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Illo racconta alla madre dell’effetto che la veste tessuta da Deianira stessa ha avuto su Ercole. Il mantello, intriso del sangue di Nesso e mandato in dono allo sposo per mano di Lica, è indossato da Eracle durante i sacrifici a Giove Ceneo.

La vicenda è narrata anche nelle Trachinie di Sofocle (749-812) e nel nono libro delle Metamorfosi di Ovidio (157-218), che Seneca rielabora liberamente.

12.1 I precedenti letterari

Il racconto degli effetti della veste intrisa di sangue di Nesso è riferito da Illo a Deianira nelle Trachinie di Sofocle (749-812). Nella rhesis di Illo è contenuta una sola oratio recta, pronunciata da Eracle agonizzante che si rivolge al figlio dando le proprie disposizioni (797-802). L’eroe, dopo aver ucciso Lica per il dono funesto, chiede a Illo di non essere lasciato sul capo Ceneo, ma di essere portato, prima che muoia, in un luogo dove non possa essere visto da nessuno.

La rhesis è narrata secondo la focalizzazione interna, in cui è adottato il punto di vista di Illo. Egli, infatti, riferisce il primo momento in cui riesce a scorgere il padre che prepara i sacrifici (οὗ νιν τὰ πρῶτ᾽ ἐσεῖδον, 755); esplicita il proprio stato emotivo, affermando di essersi prima tranquillizzato alla vista del padre (ἄσμενος πόθῳ, 755), e poi di essere scoppiato in lacrime davanti alle sue sofferenze (δακρυρροοῦντα, 796); dà indicazioni sulla propria posizione dicendo di essere in mezzo alla folla (εἶδέ μ᾽ ἐν πολλῷ στρατῷ, 795); infine è coinvolto nell’azione, in quanto con l’aiuto dei presenti adagia l’eroe sul fondo di una barca (ἐν μέσῳ σκάφει / θέντες σφε πρὸς γῆν τήνδ᾽ ἐκέλσαμεν μόλις / βρυχώμενον σπασμοῖσι, 803-5).

Illo ricorre al racconto ulteriore, impiegando in modo preponderante i verbi al passato.

In Ovidio (Met. IX.157-218) la medesima vicenda dell’agonia di Ercole e dell’uccisione di Lica per mano sua è narrata in maniera impersonale.

Nel racconto sono riportate due orationes rectae di Ercole: nella prima (IX.176- 204) egli invoca Giunone chiedendole di mettere fine alle sue sofferenze con la morte (mors mihi munus erit: decet haec dare dona nouercam, 181), ed elenca le sue imprese che considera meno dure della peste inaudita che lo affligge (sed noua pestis adest, cui nec uirtute resisti / nec telis armisque potest, 200-1); nella seconda si rivolge a Lica a cui chiede adirato se deve imputare a lui la sua morte causata dal dono mortale (tune,

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Licha… feralia dona dedisti? / tune meae necis auctor eris?, 213-4) e precede l’uccisione del servo.

12.2 Analisi narratologica

Come nei due antecedenti, il racconto senecano riporta l’agonia di Ercole e l’uccisione di Lico, latore inconsapevole dell’inganno di Nesso.

Seneca, come Sofocle, affida la narrazione dei fatti a Illo, il quale racconta l’anghelia a Deianira.

A differenza del dramma greco, il nuntius riferisce i fatti in maniera impersonale, adottando la focalizzazione zero. È impossibile, infatti, ricavare dal testo informazioni riguardanti la posizione del narratore all’interno dell’azione, il suo livello di coinvolgimento e le sue reazioni emotive.

Le uniche eccezioni a tale prospettiva coincidono con due indicazioni di autopsia: nel primo caso, Illo ricorre alla prima persona plurale per riferire il pianto dell’eroe (flente uidemus, 806); nel secondo, dopo aver descritto i vani tentativi di Eracle di togliere il mantello, afferma che quella era l’unica volta in cui aveva visto il padre non farcela (hoc solum Herculem / non posse uidi, 828-9). Tuttavia le due affermazioni del nunzio si rivelano isolate nel contesto generale della narrazione, all’interno della quale Illo si annulla come personaggio e diviene pura voce narrante che indugia su lunghe descrizioni e su similitudini epiche.

Il narratore adotta il racconto simultaneo, servendosi per lo più di verbi al presente che esprimono immediatezza, dando l’impressione che l’atto narrativo sia contemporaneo all’azione.

Il perfetto è impiegato solo per indicare azioni repentine, o rapporti di anteriorità rispetto all’azione principale (stetit, 784; gemuit, 785; exuit, 786; posuit, 787; laxauit, 788; cecidit, 797; reliquit, 811; tenuit, 812; traxit 830).

L’idea di contemporaneità è resa inoltre anche dall’uso dei deittici (hoc, 777; hic, 782; hinc, 797; ille, 802; hinc, 804; hinc, 805; hoc, 828).

La rhesis consta di cinque sezioni:

1) Ecphrasis topou del promontorio Cafareo e del tempio di Giove (775-83); 2) Descrizione del sacrificio e oratio recta della preghiera (784-96);

3) Effetti del filtro di Nesso e reazione della folla (796-807); 4) Descrizione e morte di Lica (808-22);

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Illo riporta tre orationes rectae di Ercole: la prima è una preghiera che l’eroe rivolge a Giove ed è collocata nella sezione dedicata al sacrificio (790-6); nella seconda, all’interno della sezione dedicata a Lica (813-6), Ercole protesta contro la sorte per essere stato sconfitto dal servo vigliacco; la terza è indirizzata alla folla spaventata ed è riportata nella sezione conclusiva della rhesis.

12.3 Commento ai versi

La narrazione ha inizio con una descriptio loci (775-83) che conferisce al racconto un tono epico e descrive il luogo del sacrificio presso il tempio di Giove sul promontorio Cafareo.

Dopo la tradizionale introduzione ecfrastica, la narrazione dei fatti ha inizio con l’ut tecnico che introduce l’arrivo del gregge sacro presso il tempio di Giove Ceneo e l’inizio dei sacrifici catartici compiuti dall’eroe.

Eracle è descritto mentre si toglie la pelle di leone sporca del sangue dei nemici, depone la clava pesante e la faretra (spolium leonis sordidum tabo exuit /posuitque clauae pondus et pharetra grauis /laxauit umeros, 786-8) e indossa la veste donata da Deianira e una corona fatta con le foglie bianche del pioppo (ueste tunc fulgens tua, / cana reuinctus populo horrentem comam, 788-9). La corona di pioppo fa parte del rito di vestizione voluto da Deianira per il sacrificio (cana rigentem populo cinctus comam, 578), e inoltre l’atto di deporre la pelle di leone insieme alle armi comporta il passaggio dell’eroe a uno stato di vulnerabilità che lo espone all’inganno di Nesso.

Segue la prima oratio recta dell’eroe (790-6) che, dopo aver acceso i fuochi degli altari, rivolge una preghiera a Giove, di cui sottolinea il legame di sangue definendolo vero padre (non false genitor, 791).

Nella prima parte della preghiera Ercole esorta il dio ad accettare i doni e l’incenso che alimenta il fuoco sacro del tempio (accipe has… focis / non false messis genitor et largo sacer / splendescat ignis ture, 790-2).

La seconda parte riprende le parole pronunciate dall’eroe nel prologo: egli afferma che la terra e i mari sono stati pacificati (pacata tellus et caelum et freta, 794), come nel prologo (protuli pacem tibi, 3); tutte le belve sono state soggiogate (feris subactis omnibus uictor redi, 795), come ha già detto dei nemici (perfidi reges iacent, / saeui tyranni, 5-6); infine Giove può deporre il fulmine grazie alla pace ritrovata (depone fulmen, 796), come in OH 6-7 (fregimus quidquid fuit / tibi fulminandum).

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L’oratio recta che riporta la preghiera a Giove è una creazione del tutto senecana, in quanto è assente nei passi corrispondenti di Sofocle e di Ovidio e prepara il discorso diretto, riportato da Filottete, in cui il semidio chiede di essere divinizzato (OH 1696- 1715).

Gli effetti del filtro di Nesso compaiono all’improvviso durante la preghiera e sono descritti inizialmente attraverso i gemiti e le grida orribili emesse dal protagonista (gemitus in medias preces / stupente et ipso cecidit, 796-7)319.

I lamenti di Eracle, con cui ferisce le stelle e il mare (sic ille gemitu sidera et pontum ferit, 802), sono descritti attraverso due similitudini dall’evidente coloritura epica: egli è paragonato prima a un toro che fugge con l’ascia conficcata e riempie del suo immenso muggito il tempio tremante (qualis impressa fugax / taurus bipenni uolnus et telum ferens / delubra uasto trepida mugitu replet, 797-800), poi a un fulmine che, quando è scagliato, tuona nel cielo (aut quale mundo fulmen emissum tonat, 801)320.

La similitudine del toro è ripresa, nel medesimo contesto, da Ovidio (haud aliter graditur, quam si uenabula taurus / torpore fixa gerat factique refugerit auctor, Met. IX.205-6).

Successivamente sono descritte le reazioni fisiche del personaggio che piange (flentem, 806) e contrae il volto per il calore della fiaccola infuocata (at ille uoltus ignea torquens face, 808)321. L’atteggiamento di Eracle fa credere ai presenti che esso sia stato colto nuovamente dalla follia e provoca il terrore generale (uulgus antiquam putat / rabiem redisse; tunc fugam famuli petunt, 806-7).

L’eroe cerca Lica tra la folla poiché è colui che ha consegnato la veste, inconsapevole dell’inganno in essa contenuto (unum inter omnes sequitur et quaerit Lichan, 809). Il servo, conscio dell’ira del padrone che si abbatterà su di lui, abbraccia gli altari in preda al panico e muore di paura prima ancora di essere ucciso da Ercole, lasciando ben poco alla sete di vendetta dell’eroe (complexus aras ille tremibunda manu / mortem metu consumpsit et paruum sui / poenae reliquit, 810-2)322. Paruum

319 Cfr. Tura dabat primis et uerba precantia flammis… / Herculeos abiit late dilapsa per artus, Ov. Met. IX.159-62.

320 Per la prima similitudine, topica per indicare il guerriero morente, cfr. Hom. Il. XX.403-6; Verg. Aen. II.222-4 in cui le grida di Laocoonte sono paragonate al muggito di un toro.

321 Cfr. pauefactus infans igneo uultu patris/ perit ante uulnus (HF 1022).

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sui (811) indica “quel poco che rimane di lui”, che in tal caso coincide col il cadavere di cui Ercole provvede a far strazio.

La seconda oratio recta di Ercole è pronunciata mentre l’eroe tiene per le mani il cadavere di Lica ancora tremante (dumque tremibundum manu / tenuit cadauer, 812- 13) ed esprime il tormento di Ercole al pensiero che i posteri possano dire che l’eroe abbia trovato la morte per mano di un umile servo.

Alcuni studiosi segnalano difficoltà nel verso 812 a causa della iunctura tremibundum… /… cadauer, che hanno provato a risolvere in vario modo, attraverso congetture quali cadauer moribundum (Bentley e Richter), furibunda manu (Damsté) e tremibunda manu (Marruzzino)323. La proposta di Marruzzino appare interessante, in quanto traduce: “e mentre per quelle mani ancora tremanti teneva afferrato Lica già cadavere”324. Tuttavia, la correzione appare inutile, in quanto, se tremibundus può

essere attribuito alla mano di Lica defunto per descrivere una paura così grande che si conserva subito dopo la morte, lo stesso aggettivo può essere esteso all’intero cadauer senza ci sia la necessità di correggere la lezione tràdita.

Ercole si chiede se in futuro sarà ricordato per essere stato sconfitto dal codardo Lica (hac manu, hac… ferar, / O fata, uictus? Herculem uicit Lichas?, 813-4). La geminazione del deittico hac evidenzia la rabbia del parlante che invoca solennemente il destino beffardo, colpevole di questa onta (O fata, 814).

La decisione di annientare Lica è introdotta dall’espressione solenne ecce alia clades (815), che ha la funzione di attirare l’attenzione creando una pausa patetica325. Dopo il pensiero della prospettiva futura, Ercole è preso da un moto di fiera rivalsa che lo porta ad intraprendere l’ultima fatica, la peggiore di tutte dal punto di vista morale, ovvero annientare il servo (Hercules perimit Lichan. / Facta inquinentur: fiat hic summus labor, 815-6)326.

L’oratio recta è presente anche nel modello ovidiano (Met. IX.213-4), dove tuttavia non si riscontra la medesima pregnanza. L’Ercole ovidiano si limita a chiedere al servo se è lui la causa della sua morte. Lica, inoltre, non muore per la paura, ma per mano del padrone, dopo aver provato, tremante, a dare spiegazioni e ad abbracciargli le

323 Averna 2002: 191.

324 Marruzzino 1981: 189-90.

325 Cfr. Ag. 528 in cui la medesima locuzione introduce la vicenda di Aiace. Cfr. §7.3.

326 Cfr. summus legatur Herculis labor (HO 1455), dove l’uccisione di una femina come ultimo labor è considerata una vergogna.

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ginocchia (… tremit ille pauetque / Pallidus et timide uerba excusantia dicit; / dicentem genibusque manus adhibere parantem, IX.214-6)

Ercole, dunque, scaglia in cielo Lica il cui volo è confrontato con quello di una freccia lanciata per mano di un Geta o di un Cretese (talis in caelum exilit / harundo Getica iussa dimitti manu / aut quam Cydon excussit, 818-9), che tuttavia non raggiunge la medesima altezza (inferius tamen / et tela fugient, 819-20)327.

Illo riporta la terza e ultima oratio recta del padre (823-5) che si ricollega ai vv. 806-7. Egli si rivolge alla folla spiegando che le proprie azioni non sono dettate dalla follia (non furor mentem abstulit, 823), ma da un male che è peggiore della pazzia e dell’ira, in quanto porta a provare piacere nell’infierire contro se stesso (furore grauius istud atque ira malum est: / in me iuuat saeuire, 824-5).

Il continuo rimando alla follia di Ercole è assente nei modelli, mentre Seneca allude più volte al tema sviluppato nell’Hercules Furens (897-9): non soltanto l’eroe subisce l’attacco della pazzia proprio durante un sacrificio propiziatorio, ma anche l’espressione del volto e la violenza nei confronti di Lica ricordano da vicino la strage erculea328.

Segue la descrizione degli effetti del malum su Eracle che si lacera gli arti e si strappa le membra (et saeuit: artus ipse dilacerat suos / et membra uasta carpit auellens manu, 826).

Nel cercare di strapparsi di dosso il mantello, l’eroe tira via anche brandelli di carne (et saeuit: artus ipse dilacerat suos / et membra uasta carpit auellens manu, 829-30), come accade anche nel modello ovidiano (qua trahitur, trahit ille cutem, foedumque relatu, / ut haeret membris frustra temptata reuelli, IX.167-8).

Illo, infine, ammette che la causa del male, che rende il semidio senza forze e lo fa giacere con la faccia in giù, è sconosciuta (nec causa dirae cladis in medio patet, / sed causa tamen est;… / nunc ore terram languidus prono premit, 832-4). Eracle, infatti,

327 Ercole afferra per le mani anche un figlio, che lo stava supplicando, e lo scaglia in aria

uccidendolo in HF 1002-7. Infine anche il tema del disfacimento del cadavere (HO 821-2) è presente nell’Hercules Furens (1006-7).

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a causa del filtro di Nesso perde la sua tradizionale forza e viene ormai considerato pari ai mortali (fuimus Alcidae pares, 838).

12.4 Conclusioni: l’oratio recta e l’agonia di Ercole

Mentre nei due modelli di Sofocle e Ovidio le rheseis rispettive contengono solo una breve oratio recta, Seneca fa riferire da Illo tre orationes rectae pronunciate dal padre all’interno della rhesis a lui dedicata.

La prima (790-6), che precede l’agonia ed è pronunciata durante i sacrifici, è assente nei modelli di Sofocle e Ovidio. Ercole, infatti, rivendicando il legame di sangue con la divinità e descrivendo le sue imprese eroiche che lo vedono pacificatore del mondo, crea le basi per la preghiera, riferita da Filottete, in cui chiede al padre di essere accolto tra gli astri.

Le altre due brevi orationes rectae (813-6; 823-5), pronunciate durante l’agonia, mostrano il protagonista che provvede a punire il servo e a descrivere alla folla il malum che lo ha colpito.

La funzione principale di tali discorsi diretti è etopoietica, in quanto è finalizzata a tratteggiare il carattere dell’eroe sia nel momento che precede gli effetti del filtro di Nesso, che quando viene colpito dal malum.

Inoltre l’impiego delle orationes rectae rende drammaticamente efficace il racconto e mostra Ercole come protagonista quasi “drammatico” del racconto.

Tale aspetto è ancora più evidente nella rhesis pronunciata da Filottete, dove il discorso diretto dell’eroe occupa uno spazio ancora più esteso.

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