounts to self-maintenance for California condors”. Donatelli, P. – Ricciardi M. – Thompson, M., “Natural Goodness” di Philippa Foot. Discussione, in Iride, 1(2003), p. 192.
aristotelico vi è sempre un certo grado di antropomorfizzazione quando conosciamo la natura di altri esseri viventi255. Di conseguenza credo si possa esplicitare come il naturalismo neo-aristotelico potrebbe pensare la somiglianza col mondo vivente non umano.
Rispetto alla proposta di Hursthouse, mi sembra che non si vada dalla conoscenza scientifica della natura dei viventi non umani per poi individuare somiglianze e differenze con la natura umana. Piuttosto la direzione deve seguire un procedimento contrario: date delle immediate e ovvie diversità (si pensi alla figura di un gatto e a quello di un essere umano) si comprende la vita di un vivente non umano a partire dalle somiglianze che individuiamo con la nostra natura, di cui abbiamo avuto una precedente comprensione. La natura umana, perciò, fornisce il criterio per comprendere il movimento vivente non umano e permette di attribuire analogamente capacità di cui abbiamo già avuto una precedente conoscenza (soprattutto non osservativa).
In questo senso, prima di dover ammettere un salto tra la natura umana e quella vivente non umana, ci si potrebbe chiedere che tipo di conoscenza si possa avere della natura dei viventi non umani, riconoscendo, per esempio, che la mancata attribuzione di una certa capacità alla natura di un vivente non umano è dovuta all’accesso solamente osservativo che abbiamo alla sua forma di vita. Infatti, vi è una disanalogia non colmabile rispetto a come possiamo conoscere la natura vivente non umana. Un essere umano può conoscere non osservativamente solo la natura umana, e, perciò, il grado di precisione con cui conoscere il mondo vivente non umano è minore e l’applicazione di concetti umani alla natura vivente non umana può avvenire solo analogamente. Per questo, credo si possa concedere che per conoscere la natura dei viventi in maniera più specifica è richiesto che siano osservati. La conoscenza osservativa in questo caso sembra avere un ruolo maggiore nello studio della natura di piante e animali, e questo spiegherebbe perché Hursthouse sostenga che i giudizi storico naturali dei viventi non-umani sono giudizi scientifici.
In conclusione, credo che il naturalismo neo-aristotelico possa accogliere l’idea che la conoscenza della natura vivente non umana sia sempre mediata da una preliminare comprensione della natura umana. Allo stesso tempo, si può concedere che, nella misura in cui la conoscenza di piante ed animali avviene non osservativamente, il metodo scientifico sembra essere in grado di fornire un contributo conoscitivo maggiore nella conoscenza della natura vivente non umana rispetto a quanto non faccia per la natura umana.
255 In questo senso Amori scrive per esempio: «l’intera trama della concettualità scientifica mostra in realtà questa origine antropomorfica», M. Amori, L’irriducibilità del fine, p. 199.