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La concezione della folla nella scuola italiana di criminologia

Elena Bovo

3. La concezione della folla nella scuola italiana di criminologia

In Italia la riflessione sulla folla interessa diversi esponenti della scuola di crimi- nolgia, tutti allievi o comunque ispirati da Cesare Lombroso, positivsta, socialista, fondatore dell’antropologia criminale. Anche per Lombroso il riferimento ai racconti sulla Rivoluzione francese è un elemento essenziale per decifrare il comportamento delle folle. Se i fenomeni d’imitazione collettiva sono al centro dei suoi interessi sin dalla giovinezza41, è in Il delitto politico e le rivoluzioni (1890) che egli teorizza il

carattere duplice della folla: da un lato una forza regressiva, dall’altro progressiva, infatti, – pur non riconoscendole un’autonomia intellettuale – egli la considera un nuovo soggetto politico capace di ciò che l’individuo da solo non può fare: denunciare le ingiustizie di cui soffre una classe sociale e gli abusi di potere della classe dirigente. Questa dualità inerente alla concezione lombrosiana della folla è stata sintetizzata da Delia Frigessi con l’espressione “folla bifronte”42, da un lato la folla può diventare pro-

tagonista del progresso, dall’altro essa esprime perfettamente la teoria dell’atavismo cara a Lombroso, la teoria del ritorno ad un passato arcaico, della liberazione degli istinti repressi dall’educazione e dalle norme sociali. Nei due casi tuttavia, è l’istinto dell’imitazione ad essere l’elemento caratterizzante, ma non è piú visto solo come

40 Tarde, La philosophie pénale, cit., p. 29.

41 Cfr. C. Lombroso, «Influenza della civiltà su la pazzia e della pazzia su la civilità», Chiusi, Milano 1856.

ciò che favorisce il contagio degli istinti crudeli che si diffondono in modo epidemi- co nella folla. Esso viene anche visto in senso positivo: senza la forza di coesione, e soprattutto senza l’istinto dell’imitazione, le idee, le passioni, le intuizioni di alcuni individui isolati non potrebbero in nessun modo né diffondersi né concretizzarsi in azioni politiche essenziali al progresso ed alla costituzione di una nazione fondata su dei principi di equità sociale. L’istinto d’imitazione, la coesione, la perdita della personalità cosciente, la liberazione degli istinti e delle passioni, tutti questi elementi che permettono di dimostrare come, in folla, l’individuo normale possa trasformarsi in un criminale, possono allo stesso tempo servire una causa superiore e collettiva, trasformando cosí la folla da misoneista in un’entità capace di denunciare l’ordine e gli abusi della classe politica al potere.

In questi stessi anni la riflessione sulla folla viene approfondita ed elaborata in un contesto giuridico da due allievi di Lombroso appartenenti alla scuola italiana di criminologia: Enrico Ferri e Scipio Sighele. Il loro contributo è stato decisivo per la formalizzazione della psicologia delle folle come disciplina. È ad Enrico Ferri che dobbiamo la definizione della psicologia collettiva, di cui la psicologia delle folle fa parte. Sin dal 1881 egli aveva sentito la necessità di creare una nuova scienza che potesse analizzare “le manifestazioni dell’attività d’un gruppo d’uomini […] più o meno avventizie”43, come per esempio “le vie pubbliche, i mercati, le borse, i teatri,

i comizii, le assemblee, i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni”44. La psicologia

collettiva avrebbe trovato il proprio posto tra “la psicologia, che studia l’individuo”45

e “la sociologia”46 poiché, precisa Ferri, vi è “qualche differenza nelle manifestazioni

dell’attività di un gruppo d’uomini e di tutta la società”47.

Seguendo quest’intuizione di Ferri, una decina d’anni più tardi, Sighele proporrà la prima definizione della “psicologia della folla”48. La folla, nota Sighele, porta al pa-

rossismo il carattere provvisorio ed accidentale di una riunione di esseri umani. Essa costituisce infatti un aggregato “per eccellenza eterogeneo”49 – composto da individui

di tutte le età, dei due sessi e di tutte le condizioni sociali, di tutti i gradi di mora- lità e “per eccellenza inorganico”50 perché si forma senza un precedente accordo e

43 E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, (1881), Zanichelli, Bologna 1884, (seconda edizione), p. 351, nota 1. La citazione è tratta dall’edizione del 1884, ma la stessa frase si ritrova nell’edizione del 1881 (pp. 57-8), nota 2.

44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem.

48 Sighele è verosimilmente il primo ad aver parlato di “psicologia della folla”. Egli usa l’espressio- ne al singolare, l’espressione al plurale si diffonderà a partire della Psychologie des foules di Le Bon. (Su questo punto cfr. M. Borlandi, “Tarde et les criminologues italiens de son temps [ à partir de sa correspondance inédite retrouvée]“, in “Gabriel Tarde et la criminologie au tournant du siècle“, Revue

d’Histoire des Sciences humaines, Presses Universitaires du Septentrion, Paris 2000, p. 15).

49 Sighele, La folla delinquente, Bocca, Torino 1891, p. 12, in corsivo nel testo. 50 Ibidem.

all’improvviso. “La psicologia della folla […] rappresenta il grado più acuto”51 della

psicologia collettiva proprio perché la folla, ancor più delle altre riunioni di esseri umani, sfugge totalmente alle leggi della sociologia e della psicologia dell’individuo, il suo comportamento deve esser interpretato alla luce di altre leggi psicologiche. Come si può notare da quanto detto, non ci sono considerazioni razziali nel modo in cui Sighele analizza la folla, contrariamente a Le Bon egli la presenta piuttosto come un’entità “transnazionale” avente gli stessi caratteri di eterogeneità e di inorganicità qualisiasi sia la nazione a cui essa appartiene.

Nell’analizzare la folla Sighele, come Ferri, aveva una finalità pratico-giuridica ben precisa: la questione urgente che si poneva ai giuristi della scuola italiana di crimi- nologia, influenzati dall’evoluzionismo e dal socialismo, era di mettere in questione almeno parzialmente il principio di responsabilità nei delitti commessi durante gli scioperi o le manifestazioni di protesta, molto frequenti all’epoca, il loro scopo era di dimostrare che gli autori dei delitti erano spinti alla violenza dall’influenza alienante della folla. Si trattava di una posizione assolutamente inedita perché la scuola penale classica52, nata alla fine del XVIIIe secolo ed allora ancora in vigore, attribuiva sem-

pre la responsabilità all’individuo autore del delitto53 e soprattutto considerava il re-

ato come un ente giuridico dotato di una densità e di un’autonomia concettuale, esso costituiva, prescindendo dall’autore e dalle sue caratteristiche, l’unico oggetto della scienza penalistica. Invece, la scuola criminologica positivista – proprio partendo da un’analisi psicologica – elevava a principio giuridico l’idea che un delitto commesso da un individuo in folla non potesse venir giudicato come se fosse stato commesso da un individuo isolato.