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4. Phaedra 1000-114

4.3 Commento ai versi

La rhesis ha inizio con la descrizione della fuga di Ippolito dalla città (1000-6). Mentre nella versione euripidea il personaggio è accompagnato da un innumerevole séguito, l’Ippolito senecano sembra essere solo durante i preparativi, non essendoci alcuna allusione alla presenza di compagni o servi105.

Anche in questo caso l’ut tecnico (1000) apre il resoconto del nunzio ed è ripreso dal tum successivo (1004)106. L’atteggiamento del protagonista è definito da un’ipallage (infesto gradu, 1000) che attribuisce all’andatura il suo sdegno, esprimendo il manifestarsi del sentimento attraverso il modo di camminare107.

Le azioni del personaggio, che si muove con passi precipitosi (celerem citatis passibus cursum explicans, / … ocius, 1001-2) allenta i freni e scuote le briglie per preparare la corsa dei cavalli (acerque habenis lora permissis quatit, 1006), sono connotate dall’agitazione. Alla fretta di Ippolito si aggiunge il suo isolamento: i participi congiunti descrivono le azioni del personaggio che parla con se stesso ripercorrendo gli orrori di cui è stato testimone e maledice la propria patria (tum multa secum effatus et patrium solum / abominatus, 1004-5). Il protagonista, diversamente da quanto accade in Euripide, non sa nulla delle calunnie di Fedra, né del ritorno e della maledizione del padre, che invece invoca ritenendolo l’unico che possa impedire i crimini (genitorem ciet, 1005). Il verbo cieo, infatti, non ha il valore di “maledire”, ma di “invocare il padre” divenendo un’espressione pregnante in cui riecheggia il lessico giuridico108.

104 Coffey e Mayer (1990: 177): “A neat phrase to explain the unnatural storm which has been roused

by Neptune whitout the aid of the winds”.

105 Vedi n. 99.

106 Cfr. ut tecnico in Tro. 1118 con cui si apre il racconto di Polissena (§3.3), e in Ag. 421.

107 Cfr. Regiam infestus petens (Oed. 917) con cui il messaggero descrive Edipo nel racconto del suo

accecamento. De Meo 1995: 247; Caviglia 1990:122.

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Nel segmento successivo (1007-24) il nunzio descrive la tempesta che precede l’apparizione del toro mostruoso.

Il mare richiama in modo repentino l’attenzione del narratore con un rumore che viene da lontano. La locuzione cum subito (1007) crea lo stacco improvviso della calamità, in questo caso della tempesta che nasce dal mare, ed è utilizzato spesso nelle narrazioni senecane per introdurre un evento prodigioso e inatteso. Si confronti, ad esempio, l’arrivo di Polissena in Tro. 1132; l’apparizione del fantasma di Achille in Tro. 171; l’apparizione del fantasma di Ettore in Tro. 443; la tempesta improvvisa in Ag. 470; la terra che si squarcia durante la necromanzia di Tiresia in Oed. 582.

Il primo segnale della catastrofe è di natura acustica (tonuit, 1007), in modo analogo al passo corrispondente in Euripide, dove si fa riferimento a un rombo paragonato a un tuono sotterraneo di Zeus (ἔνθεν τις ἠχὼ χθόνιος ὡς βροντὴ Διὸς / βαρὺν βρόμον μεθῆκε, φρικώδη κλύειν, Hipp. 1201).

Tonuit è la lezione della maggior parte dei codici che alcuni editori sostituiscono, con evidente banalizzazione, con tumuit presente nel codice adoperato da Trevet109. Tonuit, al contrario, è lectio difficilior e non solo risponde alla domanda di Teseo (cur adhuc undae silent?, 954), ma riprende anche il modello greco ed enfatizza l’evento eccezionale dell’improvviso boato, posto in contrasto con l’assenza di vento sul mare (nullus inspirat salo / uentus, 1008-9), con il cielo sereno (quieti, 1009) e il momento di bonaccia (placidum… pelagus, 1010).

L’evento è successivamente descritto tramite due similitudini che rimandano allo stile epico (1011-4) e, riconducendo fatti sconosciuti a immagini note, offrono un metro di paragone che permette di definire un fenomeno eccezionale: la tempesta è più violenta dell’Austro che sferza lo stretto di Messina e del Coro, o del maestrale, che agita lo Ionio e colpisce la rupe del Leucate.

La tempesta è descritta attraverso l’immagine del mare che si innalza (consurgit ingens pontus in uastum aggerem, 1015), ripresa da Euripide, dove l’onda si erge fino al cielo (ἱερὸν εἴδομεν / κῦμ᾽ οὐρανῷ στηρίζον, Hipp. 1026-7), e da Ovidio, dove l’onda cresce come una montagna (cum mare surrexit cumulusque inmanis aquarum / in montis speciem curuari et crescere uisus, Ov. Met. XV.508-9). La turbolenza del mare è ripetuta più volte nel corso del racconto al fine di sottolinearne l’aspetto

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straordinario (ex alto mare /creuit in astra, 1007-8; en totum mare / immugit, 1025- 6)110.

La narrazione è interrotta dalle interrogazioni del nunzio (1020-1) che, insieme alle iperboli e le similitudini utilizzate nel passo, spezzano il filo del racconto e accrescono il senso del misterioso e dell’indefinito che precede l’apparizione del monstrum, rendendo più spasmodica l’attesa degli spettatori.

La descrizione del mostro (1025-49) ha inizio con la reazione del nunzio che ricorre alla prima persona plurale (haec dum stupentes sequimur, 1025), unica affermazione del proprio punto di vista oltre a os quassat tremor (1034). Sequimur, con ellissi di oculis, è congettura di Axelson (1967), accolta da Zwierlein, che determina un effettivo miglioramento del testo tràdito correggendo querimur del manoscritto A e quaerimus di E111. La lectio di A, infatti, è da respingere, in quanto appare difficile che chi assiste al fenomeno stupisca e si lamenti contemporaneamente. Il manoscritto E, sebbene risulti migliore dal punto di vista del significato, presenta tuttavia delle difficoltà metriche.

L’apparizione del toro mostruoso è preceduta dal rumore cupo del mare a cui fanno eco gli scogli (immugit, omnes undique scopuli adstrepunt, 1026). L’immagine riprende sia il modello greco, dove tuttavia il muggito che riecheggia è attribuito al toro (οὗ πᾶσα μὲν χθὼν φθέγματος πληρουμένη, Eur. Hipp. 1215), che quello latino (cum mare surrexit cumulusque inmanis aquarum / in montis speciem curuari et crescere uisus / et dare mugitus summoque cacumine findi, Ov. Met. XV.508-10). Alle informazioni legate al piano uditivo si aggiungono quelle visive: la cresta dell'onda (summum cacumen, 1027; cfr. Ov. op. cit.) che emette getti d'acqua saltata è paragonata, anticipando l’epifania del mostro, a un’enorme balena (qualis… physeter capax, 1029-30).

La descrizione dell’animale (1034-49) è molto più accurata rispetto ai modelli (κῦμ᾽ ἐξέθηκε ταῦρον, ἄγριον τέρας, Eur. Hipp 1214; Met. XV.511-3). L’accumulo descrittivo è legato all’interesse dell’autore nel rendere il mostro una figura fondamentale del dramma e un richiamo al Minotauro sconfitto da Teseo112. Inoltre

110 Zanobi 2014:167.

111 De Meo 1995: 251.

112 Casamento 2011: 233. Coffey-Mayer (1990) criticano la lunga descrizione affermando: “the

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De Meo riconosce nel passo una fitta presenza di echi virgiliani, a partire dagli occhi fiammeggianti dei serpenti che uccidono Laocoonte (Aen. II.203-11), simili a quelli del mostro che emettono fiamme (1040)113. Il toro è definito “un male più terribile di quanto si fosse temuto” (malum / maius timore, 1032-3) e successivamente monstrum (1034) e taurus (1036).

La prima parte della descrizione (1035-41) riguarda l’aspetto fisico dell’animale e particolare attenzione è dedicata ai colori: caerulea, 1036; uiridanti, 1037; uarius color, 1038; caerulea nota, 1041. Il verde e l’azzurro rimandano al cromatismo del mare associato di norma a Nettuno (caerulei, 1160) e alle creature marine (uiridis Nereidum comas, Hor. Carm. III.28.10), e connettono il toro mostruoso al mondo marino.

Nella seconda parte (1042-48) sono descritte le singole membra del mostro al fine di farne risaltare le dimensioni eccezionali: opima ceruix arduos… toros, 1042; naresque… patulae, 1043; pectus ac palear, 1044; longum… latus, 1045; ingens belua immensam… partem, 1047-8.

L’animale nella parte anteriore ha l’aspetto di un toro, mentre in quella posteriore ha forma nettamente mostruosa (tum pone tergus ultima in monstrum coit... ingens belua immensam trahit / squamosa partem, 1046-8). Pone è un arcaismo con valore di preposizione “dietro” e questa risulta l’unica attestazione di tale uso del termine in Seneca tragico; la locuzione è probabilmente derivata dal modello virgiliano in cui sono descritti i serpenti che attaccano Laocoonte (pars cetera pontum / pone legit sinuatque immensa uolumine terga, Verg. Aen. II.207-8)114.

Per illustrare con maggior chiarezza la natura del mostro, il nunzio ricorre a una nuova similitudine (talis extremo mari / pistrix citatas sorbet aut frangit rates, 1048- 9). Il termine pistrix, derivazione popolare dal greco πρίστις, designa animali marini di grandi dimensioni ed è utilizzato anche da Virgilio per descrivere la parte posteriore di Scilla (Aen. III. 427), e per la nave di Mnèsteo (Aen. V.116).

Conclusa la sezione dedicata alla figura del toro, il messaggero descrive le reazioni della terra, degli uomini e degli animali alla vista del monstrum (1050-4), espandendo la scena allo spazio circostante: trema la natura stessa al passaggio del mostro (tremuere terrae, 1050), fuggono gli animali, sia le pecore (pecus, 1050) che le fiere

113 254. Cfr. Harrison 2015:33-4.

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(fera, 1052) e gli uomini (pastor, 1051; uenator, 1054) a causa di un folle terrore che colpisce tutti115.

Ai comportamenti degli esseri animati e inanimati si contrappone l'atteggiamento di Ippolito, di cui è narrata l’aristia (1054-67).

La narrazione delle gesta del protagonista è introdotta dal solus-Motiv (solus immunis metu / Hippolytus, 1054-5), posto in evidenza dopo la pausa grammaticale e metrica che sottolinea la solitudine dell’eroe, unico ad affrontare l'agon mantenendo una salda imperturbabilità116. Tale aspetto è presente anche nel modello ovidiano (corda pauent comitum, mihi mens interrita mansit, Ov. Met. XV.514), ma non in Euripide, dove il protagonista è accompagnato da una schiera numerosa di servi e amici che tentano di aiutarlo senza riuscirci (Hipp. 1243-4). Come si è già evidenziato, l’Ippolito senecano è solo davanti alla sua sfida, come un vero eroe epico pronto a compiere l’aristia che lo porterà alla morte, e tale volontà è espressa nei due versi in cui è riportata la sua unica battuta che conferma la dimensione eroica della sua impresa. Nell'aristia del protagonista è dedicato grande spazio alla lotta con i cavalli (1055- 6), riproposta in 1064-77 e in 1082-4, dove Ippolito viene sbalzato via dal carro impigliandosi nelle corde. Si noti che in Eur. Hipp. 1218-22 e in Ov. Met. XV.514-20 (uana frena, 519) Ippolito perde il controllo dei cavalli sin dall’inizio, mentre in Seneca ha luogo un vero e proprio ἀγών tra i destrieri e il padrone, che termina con la sconfitta di quest’ultimo.

Nel tentativo di calmare i cavalli, Ippolito li richiama esortandoli con la voce a loro ben nota (notae uocis hortatu ciet, 1056): l’azione ricorda i guerrieri omerici che nei momenti cruciali parlano ai propri destrieri (Ettore in Il. VIII.185ss.; Achille in XIX.400ss.; Antiloco in XXIII.403ss.).

L'azione è momentaneamente interrotta per una breve ecphrasis topou che ha inizio secondo una formula (est… hic, 1057-9), comune in Seneca, che contribuisce a fornire una patina epica al racconto117. Nella descriptio, il riferimento ad un passaggio che porta ad Argo (ad Argos... uia, 1057) è stato oggetto di dibattito da parte della critica per una difformità nella tradizione manoscritta. Si legge Argos del manoscritto A e

115 Giomini 1955: 94-5.

116 Amoroso 1981: 324; Garelli 1998: 23. il topos della solitudine del protagonista è presente di

frequente nei discorsi dei nunzi senecani: Astianatte è il solo a non piangere (Tro. 1099); Aiace è l’unico a non essere stato vinto dalle disgrazie (Ag. 532).

117 Cfr. est… hic nei discorsi del messaggero in HF 709-11; Tro. 1068-71; Oed. 530-5; Ag. 558-9

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non agros tràdito da E, nonostante sia presente un’incoerenza geografica. Il riferimento ad Argo è ripreso dal modello euripideo (τὴν εὐθὺς Ἄργους κἀπιδαυρίας ὁδόν, Hipp. 1197) in cui è indicato il percorso seguìto dal personaggio dopo la partenza da Trezene, mentre nel dramma senecano il punto di partenza è Atene118. La lezione di E, anche se risolve la contraddizione geografica, sembra essere il frutto di un correttore intenzionato ad eliminare le incongruenze spaziali, non rare nelle opere senecane119. Accettando Argos si considera la strada che da Atene porta ad Argo, seguita da Ippolito in direzione di Trezene, come si suppone dal passo ovidiano (Pittheam profugo curru Troezena petebam, Ov. Met. XV.505).

Dopo la breve pausa descrittiva, il messaggero narra i preparativi dell’attacco del toro mostruoso (1059-63), immagine che ricorda la descrizione virgiliana del toro che si prepara ad attaccare il rivale d’amore120. Nella descrizione senecana, tuttavia, l’attenzione è rivolta non alla forza, ma alla rapidità d’azione dell’animale (praepeti cursu euolat, summam citato uix gradu tangens humum, 1061-2), evidenziata dall’aggettivo praepes che rimanda alla velocità propria del volo degli uccelli121.

Il toro ferma la sua corsa davanti ai cavalli tremanti (currus ante trepidantis stetit, 1063), a cui è riferita la metonimia che indica i destrieri legati al carro, uso non raro in poesia122. Si noti l'impiego di stetit attribuito al mostro che si arresta come il carro che si ferma per un breve momento con il suo padrone trapassato da un tronco bruciato (paulumque domino currus affixo stetit, 1100).

Alla furia del toro (iras parat, 1059; prolusit irae, 1061; torua, 1063) si oppone l'atteggiamento del protagonista nei suoi confronti (contra feroci gnatus insurgens minax / uultu, 1064-5). L’appellativo gnatus, che risalta al centro del verso e sottintende tuus, accresce l'effetto patetico della scena attraverso il rimando al legame di parentela con Teseo e introduce il tema dell’oratio recta. L'azione del personaggio è descritta tramite il verbo insurgens, che indica l’atto di sollevarsi per colpire, frequente nelle scene di combattimento in Virgilio123.

118 De Meo 1995: 251-2.

119 Leo (Observ. Crit. 201s.) riconosce che tali incoerenze geografiche sono comuni nell’autore:

“atque id quidem cum suae aetatis poetis commune habet Seneca ut nomina geographica usurpet de ueritate ac ratione securus”; cfr. De Meo ivi.

120 Et temptat sese atque irasci…discit (Geo. III.232). De Meo 1995: 258. 121 Cfr. Stymphalis auidis praepetem pinnis feret (Phoen. 423).

122 Cfr. infrenant alii currus, Verg. Aen. XII.287.

123 Cfr. il serpente che combatte con l’aquila: arduus insurgens (Aen. XI.755); Turno che solleva un

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Al protagonista, che si prepara per lo scontro fatale, è attribuito l’aggettivo ferox, lo stesso che nella rhesis del messaggero delle Troades connota Astianatte (ferox superbit, Tro. 1098) e Polissena (truci uultu ferox, 1151) che vanno incontro alla morte.

Egli si mostra imperturbabile e tuona a gran voce (nec ora mutat et magnum intonat, 1065), dove il verbo intonat, che introduce la breve oratio recta, riprende tonuit (1007) con cui ha inizio la tempesta, come se Ippolito volesse battersi con il suo nemico anche sul piano uditivo.

Il discorso diretto di Ippolito si estende per solo due versi (haud frangit animum uanus hic terror meum / nam mihi paternus uincere est tauros labor, 1066-7).

Mentre in Euripide il protagonista riconosce nel mostro la punizione paterna (ὦ πατρὸς τάλαιν᾽ ἀρά, 1241), l’omologo senecano è ignaro della maledizione di Teseo (cfr. 1005s.). Grazie a tale innovazione, Seneca può giocare sull’equivoco derivato dall’interpretazione errata dell’evento: Ippolito infatti considera l’animale fermo davanti a lui non una punizione, ma una prova da superare. L’aristia del personaggio è basata quindi su una sfida, un labor che Ippolito è portato a intraprendere seguendo le orme del padre il quale, nelle sue celebri imprese, aveva sconfitto il Minotauro e il toro che infestava Maratona124.

L’unica battuta pronunciata da Ippolito poco prima della sua fine contribuisce a caratterizzare il personaggio attraverso l’orgogliosa rivendicazione del proprio coraggio. L’imperturbabilità, a cui il messaggero ha fatto riferimento precedentemente, è confermata da Ippolito stesso (haud frangit animum uanus hic terror meum, 1066)125. Il protagonista, definendo vana la paura, sminuisce l’importanza e la pericolosità del mostro, ostentando superiorità nei suoi confronti126.

Ippolito accomuna il proprio destino a quello del padre (nam mihi paternus uincere est tauros labor, 1067), così come Fedra ha accomunato il proprio a quello della madre127. L’espressione paternus labor gioca su un’ambivalenza di sottile ironia

tragica: il labor che Ippolito è in procinto di affrontare è paternus non solo perché degno di suo padre (del quale si evidenziano le arisitai contro i tori), ma anche perché esso è il frutto del desiderio di vendetta paterna.

124 Boyle 1987: 201; cfr. Ov Met. VII.434.

125 Cfr. solus immunis metu (1054), nec ora mutat (1065).

126 Cfr. uanus in OLD 1b per l’inconsistenza di aria, ombre et similia. 127Peccare noster nouit in siluis amor (114). De Meo 1995: 259.

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Il metus dei cavalli trasforma il combattimento, intrapreso da Ippolito, in un inseguimento in cui il personaggio si ritrova fatalmente coinvolto (1068-84). L’impresa eroica di Ippolito è ostacolata dai cavalli che si lanciano in una corsa senza freni, presi da un furor che deriva dalla paura (rabidos… furor, 1070), proprio come accade alle persone e agli altri animali (frigido… metu, 1054)128.

Il personaggio tenta di esercitare il controllo sui propri animali che si ribellano al padrone, e lo fa come un timoniere che guida la nave in mezzo ai flutti129. La similitudine (at ille, qualis… haud aliter, 1072-5) è ripresa e ampliata dal modello greco (ὥστε ναυβάτης ἀνήρ, Hipp. 1221) e si ricollega alla tempesta da cui è emerso il mostro marino: il personaggio è paragonato, per le sue capacità (arte, 1074), a un nocchiero (rector, 1072) che si sforza di trattenere la nave (retentat, frequentativo di retineo). Il paragone è mantenuto attraverso il termine tecnico gubernat (1075) legato al lessico navale (gubernator è il timoniere) ed utilizzato solo molto raramente nel senso di “guidare” un carro130.

Alle azioni di Ippolito che cerca di domare i cavalli (nunc trahit… nunc coercet, 1075-7) si oppongono quelle del toro, definito come compagno di viaggio che non dà tregua (adsiduus comes, 1077), che ora percorre lo stesso spazio compiuto dai cavalli, ora li supera (nunc aequa carpens spatia, nunc contra obuius / oberrat, 1078-9). Si noti che all’anafora che sottolinea le mosse del ragazzo fa eco la stessa anafora per quelle del mostro.

L’impennarsi dei cavalli determina la caduta di Ippolito (1082-4). Nell’agone, iniziato al 1055 e portato avanti fino alla fine (pugnat, 1087), i cavalli terrorizzati hanno la meglio sul protagonista. Il carro, lanciato in una corsa senza più guida, determina un’altra similitudine (1090-2), quella con Fetonte che chiede di guidare il carro del Sole per comprovare la nobiltà di discendenza. Il giovane, tuttavia, non essendo all’altezza del padre, perde il controllo del carro e viene fulminato da Zeus131.

Il paragone, calzante in quanto accomuna le sorti di due figli incapaci di essere emuli dei padri, è assente nei testi di Euripide e Ovidio che trattano la vicenda di Ippolito.

128 Cfr. εὐθὺς δὲ πώλοις δεινὸς ἐμπίπτει φόβος (Eur. Hipp. 1218).

129 Anche in Euripide Ippolito afferma di aver allevato le cavalle nelle sue stalle (Eur. Hipp. 1240-

1).

130 Cfr. gubernet equum, Mart. 9.22.14. 131 Ov. Met. II.161-8.

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Il modello a cui Seneca attinge per il mito di Fetonte è quello ovidiano (Ov. Met. II.161-8), come emerge chiaramente dal lessico e dalle immagini utilizzati dal poeta. I destrieri si rendono conto della situazione rovinosa (sensere pecudes facinus, 1088), come i cavalli del Sole che si accorgono di Fetonte (quod simul ac sensere ruunt, Ov. Met II.167). Il carro di Ippolito è leggero perché nessuno più lo governa (dominante nullo, 1089), allo stesso modo il carro del Sole: nulloque inhibente (Ov. Met. II.202). Nella similitudine di Seneca i cavalli non riconoscono il carico (non suum agnoscens onus, 1090), come accade in Ovidio: sed leue pondus erat, nec quod cognoscere possent / Solis equi (Ov. Met. II.161-2).

La narrazione della morte di Ippolito è dettagliata e raccapricciante (1093-1100) ed è classificata da Canter come δείνωσις, ovvero un’esagerazione nella descrizione di eventi terrificanti132. La morte per smembramento di Ippolito, che viene trafitto all’inguine da un tronco bruciacchiato e poi dilaniato, è il passo più cruento del dramma. Seneca specifica il punto del corpo in cui il tronco si conficca (medium per inguen, 1099), dettaglio assente in Euripide e Ovidio. Nel primo caso infatti il giovane muore schiantandosi contro le rocce (Hipp. 1238), nel secondo sono descritti i muscoli attaccati agli sterpi (Met. XV.525).

Nella sezione che descrive il corpo dilaniato è ripreso il motivo della bellezza fugace o infausta, che percorre l’intero dramma (cfr. 741; 657; 761; 1110; 1173; huc cecidit decor?, 1270): la bellezza di Ippolito determina la rovina del giovane (et ora durus pulcra populatur lapis / peritque multo uulnere infelix decor, 1095-6).

La fuga dei cavalli è arrestata per un breve momento (paulumque domino currus affixo stetit, 1100). Il verso 1100 è espunto da Axelson, seguìto da Zwierlein, perché considerato una inutile espansione del verso seguente (haesere biiuges uulnere, 1101). L’espunzione, tuttavia, non è necessaria in quanto il verso, attraverso la variatio, contribuisce a evidenziare il contrasto tra la folle corsa e l’improvvisa pausa determinata dal corpo impalato133.

La corsa dei cavalli riprende determinando lo smembramento del protagonista. L’immagine è resa tramite uno zeugma (pariter moram / dominumque rumpunt, 1101- 2), introdotto dall’avverbio pariter, in cui i due sostantivi sono retti dal medesimo

132 Coffey-Mayer 1990: 183. Cfr. Giomini 1955:92-3. 133 Cfr. De Meo 1995: 265 e Casamento 2011: 239.

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verbo che ha una sfumatura differente: i cavalli tagliano ogni indugio (concetto astratto) e dilaniano il padrone (azione concreta).

Il nunzio descrive infine i servi che, accompagnati dalle cagne meste, cercano e raccolgono i resti del cadavere di Ippolito, e conclude la rhesis con il commento finale che apre il breve dialogo con Teseo (1104-14). Il messaggero, infatti, sottolinea il legame di sangue con il padre che ha voluto la sua morte (paterni imperii comes / et certus heres, 1111-2), già affermato precedentemente (gnatus, 1064), anticipando Teseo nel dimostrare la certezza del genus che il re aveva precedentemente messo in dubbio.

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