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Comparizione e scomparizione della questione relativa al potere di accreditamento del datore di lavoro

Continuità e discontinuità della giurisprudenza costituzionale sull’articolo 19 Stat. lav

4. Comparizione e scomparizione della questione relativa al potere di accreditamento del datore di lavoro

Nel gioco di equilibrismo della Corte costituzionale nella pronuncia n. 231 un altro profilo di discontinuità risulta essere quello relativo al cd potere di accreditamento su cui tanto si era dibattuto a seguito degli esiti referendari.

In realtà questa era una vecchia questione già affrontata dalla Corte in merito alla lettera b dell’articolo 19.

Com’è noto il criterio della sottoscrizione dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva faceva sospettare che la costituzione delle RSA e l’attribuzione dei diritti sindacali fosse soggetta al consenso del datore di lavoro che avrebbe potuto decidere quali sindacati ammettere alla trattativa e alla sottoscrizione e quali invece no (18

Interrogata nuovamente su tale profilo a seguito del referendum la Corte si pronuncia di nuovo con la sentenza n. 244/1996 affermando che «la

).

(17) Si veda A. MARESCA, Prime osservazioni sul nuovo articolo 19 Stat. lav.: connessioni e sconnessioni sistemiche, cit.

rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia ma è una qualità giuridica dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti colletti (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva»; perché il nuovo criterio dell’essere firmatario coincide, afferma la Corte costituzionale, «con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione come controparte contrattuale».

Sulla base di quanto affermato la Corte costituzionale confina il potere di accreditamento soltanto al caso in cui il datore di lavoro simuli una negoziazione per attribuire i diritti sindacali ad un sindacato di comodo. A tale fattispecie sarebbe applicabile l’articolo 17 Stat. lav. (19

Il potere di accreditamento prima ritenuto esistente (sentenza n. 30/1990), viene poi negato (sentenza n. 244/1996), per poi essere nuovamente ritenuto esistente (sentenza n. 231/2013).

).

In un passaggio della sentenza n. 231 la Corte afferma che il nuovo criterio si rende necessario perché «per un sorta di eterogenesi dei fini la nuova norma si trasforma in un meccanismo di esclusione di soggetti maggiormente rappresentativi a livello aziendale».

Tali soggetti «sarebbero privilegiati o discriminati non già sulla base del rapporto con i lavoratori che rimanda al dato effettivo o valoriale della loro rappresentatività […], bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto collettivo con la stessa». E continua il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale. Aggiunge che è evidente anche il vulnus all’articolo 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto sul piano negoziale ai valori del pluralismo e della libertà dell’azione dell’organizzazione sindacale.

Sebbene la Corte costituzionale non nomini questo profilo di incostituzionalità per quello che è, in realtà, a ben vedere, esso non è altro che il potere di accreditamento, perché a detta della Corte il

(19) A. MARESCA, Le rappresentanze sindacali aziendali dopo il referendum (problemi interpretativi e prime osservazioni), cit., 36.

consenso alla conclusione del contratto collettivo «condiziona il beneficio del godimento dei diritti sindacali ad un atteggiamento consonante con l’impresa».

Questo è il passaggio della sentenza n. 231 nel quale più di tutti può essere rilevata la valenza politica della sentenza. La Corte esprime un’argomentazione orientata alle conseguenze, per citare Luigi Mengoni (20

Come abbiamo già potuto vedere sopra il giudizio di legittimità costituzionalità era stato già espresso sulla norma negando l’esistenza di un potere di accreditamento del datore di lavoro.

).

Invece, ora, la Corte costituzionale ritiene che tale potere di accreditamento sussista pur essendovi una norma invariata dal 1995, come invariati sono i principi della Costituzione su cui si fonda il sistema delle relazioni industriali.

Senza arrivare ad affermare cha la Corte sia entrata in contraddizione con se stessa e, in particolare, con la sentenza n. 244/1996, si può, però, dire che questa parte della sentenza segna il più grosso segno di discontinuità rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte, perché è quello che conduce, senza dubbio, alla dichiarazione di incostituzionalità.

In realtà, però, a ben vedere, la dichiarazione di incostituzionalità deriva non dalla forma delle norme e, cioè dall’interazione tra norma costituzionale e norma ordinaria quanto dalla circostanza che i rapporti sindacali si sono talmente modificati da determinare un’eterogenesi dei fini dell’articolo 19, eterogenesi che determina la non corrispondenza tra principi dettati dalla norma e realtà sindacale.

Conseguentemente occorre dare un’altra lettura che sia conforme alla nuova realtà delle relazioni sindacali.

L’iter logico seguito dalla Corte mostra un capovolgimento di quello che dovrebbe essere il modus operandi ai fini della dichiarazione di incostituzionalità delle norme.

La contrarietà a Costituzione deriva dal contrasto con i principi costituzionali e in particolare con gli articoli 2, 3 e 39, primo e quarto comma, come letti attraverso il fenomeno sociale che poi si concreta nell’esclusione di un soggetto sindacale maggiormente rappresentativo a livello aziendale.

In altri termini il giudizio di incostituzionalità più che procedere dall’alto verso il basso, procede dal basso verso l’alto: la realtà (assetto attuale dei rapporti sindacali) plasma la forma (i principi normativi) e non viceversa. Ma per quale ragione accade questo. Perché la Corte costituzionale è costretta a capovolgere il rapporto tra regola e realtà regolata?

5. La continuità della Corte costituzionale nella conservazione dei