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Complessità veneziana: città moderna o città contemporanea?

Venezia risulta una realtà complessa, molto distante dall’immagine coltivata per secoli di città romantica e decadente situata in mezzo a una laguna, a causa delle svariate contraddizioni presenti al suo interno, le quali trovano il loro inizio quando alla fine della Repubblica era nata, nel diciannovesimo secolo, la città industriale.

Questa si era ispirata ai modelli delle contemporanee città industriali europee di fine Ottocento, con le infrastrutture moderne che venivano o forzate all’interno dei confini lagunari o, soprattutto, ampliati grazie alla costruzione del ponte translagunare anche in terraferma, portando a far convivere e allo stesso tempo a con-dividere un territorio particolarmente e fortemente connotato storicamente con una realtà molto più funzionale.

Mestre e la terraferma possedevano infatti tutte le caratteristiche della città moderna con spazi altamente specializzati ed esclusivi, fisicamente chiusi nei confronti del resto della città come ad esempio il porto, la grande fabbrica o l’ospedale sviluppando un sistema nel quale le funzioni degli spazi erano chiaramente organizzate e dove tutto, costruzioni, persone, attività, si coagulava attorno ad un centro, regolando così la concentrazione e l’omogeneità urbanistica.

Al contrario, caratteristica della città contemporanea è quella che tende a riprodursi per frammenti che ne allargano i confini e le proprie maglie interne rispondendo alla profonda trasformazione che investe la società e gli elementi che la costituiscono. Il progresso della tecnologia ha reso infatti superflui molti spostamenti trasformando il materiale in immateriale e determinando un senso diverso della spazialità, se possibile più individualista, portando le vecchie aree industriali ad essere dismesse, come anche gli antichi palazzi nei centri delle città che vengono svuotati, recuperati, trasformati e assegnati a funzioni totalmente differenti, contribuendo a creare

Capitolo 1: Venezia e Terraferma - Riflessioni sul territorio, trasformazioni urbane e il contemporaneo nei musei

33 eterogeneità e a sconvolgere gli equilibri spaziali1. Questo finisce per disorientare le società che stanno ancora metabolizzando le esperienze moderne.

Nel nostro territorio, più che altrove, il rapporto tra antico, moderno e contemporaneo è complicato e irrisolto. Innanzitutto, è contorto e morboso il rapporto tra antico da una parte e moderno e contemporaneo dall’altra: l’antico è oggetto di adorazione feticista, eletto a simbolo di perfezione assoluta e inviolabile mentre tutto ciò che è moderno, in questo caso inteso come prodotto in tempo successivo alla Repubblica di San Marco, rimane relegato ad una mera funzionalità che, ora, svuotata del suo portato, non trova più ragione di essere.

La realizzazione di quella che nei primi del Novecento era la città contemporanea, caratterizzata dagli antichi insediamenti della prima industrializzazione soprattutto nell’area di Porto Marghera ha infatti generato oggi vaste aree di degrado all’interno dello stesso tessuto urbano, soprattutto a causa dell’ incapacità veneziana di immaginare nel corso del tempo nuovi modelli in grado di competere con le sfide poste dal passaggio del millennio a partire dagli anni Sessanta.

La causa dell’assenza di un’idea strategica territoriale che prevedesse la rifunzionalizzazione di molte aree abbandonate e la loro riqualificazione è derivata soprattutto dalla mancanza di un piano regolatore della città per oltre trent’anni, periodo caratterizzato da grandi trasformazioni sociali, che non hanno trovato aderenza nel tessuto urbanistico fino alle fine degli anni Novanta.

Il piano del 1960, infatti, fatto in un periodo di espansione demografica e di sviluppo produttivo, si basava sostanzialmente ancora sull’idea di città concepita nei primi decenni del Novecento ed era quindi del tutto inadeguato alla nuova fase di sviluppo richiesto dalla città verso la fine del secolo, oltre che essere ormai superato per naturale obsolescenza2.

Questa incapacità ha costretto Venezia, ma soprattutto la sua periferia, il suo entroterra, in una condizione di immobilismo che ha via via aggravato la crisi urbana aprendo dure contraddizioni nel tessuto territoriale e sociale, di difficile soluzione.

Proprio questo ‘vuoto temporale’ che proietta le strutture di tardo ottocento nella conformazione urbana degli anni Duemila, però, consente oggi di immaginare una

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Cfr. B. Secchi, “Prima lezione di urbanistica”, Laterza, Bari 2000

2 Cfr. L. Benevolo, R. D'Agostino, M. Toniolo “Quale Venezia. Trasformazioni urbane 1995-2005”,

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34 nuova fase di modernizzazione di Venezia, possibile solo attraverso la riconversione delle frange periferiche industriali, il recupero e la rifunzionalizzazione delle grandi strutture di servizio oggi dismesse.

Nel corso degli anni Novanta si era raggiunto infatti un nuovo grado di consapevolezza che puntava a scuotere le potenzialità della città a favore del nuovo millennio, cercando di convertire l’entropia veneziana ad una nuova apertura.

Trovo interessante a tal proposito riportare il pensiero dell’arch. urbanista D’Agostino il quale, in più riprese lungo lo scorso decennio ha trattato l’argomento del riscatto del tessuto urbano veneziano per poter competere nel panorama globale ricordando come “Ogni città o sistema urbano deve oggi misurarsi con le proprie risorse e collocare il prodotto urbano di cui dispone o in aree sempre più ristrette, fatto che si verifica nella maggior parte dei casi, o in aree sempre più allargate, ed è il caso di sempre meno città dalle prestazioni eccellenti. Tutte le città che abbiano un minimo di qualità cercano di immaginarsi come capitali di qualche cosa per eccellere nella competizione, ma ben poche hanno le qualità sostanziali per riuscire nell’impresa. Venezia è probabilmente tra queste. L’eccellenza del suo patrimonio storico – artistico e del suo patrimonio ambientale, l’articolazione delle sue istituzioni culturali, la potenzialità delle sue strutture logistiche e produttive, la ricchezza delle sue infrastrutture territoriali, oltre che il suo stesso nome la pongono tra le poche città italiane in grado di competere vantaggiosamente con le grandi città europee, contenendo traffici, localizzazione di istituzioni di carattere internazionale, produzione e diffusione di merci rare legate alla cultura e alla comunicazione3”.

Il pensiero degli anni Novanta punta quindi a fare leva sulle enormi potenzialità attrattive, infrastrutturali e ricettive del territorio in una accezione più allargata, per poter articolare meglio i flussi turistici e rendere più organica quella parte di città, la terraferma, che era stata invece tristemente abbandonata al destino di sobborgo trascurato del centro storico, coltivando una visione d’insieme che non vedeva più contrapposte ‘la città del male’ e ‘la città del bene’ ma un tutt’uno in grado di offrire ai suoi abitanti, e a tutti i portatori di interesse una eterogeneità di servizi.

Il disegno proposto dal piano regolatore seguente, del 1995, aveva quindi preso atto dell’evoluzione della città nel corso del Novecento, “non più riducibile allo schema

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35 centro – periferia, Venezia – Mestre, riconoscendone invece la natura policentrica e l’impossibilità di una sua gestione gerarchica. Ciò non ha comportato la resa all’impossibilità di tenere assieme le diverse parti ma, al contrario, attraverso le scelte urbanistiche è stata strutturata la particolare configurazione di “città bipolare” – città d’acqua e città di terra – che attraverso l’integrazione tra le due parti e la loro reciproca valorizzazione può tornare ad essere una città forte, produttiva, integrata e competitiva”4.

Dopo decenni in cui Venezia aveva rifiutato di confrontarsi con la cultura e l’architettura contemporanea si era quindi deciso di cambiare rotta, non solo e non tanto per una diversa coscienza culturale ma anche per l’imprescindibilità di alcune opere, apparse necessarie e funzionali a realizzare un disegno urbano condiviso.

La nuova centralità urbana, fondata ora sulla localizzazione di nuove funzioni metropolitane nei luoghi di incontro sui bordi della laguna tra città di terra e città d’acqua (dove tradizionalmente erano invece collocate le funzioni non desiderate – industrie, depositi, discariche), aveva fornito l’occasione alla cultura architettonica di realizzare opere come il Parco Scientifico e Tecnologico (fig.19), frutto di riconversione di aree industriali dismesse, o del Parco di San Giuliano (fig.20) , sorto sul sito di discariche industriali, la parziale riqualificazione del Porto di Venezia, il terminal di scambio a Fusina, il ponte di Calatrava.

Si è cercato di riavviare dunque un ciclo in cui Venezia non risultasse più soggetto passivo che “consuma” le risorse ereditate dal tempo senza generarne di nuove, ma anzi, di rientrare in rapporto con la modernità e la contemporaneità giocando sulle possibilità che la città può sfruttare nel collocarsi nella dimensione globale5, intendendo la tradizione non più come modello a cui conformarsi ma come punto di partenza per poterlo superare.

Sono stati molteplici i tentativi di tessere legami più forti tra centro e periferia per poter ridurre l’insularità di Venezia6

attraverso l’introduzione di una logica di “città diffusa” che prefigurasse quella della ‘metropoli’ del Veneto da tempo delineata dai geografi. 4 R. D’Agostino, ivi. 5 Ivi, passim

6 Ad esempio la candidatura di Venezia a rappresentare l’Italia nella corsa olimpica del 2020 o a quella di

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36 Nonostante i segnali iniziali però, la concreta integrazione dell’anima cosmopolita veneziana stenta ancora a potersi radicare portando a due conseguenze negative: la prima è il perdurare di un isolamento che preclude la possibilità di rappresentare una risorsa per tutto il territorio regionale, preferendo ‘navigare a vista’; la seconda è continuare a guardare a Venezia come ad una “prestigiosa e costosa location per eventi vetrina, anziché ad un laboratorio di idee da e per il mondo7”, vivendo così in una condizione ancora sospesa di un non-finito che potrebbe essere ma che ancora non è.