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Folla e rivoluzione

Elena Bovo

1. Folla e rivoluzione

La prima domanda da porsi quando si vuole fare la genealogia della psicologia delle folle è: quando è nata la concezione della folla che tale disciplina presuppone?

Nella filosofia moderna (XVIIe-XVIIIe secoli), la folla viene teorizzata solo negati- vamente, ossia come ciò che essa “non è”, o “non è ancora”, come una fase o un’en- tità che precede la nazione e lo stato. Essa è ciò che (da un punto di vista più logico che temporale) non è ancora un “popolo”. Hobbes, che ispirerà il pensiero politico

10 S. Sighele, La folla delinquente, Torino, Bocca, 1891.

11 Michela Nacci ha individuato tre grandi momenti della psicologia collettiva, il primo va dalla fine del XIXe secolo all’inizio del XXe ( con Gustave Le Bon, Gabriel Tarde, Scipio Sighele), il secondo dagli anni Venti agli anni Trenta del XX secolo (con Freud e Ortega y Gasset), il terzo ha luogo nel secon- do dopoguerra (con la Scuola di Francoforte). In questo scritto mi concentrerò nel primo momento, quando, come scrive Michela Nacci, l’oggetto (spesso polemico) di questa nuova disciplina “era rap- presentato […] dalla società europea in transizione da una democrazia elitaria a una democrazia di massa”. (M. Nacci, Il volto della folla. I tre tempi della psicologia collettiva, in Il Mulino, Bologna marzo/ aprile 1997, p. 233).

dei XVIIe e XVIIIe secoli, definisce “molti uomini” non con il termine folla, ma con quello di “moltitudine” (multitudo)12. Quest’ultima non può essere considerata come

“qualcosa di unico”13 perché ogni uomo che ne fa parte possiede, e soprattutto con-

serva, “la propria volontà, e il proprio giudizio, circa tutte le cose da proporre”14. E da

questa “moltitudine”, che Hobbes definisce “quasi fango e feccia umana”15 non potrà

mai venire un’azione “singolare”, ma solo “tante azioni quanti sono gli uomini”16 che

la compongono. Solo quando questa moltitudine disordinata, debordante, informe come il fango, malleabile come l’argilla, si nega, cioè solo quando ogni individuo che la compone, rinuncia al proprio diritto di fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per preservarsi, e delega ad un uomo o ad un’assemblea il potere di compiere quanto è necessario per il bene collettivo, solo allora essa diventa un’unità, un “popolo”: “un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica”17.

A partire dai racconti sulla Rivoluzione francese, fatti dagli storici e dai filosofi francesi del XIXe secolo, nasce una nuova concezione della folla, essa sarà determi- nante per la nascita della psicologia delle folle. Diversamente dalla definizione della “moltitudine” data da Hobbes, la folla rivoluzionaria nel XIXe secolo appare, certo, come una “moltitudine” disordinata, argillosa, informe, malleabile, ma si tratta di una “moltitudine” che, per cosí dire, esce di casa, abbandona il proprio ambito privato, invade, si ammassa, si intassa, nelle strade, nelle piazze, nelle vie. Essa appare dotata di una sua, se non forma, unità e di una volontà che trascende le individualità che la compongono. Eroica e crudele allo stesso tempo, la folla rivoluzionaria, “moltitudine” informe che invade gli spazi pubblici, è caratterizzata proprio dal fatto di avere una costituzione mentale unitaria perché non riflette la psicologia e la volontà di ciascun individuo che ne è parte. Ma questa unità è sufficiente per poterla definire un “popo- lo”? Per costituire il cemento di una nazione? Jules Michelet, in L’histoire de la Révol-

ution française18, scritta tra il 1847 e il 1853, ci fornisce un’immagine della folla rivo-

luzionaria contraddittoria e ambivalente che in un certo senso riproduce – ma anche permette di superare – l’opposizione tra “popolo” e “moltitudine”. Da un lato, egli presenta la folla del 14 luglio in marcia verso l’odiata prigione della Bastiglia, emble- ma “del dispotismo capriccioso, dell’inquisizione ecclesistica e burocratica”19, come

l’incarnazione del popolo. Unita, eroica, dotata di un buon senso istintivo, essa non ha bisogno di un eroe che la guidi, perché è lei la protagonista della Rivoluzione. Come

12 Sulla concezione della folla nella filosofia moderna e sul cambiamento provocato dalla Rivoluzio- ne francese, cfr. F. Brahami, “Le temps de la foule. Les effets de l’expérience révolutionnaire française», in E. Bovo (a cura di), La foule, PUFC, Besançon 2015, pp. 29-53.

13 T. Hobbes, De Cive, (1642), trad. Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 2014, p. 129. 14 Hobbes, De Cive, op. cit., p. 129.

15 Ivi, p. 169. 16 Ivi, p. 130.

17 Ivi, p. 188, in corsivo nel testo.

18 J. Michelet, L’histoire de la Révolution française, (1847-1853), Laffont, Bouquins, Paris 1979. 19 Ivi, p. 146. Sulla concezione della folla rivoluzionaria in Michelet, cfr. A. Aramini, «Les deux con- ceptions micheletiennes de la foule révolutionnaire. De la prise de la Bastille aux massacres de Sep- tembre», in E. Bovo (a cura di), La foule, op. cit., pp. 55-71.

scrive Michelet, anche se nella prigione della Bastiglia “gli uomini del popolo non en- trarono quasi mai”20 (poiché essa era essenzialmente destinata ai libres esprits), una

voce ancora più forte del sentimento di giustizia parlava al loro cuore era, “la voce dell’umanità e della misericordia”21. Dall’altro lato, dopo gli avvenimenti del 1848

di cui Michelet fu testimone attivo, quest’immagine lascerà il posto, specialmente quando descriverà i massacri del Settembre 1792, ad una folla disordinata, informe e manipolabile che ha perduto il suo buon senso istintivo, potenzialmente eroica o criminale, in funzione della presenza o dell’assenza di un eroe capace di illuminargli la strada, ed è proprio “un uomo veramente grande, un eroe”22 che mancò alla folla

di quel Settembre. Essa, benché non incarni il popolo, rappresenta l’altro volto della folla rivoluzionaria allo sbando, abbandonata ai propri istinti violenti perché priva di una guida capace di illuminargli il cammino. La folla, con Michelet, diventa il soggetto rivoluzionario, può costituire l’istanza creatrice della nazione – una nazione che, con- trariamente a quella di Le Bon, non è fondata sul principio deterministico dell’unità razziale – ma anche dissolutrice23.

Nella fase che precede e prepara la formalizzazione della psicologia delle folle in quanto scienza, è certamente il secondo aspetto messo in luce da Michelet che pri- meggia: l’elemento dissolutivo/distruttivo. Esso verrà messo efficacemente in luce da Hyppolite Taine. In Les origines de la France contemporaine (1875-1893)24, testo

scritto subito dopo gli avvenimenti traumatici della Comune (1871), Taine analizza dal punto di vista psicologico il modo di funzionamento della folla rivoluzionaria e cerca di individuare le leggi psicologiche generali che ne determinano il comporta- mento. La folla rivoluzionaria è irriducibile alla “moltitudine” poiché le persone che la compongono non conservano la loro volontà, ma é irriducibile anche al concetto di “popolo” che appare in Hobbes o, secondo altri criteri, in Michelet. Infatti, pur ancora informe e malleabile come la “moltitudine”, essa ha un’unità che si riconosce essen- zialmente nella volontà di distruzione delle istituzioni, ma nessuna istanza razionale, nessun patto, nessun accordo l’ha costituita in quanto tale, e soprattutto nessun buon senso istintivo la anima. La folla del 1789 è per Taine la vera attrice della Rivoluzio- ne: prodotto del crollo dell’Ancien Régime e istanza distruttrice delle istituzioni che lo reggevano. Da quali profondità è sorta questa folla, prima muta ed invisibile? Una moltitudine di esseri umani caratterizzati da un destino comune si è trasformata in folla rivoluzionaria a partire dal momento in cui, attraverso le assemblee provinciali e di parrocchia, i contadini, i servi, gli umili lavoratori, sedendosi accanto ai signori, hanno ascoltato e realizzato per la prima volta “l’enorme quantità di tasse”25 che

pagavano. Essi hanno dunque iniziato a rendersi conto e a far circolare l’idea che i

20 Michelet, L’histoire de la Révolution française, cit., p. 146. 21 Ibidem.

22 Ivi, p. 818.

23 Per un’analisi della concezione della nazione in Michelet, rinvio all’articolo di Aurélien Aramini, “La concezione della nazione di Jules Michelet”, nel presente volume.

24 H. Taine, Les origines de la France contemporaine, (1875-1893), Laffont, 2 vol., Paris 1986. 25 Taine, Les origines de la France contemporaine, (vol. 1) cit., p. 319.

mali di cui ciascuno di loro soffriva erano gli stessi di tutti coloro che si trovavano nella stessa condizione. Non erano più ormai individui isolati gli uni dagli altri, ma parte di una “moltitudine oppressa”26. E tuttavia per Taine questa presa di coscienza

è solo illusoria. La classe che vive del lavoro delle proprie braccia non ha nessuna capacità di concettualizzazione, nessuna autonomia intellettuale. Il popolo é ridot- to ad essere un “colosso cieco, esasperato dalla sofferenza”27, se non è controllato e

compresso da delle misure violente e coercitive, non può far altro che abbandonarsi ai propri istinti, regredire verso degli stadi anteriori dell’evoluzione, ridiventare in- somma “l’animale primitivo”28 che fu, “la scimmia che digrigna i denti, sanguinaria e

lubrica, che uccide ridacchiando”29. In verità, per Taine, il ritorno alla barbarie ori-

ginaria non caratterizza solo il popolo o la folla rivoluzionaria, e questo elemento è derminante per capire la psicologia delle folle. L’essere umano non è né ragionevole, né buono per natura. Di fronte alla natura, universale ed imperiosa, la ragione ha ben poca autorità. Essa conta già molto poco nei “nostri filosofi o politici”30 constata

Taine, figuriamoci l’infimo posto che essa può avere nei “cervelli grezzi o semi-grez- zi”31. Per lui qualsiasi persona insomma (sebbene alcune categorie sociali siano più

predisposte di altre) se privata delle norme, delle costrizioni, degli obblighi morali, diventa anonima, pura espressione dei propri istinti. E nella folla ogni legge ed ogni controllo sociale svaniscono.

Quest’idea della regressione come tratto distintivo della folla rivoluzionaria, espri- me in parte, indubbiamente, il trauma vissuto da Taine all’epoca della Comune. Ma gli era anche ispirata dalla teoria dell’ ”atavismo” molto presente nel vocabolario scien- tifico e più in generale nella cultura europea della seconda metà del XIXe secolo. Già usata dai botanisti della fine del XVIIIe secolo per qualificare la riapparizione dei ca-

ratteri propri della varietà selvatica originaria in certe piante coltivate artificialmen- te, l’ipotesi dell’atavismo fu poi ripresa da Darwin. Già in L’origine delle specie (1859), egli la menziona per spiegare, in alcune razze animali, la riapparizione di un carattere anatomico-fisiologico antico e ormai scomparso, rimasto fino a quel momento allo stato di latenza32. In seguito, il termine “atavismo”, una volta esportato dalla biologia

verso altri campi disciplinari: la psicologia, la sociologia, la filosofia, la storia, indi- cherà la sopravvivenza o il ritorno di comportamenti o caratteri arcaici nell’uomo.

26 Ibidem. 27 Ivi, p. 329. 28 Ivi, p. 351. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 178. 31 Ibidem.

32 Cfr. C. Darwin, L’origine des espèces, (1859), chapitre V, trad. E. Barbier, Flammarion, Paris 2008, pp. 219-20. (Darwin riprenderà l’ipotesi dell’atavismo anche in La variazione degli animali delle piante