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La critica alla nozione filosofica di obbligo morale in Hart ed in Feinberg.

IV. RESPONSABILITÀ E OBBLIGO MORALE.

1. La critica alla nozione filosofica di obbligo morale in Hart ed in Feinberg.

Herbert L.A. Hart, nel suo saggio del 1958 su « Legal and Moral Obligation » deplora il fatto che la stragrande maggioranza dei filosofi morali suoi contemporanei, negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, tenda a dare per scontato come il principale oggetto delle loro ricerche consista negli obblighi morali. Questi filosofi tipicamente prendono ad esempio azioni come il mentire, l’imbrogliare, il torturare bambini, l’infliggere gratuitamente del dolore ad altre persone.211

Secondo Hart, dire che le persone hanno l’obbligo morale di non commettere simili azioni è assurdo. Quando ci asteniamo dal compiere atti così ripugnanti è errato descrivere la situazione affermando che stiamo compiendo il nostro dovere (duty); ed è fuorviante dire che in questi casi abbiamo riconosciuto ciò che siamo obbligati a fare al termine di una deliberazione.

Il punto non è che le parole « obbligo » o « dovere » (duty) sono troppo deboli rispetto ad azioni così orribili e spregevoli come il torturare dei bambini. « Obbligo » e « dovere » non sarebbero meglio impiegati riferendosi esclusivamente ad infrazioni di minore gravità, situate sulla stessa scala morale alla quale appartengono infrazioni (offense) ben più serie – i crimini morali. Secondo Hart l’obbligo ed il dovere non appartengono alla stessa scala morale di azioni come torturare i bambini ed imbrogliare le persone: l’uso incondizionato del termine obbligo, in altre parole, ci nasconde la varietà e la complessità del campo della morale.

Feinberg, come si è ricordato, si ispira all’analisi dell’obbligo di Hart. Gli obblighi morali, nel senso ordinario del termine, sorgono quando facciamo promesse o stipuliamo accordi: inoltre, essi sono legati a ruoli come quello di padre, di servitore, di ospite, di vicino di casa. Hart parla di « recognized positions or roles in a social group. »212 Infine, secondo Hart, può esservi un obbligo morale di obbedire alla legge.

Tuttavia, nota Hart, la terminologia dell’obbligo e del dovere si trova veramente a casa propria nell’ambito del diritto. Se uno statuto giuridico proibisce di torturare gli animali, allora abbiamo l’obbligo legale di non torturare gli animali. Inoltre, si può fare riferimento

211 Hart, Herbert L.A., « Legal and Moral Obligation, » pp. 82-83. 212 Hart, Herbert L.A., « Legal and Moral Obligation, » p. 83.

specifico ad una classe specifica di obblighi legali, quelli che contraiamo stipulando dei contratti riconosciuti e regolati dalla legge.213

Hart denota tre categorie in cui il termine « obbligo morale » è usato appropriatamente: obblighi derivanti dai ruoli sociali, obblighi derivanti dalle promesse, l’obbligo morale di obbedire alle autorità. Tali casi presentano delle caratteristiche comuni e facilmente riconoscibili. Il torturare bambini o l’infliggere gratuitamente della sofferenza, secondo Hart, rientrano in una tipologia diversa: ciò che tende ad oscurare questa differenza è il fatto che in ogni caso si può usare la parola « dovere » per indirizzare la condotta degli altri o per rimproverarli. Feinberg, parallelamente, sostiene che si tendono a confondere gli obblighi ed i consigli di saggezza perché per ambedue i casi si può usare la parola « ought: » « You ought to do A. »

La tripartizione di Feinberg, si ricordi, prendeva in considerazione due categorie di obbligo morale e gli obblighi legali. Feinberg d’altra parte non affronta la questione di stabilire se vi sia un obbligo morale di obbedire alla legge, come fa Hart. Questo problema non ci interessa direttamente, avendo esso a che vedere, piuttosto, con la fondazione dell’autorità giuridica. Il contributo di Hart è interessante per la sua critica alla nozione filosofica di obbligo morale: una critica che Feinberg da’ fondamentalmente per acquisita. Feinberg si innesta sul contributo di Hart, lo sviluppa: una conseguenza dell’identificare tutte le norme morali con l’obbligo, infatti, è quella di far perdere di vista cosa significa apprezzare il valore ultimo di una persona, il quale non può stare scritto sui suoi records.

Inoltre Feinberg, in « Supererogation and Rules, » a differenza di quanto sembra avvenire in altri suoi saggi, tratta con un certo discredito la nozione di registro morale. Ora il moral record è un « letto di Procuste, » nel quale il filosofo incauto cerca di riunire e di porre su di un’unica scala tipi irriducibilmente diversi di azioni e qualità umane eticamente rilevanti. Si ricordi che altrove Feinberg accordava una certa utilità all’idea di trasportare al di fuori delle istituzioni (banche, scuole, tribunali, etc.) l’utilizzo del termine « registro. »214

In « Supererogation and Rules » però la metafora istituzionale è vista come una tentazione fallace: ciò che avviene, secondo Feinberg, è che i filosofi, acriticamente, assumono le

213 Hart, Herbert L.A., « Legal and Moral Obligation, » p. 84.

214 Vedi in particolare: Feinberg, Joel, « Action and Responsibility. » Invece, in « Problematic Responsibility in

Law and Morals, » come si è già accennato nella discussione sulla responsabilità per le conseguenze, Feinberg tratta ironicamente la nozione di un moral record assurdamente concepito senza riferirimento ad alcuna finalità pratica.

istituzioni a modello di ciò che è non-istituzionale, perché, abbastanza naturalmente, si parte da ciò che ci è familiare per comprendere ciò che non lo è.

Il compimento di quest’illusione filosofica sta nel considerare il non-istituzionale (l’ambito della morale o dell’etica largamente intesa) come un’istituzione speciale. In « Supererogation and Rules » si legge: « Hence those counsels of wisdom which could serve a man even in an institutionless state of nature, and in some respects even if he were the last man on earth, are treated as if they were the company rules of some shadowy moral corporation or the status of a ghostly moral State. »215

A questo punto occorre considerare il problema che le critiche di Hart e Feinberg pongono per un teorico della responsabilità. Un approccio che sembra promettente consiste nel considerare il biasimo come una risposta alla delusione di esigenze interpersonali. Si tratta dell’approccio di Strawson: inoltre, anche le teorie dello stesso Feinberg, distinguendo i giudizi sul valore ultimo delle persone dai giudizi di responsabilità, spingono a far combaciare questi ultimi con le norme o gli standards che regolano le relazioni interpersonali.

Per Strawson le esigenze interpersonali, in generale, sono dunque espresse dagli obblighi: ma con questo l’uso del concetto viene esteso rispetto all’accezione ordinaria, per la quale le persone moralmente obbligate sono solamente quelle che occupano un ruolo sociale specifico, e quelle che hanno fatto delle promesse. Inoltre, bisogna notare, quasi la totalità dei filosofi che si occupano di determinismo e responsabilità condividono un simile utilizzo allargato del termine obbligo morale: basti considerare la frequenza con la quale, nei dibattiti sul Principio delle Possibilità Alternative, viene chiamato in causa il principio dovere implica potere, che ovviamente si riferisce al dovere dell’obbligo.

In definitiva, sembra che la critica di Hart e Feinberg possa dissuadere dal riunire tutte le esigenze interpersonali sotto la categoria di obbligo. D’altra parte, la nozione di obbligo presenta una connessione evidente con i giudizi di responsabilità. Infatti, essere moralmente obbligati significherà pur sempre, in qualche modo, essere costretti: l’obbligo è il tipo di norma che si trova collegata con la costrizione, con la minaccia di una sanzione. Quest’ultima sarà il biasimo in ambito morale, e la punizione propriamente detta in ambito legale. Così l’obbligo appare di particolare importanza per la responsabilità, poiché sembra delimitare l’ambito dei comportamenti sanzionabili (come sottolineava Feinberg, « obligations are liabilities. ») Si noterà infatti che le persone non possono venire appropriatamente biasimate

per essersi astenute dal compiere dei favori o delle azioni comunque lodevoli, che però sono super-erogatorie.

Feinberg vede con sospetto la proliferazione filosofica degli obblighi considerati al di fuori delle istituzioni. Resta da capire precisamente che cosa si deve intendere con istituzione. Tuttavia, l’opposizione di Feinberg tra istituzionale ed extra-istituzionale appare comunque un po’ rozza: essa sembra troppo incentrata sull’immagine dell’istituzione legale – infatti per Feinberg gli obblighi morali sono quelle norme etiche che hanno una forma legal-like. Al di fuori dell’istituzione legale vi sono le promesse ed i doveri tipici dei ruoli sociali: non tutti sono così avvicinabili alla legge. I doveri dei membri di un’associazione privata, magari dotata di uno statuto, potranno chiamarsi legal-like: ma non i doveri morali di un padre. Si ricordi comunque che la concezione di Strawson si basa sull’obbligo morale inteso come il correlato di esigenze interpersonali che sussistono tra tutti gli esseri responsabili – si tratta dei membri della comunità morale – un concetto indubbiamente astratto, che Feinberg ad esempio stigmatizza parlando di un « ghostly moral state. »

Il membro di questa comunità morale avrebbe associati a sé dei doveri « di uomo in quanto uomo, » che cioé non si riferiscono ad alcun ruolo sociale definito. La concezione di Strawson potrebbe dunque includere, tra gli obblighi morali, anche azioni del tipo « infliggere gratuitamente la sofferenza ad altre persone, » oppure « torturare i bambini. » Ovviamente, il filosofo inglese si trattiene dal fare esempi bizzarri come quest’ultimo, ma la sostanza è questa: si tratta di doveri dell’uomo in quanto uomo.

L’indagine sull’obbligo non è una questione terminologica: si tratta di capire se è possibile unificare le norme relative alle esigenze interpersonali sotto un’unica rationale. Strawson sicuramente ne era convinto, ed infatti egli approfondisce questo suo punto di vista in « Social Morality and Individual Ideal, » che analizzeremo in seguito.

Tuttavia occorre prima notare che Hart, invece di rifarsi come Feinberg al concetto di istituzione, lega gli obblighi ad una pratica sociale: il suo approccio è dunque più comprensivo.