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Dalla comunità alla società: il pensiero degli autori classici della sociologia.

Parte II: Le avventure intellettuali e pratiche della comunità.

2.3 Dalla comunità alla società: il pensiero degli autori classici della sociologia.

Le descrizioni del percorso che dalla comunità conduce alla società sono molteplici e ricorrono in numerosi autori. Si tratta di filosofi, studiosi di dottrine politiche, di protagonisti della vita politica dotati di ambizioni teoriche. Noi faremo capo ad una teorizzazione

142

Reyneri E., L’innovazione produttiva nella rete delle relazioni sociali, Stato e mercato, numero 23, agosto 1988, pp. 157-158.

143

Zurla P., op. cit., p. 13. 144

particolarmente importante che costituisce un capitolo fondamentale della cultura sociologica. Alludiamo alla celebre opera di Ferdinand Tönnies Comunità e società del 1887 e alla Divisione del lavoro

sociale di Émile Durkheim del 1893.

Nel testo dal titolo, appunto, Comunità e società (1887) Tönnies esprime una profonda preoccupazione per gli stravolgimenti economici e sociali apportati dalla Rivoluzione industriale iniziata a metà del Settecento in Inghilterra, attribuendo una connotazione positiva alla comunità (Gemeinshaft), vista come sede dei caldi impulsi del cuore, contrapposti al freddo procedere dell’intelletto della società (Gesellschaft). Nella comunità tutto è inclusione, comprensione, vita organica, mentre nella società prevale lo scambio utilitaristico ed egoistico: gli individui entrano in contatto tra di loro per puro calcolo. Solo nella dimensione comunitaria, esiste empatia e vicinanza spirituale tra gli individui. Secondo Tönnies per formare una comunità non è però sufficiente la prossimità fisica e spirituale dei singoli, ma sono indispensabili fattori come il possesso collettivo della terra, la cooperazione produttiva sociale (il lavoro), un corpo di norme sociali (ordinamento), istituzioni di gestione collettiva (amministrazione) e politica (riunioni), un sistema simbolico e culturale di usanze ritenute sacre. Solo la combinazione di questi elementi crea un forte vincolo di inclusione del singolo nella comunità di appartenenza145. Al contrario, la nascita dell’individualismo, l’affermarsi della proprietà privata, l’estinzione dei beni comuni, il disgregarsi dei legami sociali basati sulla cooperazione e i nuovi rapporti contrattuali fondati sull’utilitarismo sono invece i principi organizzativi della società146

. Facendo ricorso all’analisi di Marx sui modi di produzione capitalistica, Tönnies individua una stretta relazione tra le forme di proprietà (privata o collettiva) e i modi di pensare le forme di convivenza sociale. Il concetto di proprietà rimanda infatti per l’autore

145

Vitale A., Sociologia della comunità, Carocci, Roma, 2007, p. 16. 146

Alla base dei due tipi di relazione sociale Tönnies fa corrispondere due specifiche volontà: la volontà essenziale (wesenwille) e la volontà arbitraria (kurwille). La volontà essenziale reca in sé le condizioni della comunità. Essa è il principio dell’unità della vita e «l’equivalente psicologico del corpo umano» (Tönnies F., Comunità e società, cit., p. 129), ad indicare la complessità della natura umana, di cui rispecchia l’essenza primordiale e totalizzante. La volontà essenziale contiene il pensiero fatto di «sentimenti di esistenza, di istinto e di attività» (Ivi, p. 130) e si distingue dalla volontà arbitraria che invece precede l’attività a cui si riferisce e resta esterna ad essa. Tönnies individua tre forme di vita umana: vegetativa, animale, umana, a cui fa inoltre coincidere, per meglio sottolineare il rapporto profondo con l’organismo umano, tre dimensioni della volontà essenziale: gli impulsi organici del piacere fisico, le forme del costume (le abitudini) e la memoria. La volontà arbitraria si presenta invece come manifestazione di uno stato parziale, successivo e artificiale. Essa rappresenta la società, è contenuta dal pensiero e possiede una propria realtà solo se messa in relazione al soggetto del pensiero. «Con la volontà arbitraria ci si trova davanti ad un tipo di volontà razionale che distingue tra mezzi e fini; i fini poi opportunamente gerarchizzati e collocati in un sistema coerente, costituiscono anche i criteri ordinatori della volontà arbitraria stessa. Come l’altra, anche questa espressione della volontà si distingue in forme semplici, costituite da capacità di deliberazione, discrezione e di concetto, e in forme complesse» (Zurla P., op.

cit., p. 30). Queste ultime sono considerate da Tönnies «come sistemi di pensieri, e

precisamente di intenzioni, di scopi e di mezzi che ogni uomo porta nella testa come suo apparato per comprendere e affrontare con esso la realtà» (Tönnies F., op. cit., p. 153). Formulate in questi termini, le due volontà si pongono come antinomie e le modalità da cui esse scaturiscono sono impulsi del cuore, contrapposti alle attività della testa.

«alle condizioni sociali attraverso cui gli individui accedono ai mezzi materiali della loro esistenza, designando così il diritto, e quindi la possibilità di godimento e di uso delle cose»147. Nella comunità la proprietà è intesa come possesso collettivo e «costituisce un’unità naturale, indivisibile, inalienabile e inseparabile dal suo soggetto»148. Le antiche comunità germaniche, ad esempio, per mezzo della marca149 esercitavano il proprio controllo sul suolo e sulle risorse naturali attraverso una regolamentazione collettiva dei pascoli, dei terreni agricoli coltivati, delle foreste e dei corsi d’acqua. Ad ogni tribù veniva assegnata dai capi tradizionali una porzione di marca (campo o pascolo) in base alle proprie necessità, all’interno della quale i lignaggi, ossia gruppi più piccoli accomunati dalla discendenza, davano forma a villaggi sedentari di autosufficienza, composti da un certo numero di famiglie150. Una volta consegnata, la terra rimaneva possesso della comunità e nessun singolo poteva esercitare su di essa personali diritti di godimento. Le decisioni relative alle attività produttive (il tempo della semina, le varie operazioni agricole, la messa a coltura di un nuovo territorio) venivano inoltre deliberate da un’assemblea. «Anche le risorse naturali delle rimanenti terre erano di uso comune. Foreste, corsi d’acqua e paludi servivano per la raccolta della legna da ardere, del legname da costruzione, della torba; per la raccolta di frutti selvatici e funghi, per la caccia e la pesca»151.

«La famiglia era il componente fondamentale della comunità152 […] e ciascun membro assumeva uno status sociale al quale erano associati diritti e doveri, in particolare il diritto di accesso alla terra quale principale mezzo di produzione e di esistenza»153.

Prolungando il tempo di godimento sul fondo ricevuto, il diritto sulla terra da parte di alcuni membri tese a consolidarsi, tanto che figli e fratelli ne poterono riscattare l’eredità. Questa trasformazione giovò ad alcuni individui che per le importanti funzioni svolte in nome della collettività (sulla base dell’età e o della discendenza), poterono estendere il loro dominio sulla terra rispetto agli altri abitanti del villaggio. Nacque così la Signoria, cioè l’acquisizione, da parte di alcuni, del diritto di uso della marca e della possibilità di distribuire

147

Tönnies F., Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1979, pp. 225-226; Vitale A., op. cit., p. 11.

148

Ivi, p. 11. 149

Uso organizzativo della terra in Germania. 150

«La terra veniva annualmente distribuita dai capi tradizionali secondo un criterio relativo al numero di produttori che coltivavano in cooperazione». Vitale A., Sociologia della

comunità, cit., p. 12.

151 Ibidem.

152 Questa comune esistenza e questo senso sociale di appartenenza dell’individuo al corpo sociale trova concretezza in tre forme di comunità (Tönnies, op. cit., pp. 57-58). La prima è fondata sul legame di sangue (famiglia, parentela, clan) e conduce alla più naturale delle comunità. La forma esteriore della convivenza è qui la casa, come manifestazione della vita familiare e dell’economa domestica. Dal suo ulteriore sviluppo deriva la seconda forma, quella della comunità di luogo: il villaggio. Generata nella coabitazione, questa forma produce il vicinato come carattere generale della convivenza. La terza forma di comunità si realizza nell’amicizia come legame di «spirito», dunque non è connessa a un luogo, non deriva immediatamente dalla proprietà comune della terra. I rapporti di amicizia sono di natura mentale e sono fondati sulla libera scelta». Ivi, p. 17.

153

tale diritto ai propri discendenti. Superato l’antico rapporto comunitario di possesso collettivo della proprietà, «la possibilità di accedere al godimento della terra derivò dall’essere membri di un’organizzazione sociale definita dal rapporto verticale col Signore, al quale spettava un diritto superiore di possesso. Il diritto degli altri membri venne ridotto a un semplice diritto d’uso, concesso dalla grazia del principe. In questo caso, il carattere signorile è ancora strettamente connesso a quello consociativo, ma sono ora poste le condizioni per un ulteriore passaggio derivante dalla possibilità che il Signore potesse decidere di esercitare un diritto esclusivo e individuale sulla marca: la servitù della gleba o un libero rapporto contrattuale d’affitto»154

. Nella società feudale alcuni elementi dell’antico uso organizzativo della proprietà collettiva continuarono a persistere nella forma di terre comuni non coltivate, come i boschi e le selve, dove i servi della gleba potevano esercitare specifici diritti, come quello di legnatico, di pascolo, di accesso all’acqua. Il Signore, inoltre, non vantava la proprietà privata della terra (nel senso attuale del termine), poiché il rapporto tra feudatario e servi comportava ancora diritti e doveri reciproci: il servo era infatti costretto a fornire prestazioni lavorative al Signore in cambio del diritto di essere da esso difeso e di poter utilizzare il prodotto eccedente.

Con l’ascesa della classe borghese, la disgregazione dei rapporti di servaggio, l’affermarsi della proprietà privata e l’utilizzo della terra come puro oggetto di scambio (rispetto all’utilizzo della terra come momento sociale della produzione) e, dunque, con l’avvento della società capitalistica, il concetto di proprietà muta da collettiva a privata, assumendo le caratteristiche non più del «possesso», tipico delle piccole comunità di villaggio, ma del «patrimonio», inteso come «un insieme di singole cose quantitativamente divisibili e destinate ad essere trasferite ad altri attraverso lo scambio»155, regolato dallo strumento giuridico del contratto e per mezzo del denaro. Al particolare legame sociale basato sulla comprensione reciproca (consensus) e associativa relativa al possesso condiviso dei beni comuni, si sostituisce dunque il nuovo legame sociale basato sulla proprietà privata e sullo scambio, connesso all’emergere di rapporti individualistici della società in cui «nessuno concede o dà qualcosa all’altro, se non per una prestazione o di una donazione reciproca»156

. In questo senso, per Tönnies, il modo in cui si accede alle risorse naturali determina la struttura delle relazioni sociali.

Mantenendo la distinzione tra l’antico e il nuovo modello di relazioni sociali, Durkheim (La divisione del lavoro sociale, 1893), considera i due concetti come poli di uno sviluppo storico lineare, che vede le comunità o società semplici protagoniste di un’età premoderna e le società complesse dell’età moderna. Formulato in questi termini, Durkheim, contrariamente a Tönnies, sostiene che l’affermazione della società, in seguito alla dissoluzione della comunità, non

154

Tönnies F., op. cit., pp. 76-79. 155

Vitale A., op. cit., p. 15. 156

comporta necessariamente la rottura dei legami sociali basati su rapporti di cooperazione e di reciprocità, ma ha come risultato la formazione di un nuovo tipo di coesione: la solidarietà organica. Tale vincolo associativo, tipico delle società complesse, nasce dalla

differenza dei suoi membri e dall’affermazione dell’individualità. Con

l’avvento dell’economia capitalista e della divisione del lavoro l’uomo diventa più autonomo, diversificando le sue capacità lavorative e svolgendo un proprio compito specifico e, contemporaneamente, più dipendente dalla società in cui vive. Ciò determina un aumento del livello di solidarietà. Le società complesse infatti sono costituite «non già da una ripetizione di segmenti simili e omogenei»157, come nel caso della solidarietà meccanica, tipica delle società semplici o società precapitalistiche, «ma da un sistema di organi differenti, che hanno ognuno un compito specifico»158. La solidarietà per somiglianza, caratterizzata dalla supremazia della coscienza collettiva su quella individuale, è la solidarietà meccanica: nel senso che «riproduce la coesione che unisce tra loro gli elementi dei corpi bruti in antitesi a quella che costituisce l’unità dei corpi viventi. Il vincolo che lega in tale modo l’individuo alla società è del tutto analogo a quello che collega la cosa alla persona: l’individuo non appartiene a se stesso, ma è «letteralmente una cosa di cui la società dispone» e la sua coscienza «è un semplice annesso del tipo collettivo»159. Nella solidarietà organica, invece, nata dalla divisione del lavoro sociale e fondata sulla differenziazione delle funzioni, «l’individualità del tutto si accresce contemporaneamente a quella delle parti; la società impara sempre più ad agire in perfetto accordo, nello stesso tempo in cui ognuno dei suoi elementi acquista una maggior autonomia»160. «Nelle società superiori inoltre, la coscienza collettiva copre una parte più ristretta del comportamento socialmente rilevante e si esprime in termini astratti e generali, lasciando un margine di libertà e responsabilità assai maggiore al singolo»161. Il simbolo visibile della solidarietà è per Durkheim il diritto: alla solidarietà meccanica fondata sulla somiglianza corrisponde il diritto penale a sanzione repressiva, alla solidarietà organica fondata sulla divisione del lavoro corrisponde il diritto privato, amministrativo e procedurale a sanzione restitutiva. Queste due forme di solidarietà sono conformi a due diverse strutture societarie: la solidarietà meccanica caratterizza la struttura segmentaria dell’orda primitiva (o società semplici), composta da piccole unità sociali chiuse ed elementari, tra loro simili, in cui la coscienza collettiva162 (cioè forti sentimenti, norme e valori

157 Durkheim É., La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, p. 192. 158

Ibidem. 159

Toscano M. A. cita Durkheim, Evoluzione e crisi del mondo normativo: Durkheim e

Weber, Laterza, Roma-Bari, 1975, p. 60. Il tipo collettivo è l’insieme più o meno organizzato

di credenze e sentimenti comuni a tutti i membri del gruppo. Il tipo collettivo di queste unità elementari è l’orda primitiva.

160

Durkheim É., op. cit., p. 145. 161

Ivi, p. 161. 162

In uno studio su Durkheim Toscano specifica: «esistono tre tipi di coscienza: quella sociale, quella collettiva e quella individuale. Tutte e tre variano in qualche modo e certamente le variazioni dell’una investono anche le altre. Si tratta di variazioni

comuni) copre completamente quella individuale. La solidarietà organica caratterizza invece la struttura differenziata delle moderne società industriali contraddistinte dalla divisione del lavoro sociale e dalle regole impersonali del mercato. «Nel passaggio dalle società preindustriali a quelle industriali la coscienza collettiva subisce una trasformazione sia nella forma che nel contenuto, ma non scompare. In condizioni di solidarietà organica cambia innanzi tutto la forma della coscienza collettiva: più si sviluppa la divisione del lavoro più la coscienza collettiva diminuisce in volume, in intensità e grado di determinatezza: essa diventa più debole, più vaga e meno capace di uniformare i comportamenti individuali e di esercitare un rigido controllo sociale»163. I modelli di pensiero diventano più generali e il singolo deve apportare un proprio contributo intellettuale per rendere tali modelli applicabili ai casi particolari. Oltre alla forma, muta inoltre il contenuto: essa diventa infatti più secolarizzata lasciando ampio spazio ai valori individualistici del libero arbitrio. Il singolo rimane legato comunque al gruppo da un sistema di regole nuovo, con una specifica divisione di funzioni, la cui violazione lo fa incorrere in sanzioni di tipo restitutivo (ripristinando cioè lo status quo ante) e non penale.

Durkheim, inoltre, ponendo costantemente al centro delle sue analisi il delicato problema dell’ordine sociale e del consenso che lo legittima, è portato logicamente a riflettere su quale sia il rapporto tra socialismo e individualismo, o meglio tra individuo e gruppo, e come una società conseguentemente possa restare unita. Nelle società tradizionali il consenso era basato su credenze comuni di origine trascendente in grado di tenere fortemente unite le coscienze. A questo proposito Durkheim parla di «consensus universel»164, in quanto l’individualità del singolo rimane completamente assorbita nella vita comunitaria del gruppo. La struttura di questo tipo di società si reggeva infatti su «pochi quadri normativi, i più importanti dei quali erano la parentela,

essenzialmente normative: la coscienza sociale è meno normativa di quella collettiva e può dar luogo a fatti limitatamente normativi come le funzioni specifiche; può cioè distinguersi a sua volta in settori che rimangono comunque fuori dalla coscienza collettiva; la coscienza collettiva raccoglie gli elementi essenziali della coscienza sociale ed è la più normativa, benché con l’andar del tempo perda molti dei suoi contenuti. La coscienza individuale aumenta con il regredire di quella collettiva, ma la sua progressiva normatività è un’emanazione di quella collettiva; tanto è vero che il contratto è sorretto dalla coscienza collettiva. Il nesso tra coscienza individuale e coscienza sociale rimane fin qui oscuro: è lecito dedurre che nella prima misura in cui – come nelle società primitive – la coscienza collettiva tende a coprire tutta la coscienza sociale e la coscienza collettiva è in rapporto inverso con la coscienza individuale, nessuna relazione esiste tra coscienza sociale e coscienza individuale. I tre termini si troverebbero confusi in un solo tipo di coscienza, che a questo punto non si saprebbe come chiamare. Vi è dunque un primo processo che porta a distinguere la coscienza collettiva da quella sociale e poi quella individuale da quella collettiva. Poiché la coscienza individuale è meno normativa di quella collettiva e si avvicina a quella sociale, si dovrà probabilmente ipotizzare un ritorno della coscienza individuale a quella sociale: dopo che la coscienza collettiva ha compiuto la sua opera. Cioè la coscienza individuale si allontanerebbe da quella collettiva, di cui rappresenta il momento culminante, per confluire in quella sociale, che è la più generale». Toscano M. A., Evoluzione e crisi del

mondo normativo Durkheim e Weber, cit., pp.31-32.

163

Sciolla L., Sociologia dei processi culturali, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 30. 164

la religione e la località»165, che inglobavano l’individuo facendolo sentire parte integrante del tutto. Gli individui che risiedevano in una specifica località spesso appartenevano alla medesima parentela e condividevano le stesse credenze. La religione rivestiva ogni aspetto dell’esistenza umana. Lo spirito razionale della modernità compie però un’opera di secolarizzazione e di rottura con il finalismo delle società tradizionali. Le credenze religiose vennero relegate infatti alla vita privata dell’uomo e persero la loro importante funzione di coesione collettiva delle coscienze.

L’affermarsi dell’economia capitalistica e il nuovo tipo di organizzazione del lavoro, basato sulla massima mobilità degli individui, mettono in crisi anche le istituzioni di parentela e della località. L’individuo lascia infatti i villaggi ed emigra nelle città per lavorare nelle grandi fabbriche appena formate, abbandonando definitivamente la sua appartenenza comunitaria, basata su un tipo di economia agricola, commerciale e artigianale. Il nuovo modello di organizzazione sociale pone al centro del sistema non più i gruppi e le associazioni, bensì l’individuo con la sua libertà di iniziativa economica e concorrenziale. Le credenze religiose furono invece messe in discussione a seguito dello sviluppo del pensiero scientifico.

Ne La divisione del lavoro sociale Durkheim affrontò il tema della nascita dell’individualismo nella moderna società industriale chiedendosi come fosse possibile che una società sempre più specializzata in funzioni e mestieri fosse in grado di mantenere la sua unità e sviluppare legami di stretta cooperazione tra i singoli.

Inserendosi nel dibattito sulla divisione del lavoro sviluppatosi nel corso dell’800, Durkheim non pone il processo di livellamento e la perdita delle abilità lavorative come argomento principale delle sue analisi, ma identifica la divisione del lavoro come il tessuto connettivo della società moderna, sottolineando che «benché la divisione del lavoro non sia un fenomeno recente, soltanto alla fine del secolo scorso le società hanno cominciato a prendere coscienza di questa legge che fino a quel momento avevano subito quasi a loro insaputa.

Analizzando la moderna società industriale, Durkheim si rende perfettamente conto delle difficili condizioni di esistenza di una classe operaia costretta a ritmi lavorativi massacranti per salari irrisori ma, anziché imboccare la strada della critica alla società borghese, risponde al tema dell’alienazione utilizzando le categorie di «normale» e «patologico». É vero che, sostiene Durkheim, gli operai non hanno ancora preso coscienza del proprio ruolo lavorativo all’interno dell’organismo sociale, ma questa è solo una situazione patologica causata dal diffuso stato di anomia che non permette agli individui di godere degli effetti positivi della divisione del lavoro. Tale condizione anomica è il frutto di crisi cicliche dell’economia capitalistica, dovute a una cattiva distribuzione della ricchezza tra le classi ed all’estrema rapidità delle trasformazioni sociali che non

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permettono ai vari interessi in conflitto di equilibrarsi, generando così nuove regole.

Durkheim suggerisce che tali problemi possono essere risolti con una serie di riforme sociali e con la creazione delle corporazioni, cioè dei corpi intermedi composti dall’associazione di più individui con interessi comuni che, oltre a regolare le attività dei propri iscritti, garantiscono al lavoratore un certo grado di interazione con gli altri lavoratori, rendendolo al contempo consapevole di servire a qualcosa che lo oltrepassa. Al pari delle associazioni degli artigiani medievali