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Il compatibilismo di Strawson.

III. RESPONSABILITÀ MORALE ED ATTEGGIAMENTI REATTIVI 1 Libertà e risentimento: ottimisti e pessimisti.

4. Il compatibilismo di Strawson.

4.1. Gli atteggiamenti reattivi: interpretazione « stretta » ed interpretazione « larga. »

L’argomento naturalistico adotta questa premessa: l’abbandono degli atteggiamenti reattivi coinciderebbe con l’abbandono delle normali relazioni interpersonali. Dunque non possiamo abbandonare in toto gli atteggiamenti reattivi, perché ciò significherebbe cessare il nostro coinvolgimento in queste relazioni – che costituiscono la nostra forma di vita. Infine, conclude Strawson, è inutile chiedersi quali ragioni avremmo di percorre un’opzione che comunque non possiamo imboccare.

Secondo Wallace quest’argomento poggia in maniera decisiva su di un’interpretazione larga della classe degli atteggiamenti reattivi, che è quella di Strawson, ma che Wallace ritiene scorretta, e che dunque rifiuta in favore di un’interpretazione stretta della classe in questione.120

Come si è già ricordato, Wallace enfatizza il collegamento tra gli atteggiamenti reattivi e le aspettative o le esigenze: in questo modo è possibile evitare l’errore di interpretare Strawson come un emotivista o un non-cognitivista. Sono infatti le aspettative e le esigenze che forniscono un contenuto proposizionale agli atteggiamenti reattivi. Tuttavia, secondo Wallace, Strawson non si mantiene fedele a questa sua intuizione fondamentale, perché Strawson ritiene che gli atteggiamenti reattivi siano coestensivi con l’intera gamma delle emozioni che proviamo prendendo parte nelle relazioni interpersonali.121

120 Wallace, Ray J., Responsibility and the Moral Sentiments, pp. 28-29.

121 « [...] Strawson takes it as obvious that the reactive attitudes are natural human phenomena to which persons,

as they are constituted, cannot help to be subject. But as Strawson presents it, the force of this idea depends quite crucially on taking the reactive attitudes to be coextensive with the full range of emotions we experience insofar as we are involved in interpersonal relationship. », in: Wallace, Ray J., Responsibility and the Moral Sentiments, p. 28.

Così, ricorda Wallace, Strawson include nella classe degli atteggiamenti reattivi l’amore reciproco tra persone adulte, la gratitudine, i sentimenti tipici di una persona offesa (hurt feelings) e la vergogna. In linea con la concezione strawsoniana, a questa lista potrebbero aggiungersi anche l’imbarazzo, i sentimenti di amicizia e la simpatia. Il problema, secondo Wallace, sta nel fatto che questi atteggiamenti reattivi « presunti tali » non mostrano alcuna connessione con le esigenze o le aspettative. Occorre invece restringere la classe degli atteggiamenti reattivi alle risposte emotive che hanno questa connessione con le aspettative e le esigenze: si tratterebbe unicamente del risentimento, dell’indignazione e del senso di colpa. Solo così una teoria della responsabilità basata sugli atteggiamenti reattivi evita di sbandare in un non-cognitivismo che la renderebbe inaccettabile. Allo stesso tempo però, l’argomento naturalista, in questo modo, perde la sua forza: l’abbandono degli atteggiamenti reattivi non appare più un’alternativa praticamente inconcepibile – come invece è praticamente inconcepibile l’adozione di un atteggiamento oggettivo generalizzato, che equivale ad una vita priva di relazioni interpersonali. Infatti, resterebbe possibile mantenere una vasta molteplicità di forme di relazione umane, pur rinunciando al risentimento, al senso di colpa ed all’indignazione.

Tuttavia, a mio parere l’interpretazione stretta degli atteggiamenti reattivi che abbraccia Wallace non mi sembra opportuna. Secondo Wallace, l’amore, la gratitudine, i sentimenti tipici di una persona offesa, la vergogna, l’imbarazzo, i sentimenti d’amicizia e la simpatia non presentano alcuna connessione con esigenze o aspettative, e dunque non possono venire compresi mediante la nozione di atteggiamento reattivo.

Consideriamo innanzitutto la gratitudine: perché quest’ultima non potrebbe essere collegata con esigenze o aspettative? Nel sostenere ciò, Wallace sembra abbracciare una sorta di rigorismo morale dal sapore kantiano: non è opportuno provare gratitudine verso una persona che ha adempiuto ad un obbligo; in fondo, essa ha fatto semplicemente il suo dovere. La gratitudine sarebbe opportuna solamente nei confronti delle persone che sono andate al di là dell’esecuzione del proprio dovere; coloro cioé che hanno intrapreso delle azioni super- erogatorie, le quali eccedono le richieste dell’obbligo morale. Anche secondo questo modo di vedere, in ogni caso, la gratitudine si trova collegata – indirettamente - ad esigenze e ad aspettative, in quanto essa è appropriata nel caso del superamento di queste ultime. Tuttavia questa concezione rigorista è sbagliata, umanamente arida: a volte l’adempiere ai propri obblighi morali richiede un considerevole sacrificio, ed in questi casi la gratitudine sembra ampiamente meritata – perché, appunto, sono state soddisfatte certe esigenze.

Che ne è invece del ruolo delle aspettative e delle esigenze nell’amore reciproco e nell’amicizia? Lungo l’esposizione di Freedom and Resentment condotta nelle pagine precedenti si è rilevato che il risentimento, tra gli altri, non deve essere caratterizzato come un’emozione esclusivamente morale, in quanto può essere motivato dalla delusione di esigenze ed aspettative non-morali: queste ultime, come suggerisce lo stesso Strawson, possono sorgere all’interno di relazioni più intime e profonde di quella relazione che intercorre tra i membri della comunità morale – nozione che denota una comunità ideale, poiché essa comprende tutta l’umanità.

Quindi, si è fatto l’esempio del risentimento che posso provare per la mia fidanzata perché mi ha lasciato, oppure del risentimento verso l’amico che non mi ha invitato alla sua festa. Lo stesso Wallace riconosce che gli atteggiamenti reattivi non sono esclusivamente di tipo morale: gli esempi che egli fornisce sono il risentimento verso qualcuno che non rispetta le regole del galateo; oppure il senso di colpa che una persona può provare per aver deluso le aspettative dei propri genitori o della chiesa a cui appartiene.122 Tuttavia, anche in questi esempi di Wallace le esigenze e le aspettative si stagliano sullo sfondo di certe relazioni interpersonali – e queste aspettative od esigenze sembrano capaci di definire il tipo di relazione.

La nozione di relazione inter-personale – e la sua importanza per una teoria della responsabilità - è stata sviluppata in particolar modo da T.M. Scanlon, in maniera simpatetica rispetto a Strawson.123 Sulla scorta delle sue analisi possiamo evidenziare che pure la particolarità individuale di una relazione può essere definita mediante una variabilità di queste esigenze o aspettative. Che cosa è, per me, l’amore? Posso esporre la mia concezione personale – oppure, più propriamente, il mio ideale – descrivendo cosa mi aspetterei dalla mia partner, e quali sue possibili esigenze sono pronto o disposto a soddisfare: ed inoltre, quali delusioni considererei come implicanti la fine del nostro rapporto.

Wallace caratterizza la posizione di Strawson nel modo seguente: per quest’ultimo gli atteggiamenti reattivi sono coestensivi con la gamma di emozioni che le persone provano relazionandosi tra di esse. Questa concezione, egli aggiunge, è insostenibile: « This puts all of

122 Wallace, Ray J., Responsibility and the Moral Sentiments, pp. 35-36.

123 Si consideri quanto scrive Scanlon: « The account of blame that I offer is like Strawson’s in seeing human

relationships as the foundations of blame. But it differs from his view in placing emphasis on the expectations, intentions, and other attitudes that constitute these relationships rather than on moral emotions such as resentment and indignation. », in Scanlon, T.M., Moral Dimensions. Meaning, Permissibility and Blame, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) – London (Eng.) 2008, p. 128.

the weight of the account of reactive attitudes (and of their incompatibility with objectivity of attitude) on the notion of interpersonal relationship. But we do not have an independent concept of interpersonal relationship suitable to play the required role in the account. »124 Al di là di quello che abbia inteso dire precisamente Strawson, non sembra che per contestare l’interpretazione stretta di Wallace sia necessario sostenere che ogni emozione provata nel contesto di una relazione interpersonale sia legata ad esigenze o aspettative. Il punto, piuttosto, è che senza il nesso tra certe risposte emotive e certe aspettative non vi è la relazione.

Da parte mia non vedo dunque nessuna circolarità viziosa nel considerare un atteggiamento reattivo come costituente essenziale di una relazione interpersonale, e dunque nel definire quest’ultima mediante i primi. Una relazione inter-personale si può definire come una serie di esigenze o aspettative più o meno reciproche, e da una serie di risposte emotive e pratiche corrispondenti alla delusione od al soddisfacimento di queste esigenze o aspettative: sono proprio questi elementi a trovarsi connessi nella nozione di atteggiamento reattivo. Richiamando ancora il suggerimento di Bennett, il quale si appoggia alla definizione di « atteggiamento » (attitude) come « modo di vedere, » ci si potrebbe spingere a dire che un atteggiamento reattivo consiste nel vedere una persona come un amico, come il proprio amore, come un soggetto responsabile.

L’obiezione ad un simile approccio potrebbe essere: se l’atteggiamento responsabilizzante è comune a tutte queste relazioni, in che cosa consiste la specificità del biasimo e della lode, vale a dire della responsabilità morale? La risposta sta nel fatto che il biasimo e la lode sono connessi ad esigenze morali, cioé a delle norme che hanno un certo contenuto. Strawson accennava a questo parlando di una generalizzazione delle esigenze e delle aspettative; a dire il vero in maniera abbastanza oscura. Questo aspetto verrà approfondito più oltre – assieme ad un tema correlato molto importante – che Strawson non tocca neppure: qual’è la motivazione specifica dell’agire morale? Sarà sicuramente diversa da quella che mi spinge dal mostrare una buona volontà ad un mio amico o alla mia partner: si tratta – come verrà approfondito in seguito – del desiderio di poter giustificare la mia condotta verso gli altri.

Infine, che ne è dunque dell’argomento naturalistico? Data la discussione precedente, sembra che sia praticamente inconcepibile abbandonare completamente gli atteggiamenti reattivi, perché questi sono essenziali al mantenimento delle relazioni umane, ed il nostro impegno in esse è troppo radicato.

D’altra parte però, si potrà osservare, Wallace ha ragione nell’osservare che non sembra praticamente inconcepibile fare a meno del risentimento, del senso di colpa e dell’indignazione. Il punto è che l’alternativa prospettata da Wallace non costituisce un abbandono del nostro concetto di responsabilità morale: piuttosto, egli prospetta un abbandono degli aspetti punitivi delle nostre pratiche. Una simile modificazione può anche essere razionalmente e moralmente giustificata: di questo ci occuperemo in seguito. Rimanendo nell’ambito dell’argomento naturalistico occorre ricordare che per Strawson ciò che è praticamente inconcepibile abbandonare sono certe risposte emotive, collegate a certe esigenze o aspettative nei confronti degli altri. Gli atteggiamenti reattivi morali sono quelli che rispondono alla delusione di un’esigenza di rispetto generalizzata a tutti i membri della comunità: non è possibile, secondo questa concezione, separare nettamente le classi degli atteggiamenti reattivi morali e di quelli non morali. Infatti le aspettative e le esigenze che nutriamo verso gli altri mirano ad ottenere qualcosa che può essere denominato allo stesso modo, sia che si parli di esigenze morali oppure no: si tratta della buona volontà.

Dunque, infine, mi sembra che la premessa fondamentale dell’argomento naturalistico mantenga la sua validità: l’abbandono delle pratiche responsabilizzanti non è in nostro potere. A ciò Strawson aggiungeva: è inutile chiedersi se abbiamo delle ragioni per fare qualcosa che non è in nostro potere. Sicuramente, da un punto di vista generale, quest’ultima tesi è corretta se valutata in un contesto puramente pratico-deliberativo: d’altra parte, trovare delle ragioni in favore di un’alternativa che non possiamo intraprendere può avere un’interesse speculativo. In particolare, poiché qui abbiamo a che vedere con l’impossibilità di abbandonare una pratica fondata su certi giudizi, ciò potrebbe significare che siamo « condannati » a perseguire una linea di condotta irrazionale, e dunque a credere che le persone siano responsabili anche se esse di fatto non lo sono: la responsabilità costituirebbe una sorta d’illusione della quale non possiamo fare a meno.

A questo proposito, è opportuno rilevare che Strawson ha effettuato un parallelo tra il problema della responsabilità morale ed il problema dello scetticismo, nella sua lecture Skepticism and Naturalism: Some Varieties, pubblicata in volume nel 1985.125 Questo parallelo a mio parere è fuorviante; tuttavia secondo me è utile rifarsi ad esso per comprendere la portata dell’argomento naturalistico.

125 Strawson, Peter Frederick, Skepticism and Naturalism: Some Varieties, Columbia University Press, London,

La pratica responsabilizzante ammette degli standards o dei criteri di giustificazione per delle tesi conoscitive particolari, avanzate all’interno della pratica stessa (questa persona è responsabile, oppure no, di una certa azione): l’idea avanzata in Skepticism and Naturalism è che una giustificazione (o una mancata giustificazione) della pratica responsabilizzante nella sua totalità è illegittima, proprio per via dell’inevitabilità del nostro impegno in essa.

4.2. Responsabilità morale e problema scettico.

Il problema dello scetticismo, nella tradizione filosofica moderna (da Cartesio in poi) può venire generalmente inteso come il problema della realtà esclusivamente soggettiva delle nostre rappresentazioni del mondo. Secondo Hume, è il contenuto delle nostre sensazioni a motivare la credenza nell’esistenza di oggetti e corpi fisici: ma sembra che questa credenza possa essere messa in dubbio da un punto di vista filosofico, per il quale le nostre conoscenze potrebbero riguardare esclusivamente le nostre sensazioni stesse, e non il mondo esterno a cui queste ultime sembrano riferirsi.

Secondo Strawson il punto della questione non sta nel trovare un valido argomento contro lo scetticismo, quanto piuttosto nel riconoscere che ogni argomento possibile riguardo il dubbio scettico, che sia contro o a favore di esso, è perfettamente vano, inutile. In questo senso, ciò che deve essere riconosciuto è che la nostra credenza nell’esistenza di oggetti e corpi fisici – quali ci permettono di conoscere i nostri sensi – è inevitabile: nessun argomento filosofico è capace di smuovere questa nostra credenza; così non vi è da sorprendersi se nessun argomento riesce a fondarla razionalmente.

Strawson afferma che questa presa di posizione riguardo il dubbio scettico si trova – sebbene in forme differenti – sia in Hume che in Wittgenstein. Nelle sue opere Hume appare a volte nelle vesti di un sostenitore del dubbio scettico, ed altre volte invece – secondo la definizione di Strawson - come un naturalista: vale a dire, egli sotto questo aspetto insiste sul fatto che la credenza nell’esistenza del mondo esterno è un dato inevitabile della nostra natura – così come sarebbe inevitabile anche la credenza nella validità dei nessi causali scoperti tramite l’induzione. Strawson scrive: « According to Hume the naturalist, skeptical doubts are not to be met by argument. They are simply to be neglected (except, perhaps, in so far as they supply a harmless amusement, a mild diversion to the intellect). They are to be neglected

because they are idle; powerless against the force of nature, of our naturally implanted disposition to belief. »126

In Wittgenstein tesi simili si trovano espresse nelle sue note Sulla certezza: come in Hume, riappare qui la distinzione tra ciò che è inutile porre ad oggetto di indagine razionale, ciò che dobbiamo dare per scontato in ogni nostro ragionamento, da una parte, e ciò che invece può essere autenticamente fondato razionalmente o dimostrato come vero. Wittgenstein parla dell’insieme della conoscenza umana come di un « sistema di proposizioni: » questo sistema comprende degli enunciati che si possono giustificare razionalmente (verificandoli tramite l’esperienza), ed altre proposizioni che invece si situano al di là della giustificazione e della mancanza di giustificazione, poiché l’accettazione di esse si trova in noi come qualcosa di « animale. »127 Queste ultime proposizioni rappresentano la nostra « immagine del mondo, » sullo sfondo della quale è possibile distinguere il vero ed il falso. A volte Wittgenstein parla di questa « immagine del mondo » come di qualcosa che abbiamo ereditato, altre volte invece effettua un paragone con le regole di un gioco che può essere imparato in maniera puramente pratica, cioé senza appoggiarsi a nessuna formulazione esplicita di queste regole stesse.128 Così, ad esempio, noi accettiamo o rifiutiamo delle teorie scientifiche perché crediamo che esse costituiscano la migliore spiegazione di certi fenomeni: queste teorie fanno parte della prima classe di proposizioni. Invece, un enunciato del tipo « I corpi fisici esistono » non è una tesi che accettiamo come vera perché costituisce una valida spiegazione circa il contenuto delle nostre sensazioni: questo enunciato può venire ricondotto alla nostra immagine del mondo, sullo sfondo della quale ci è possibile affermare l’esistenza di corpi fisici, di nessi causali tra eventi, etc. Dunque, le proposizioni prese di mira dallo scetticismo filosofico non sono delle vere e proprie credenze empiriche, non ha senso cercare di fondarle, e quindi esse non sono neanche suscettibili di venire messe in dubbio.

È chiara l’analogia che si può instaurare tra il problema scettico e quello della compatibilità di responsabilità morale e determinismo: la credenza nel fatto che le persone sono responsabili è implicata nella natura umana allo stesso modo in cui lo è la credenza nell’esistenza di corpi fisici. È lecito, dunque, dubitare del fatto che una persona non sia responsabile, oppure che un corpo fisico davanti ai miei occhi sia solo un’illusione: ma non è lecito dubitare del fatto che esistono persone responsabili, così come non è lecito dubitare dell’esistenza di corpi fisici.

126 Strawson, Peter Frederick, Skepticism and Naturalism: Some Varieties, p. 13.

127 Strawson, Peter Frederick, Skepticism and Naturalism: Some Varieties, p. 15; par. 359 128 Strawson, Peter Frederick, Skepticism and Naturalism: Some Varieties, p. 16; par. 95.

Non sono fino in fondo sicuro di aver restituito con esattezza il punto di vista di Strawson; la sua trattazione in Skepticism and Naturalism è molto complessa, e qui d’altra parte non è il caso di dilungarsi su di essa. Infatti, il parallelo tra scetticismo e problema della responsabilità non tiene. Ciò si vede considerando la formulazione dell’argomento naturalistico in Freedom and Resentment: è praticamente inconcepibile abbandonare gli atteggiamenti reattivi.

Come nel caso dello scetticismo, si potrà dire, anche nell’ambito della responsabilità entra in gioco l’inevitabilità di certe credenze. Innanzitutto, ci si può chiedere se si può legittimamente parlare di una credenza nell’esistenza del mondo esterno; probabilmente le osservazioni di Wittgenstein in Sulla Certezza vanno proprio contro la sensatezza di una simile tesi. Comunque sia, l’inevitabilità in questione nei due casi è sicuramente diversa: difatti l’abbandono degli atteggiamenti reattivi non consiste semplicemente nell’abbandono di certe credenze, ma nell’abbandono di certi tipi di relazioni interpersonali.

Si pensi al fatto che non riusciamo neanche a concepire cosa può significare smettere di credere nell’esistenza del mondo esterno; d’altra parte, Strawson stesso ci dà un’idea abbastanza precisa di cosa significa smettere di considerare le persone come agenti responsabili: adottare verso di esse un atteggiamento oggettivo – il quale, anche se non equivale necessariamente alla manipolazione, tende comunque quasi sempre a quest’ultima. Il punto è che non possiamo affrontare un simile sacrificio, anche se lo vorremmo: poiché di sacrificio si tratta. La tesi principale di Strawson è che l’atteggiamento responsabilizzante è comune ad una vasta gamma di relazioni: quelle nelle quali si trovano implicate aspettative, esigenze, offese, benefici – ed ovviamente risentimento e gratitudine. Si tratterebbe dunque di abbandonare tutte queste relazioni – e le credenze ad esse collegate; probabilmente con qualche esercizio di ascesi ciò è possibile – ma è comunque disumano.

Giova ripetere che per avanzare quest’argomentazione non è necessario assumere che ogni sentimento umano ha un carattere reattivo, così come non è necessario ridurre la consistenza delle relazioni d’amore o d’amicizia ad esigenze o aspettative, ed alle emozioni che sono legate ad esse: basta riconoscere, ad entrambi questi elementi, un ruolo principale nello strutturarsi di queste relazioni, così come noi le viviamo e le concepiamo.

In ogni caso, tornando all’argomento naturalistico, si ripresenta in fondo la stessa domanda: anche se l’abbandono della responsabilità non è praticabile, bisogna chiedersi se – data la causazione fisica delle scelte – le nostre credenze sul merito e la colpa, i nostri modi di giudicare e di valutare (le persone responsabili), non sono in fondo minati da una qualche irrazionalità. Questa possibilità è ancora aperta: essa forse potrebbe venire contrastata da ciò