Barth alla fine degli anni Sessanta dopo aver rivoluzionato il paradigma sull’etnicità, focalizzando l’attenzione dell’osservazione etnografica sui meccanismi di mantenimento di identità nelle società interetniche stabili, ha innescato tutta una serie di dibattiti teorici che hanno affinato le teorie antropologiche e gli strumenti di analisi critica, spostando di fatto il focus dalla ricerca delle costanti e delle variabili in un quadro complessivamente uniforme e statico della natura/cultura umana, alla constatazione della realizzazione delle tante possibili configurazioni derivanti dell’esercizio delle pratiche identitarie da parte di soggetti in continuo movimento, reale e virtuale, che esperiscono le differenze altrui contestualmente ai sistemi biologici, psicologici, sociologici e culturali acquisiti, a quelli innestati, o semplicemente attraversati, o anche immaginati.
64 C. Geertz, 1987, (traduz. ital.), Interpretazioni di Culture, Bologna, ed. Il Mulino, p. 64. 65 Mi riferisco al presupposto elaborato da Geertz in interpretazioni di Culture, p.66, secondo cui
l’interpretazione culturale non può considerare solo fatti già accaduti, ma deve necessariamente <<[…]
La teoria rivoluzionaria di Barth sui confini etnici, ma pur sempre debitrice della tradizione
sostanzialista delle culture, ha fatto da “sponda” analitica e narrativa per tutte le successive
dissertazioni sull’esercizio e sul significato sociale, culturale e simbolico dell’etnicità in un mondo in rapida trasformazione, dove le caratteristiche etniche e culturali, inclusa la cultura di provenienza dell’antropologo, da facilmente identificabili e localizzabili, hanno cominciato a sovrapporsi e a fondersi in tanti vortici tanto da rendere impossibile l’azione di estrazione al fine di comprenderne contenuti e confini, tanto meno origini e autenticità. La configurazione
sostanzialista del gruppo etnico, come unità privilegiata per la coincidenza tra razza, cultura e
lingua66, come anche la stabilità interetnica studiata da Barth, lasciano il posto all’instabilità e alla crisi di certezze identitarie per effetto della deterritorializzazione innescata dal fenomeno della globalizzazione, dove sovrapposizioni e intersecazioni identitarie producono nuovi scenari di umanità e nuove esperienze di contatto culturale e relative politiche normative, dai risultati multiformi e mutevoli, capaci di rendere inadeguate le classiche categorie epistemiche legate alla sostanzializzazione dualistica dell’identità/alterità e alla
relativizzazione delle differenze, e rispetto a cui, l’antropologia, tra gli anni Settanta e
Novanta, prende piena consapevolezza, partendo proprio da una svolta riflessiva e seguendo la sua naturale inclinazione: quella di essere un “sapere mobile e di frontiera”67. Quest’ultima definizione utilizzata da Ugo Fabietti nell’introduzione ad un suo lavoro del 199968, non è affatto casuale, anzi è doppiamente pertinente. Essa è la constatazione della trasformazione del mondo in un patchwork, in un modello più pluralistico dei rapporti tra i popoli della terra dove quindi la rigidità dei confini viene superata dalla maggiore permeabilità delle frontiere, i
66 Così come prospettato da R. Narroll, Ethnic unit Classification, in Current Anthropology, vol. 5, 1964, citato
da F. Barth in Gruppi etnici e i loro confini, a cura di V. Maher, 1994, p 35.
67 Nel descrivere l’evoluzione del pensiero antropologico come “sapere mobile” e “sapere di frontiera”, così
come “sapere bicefalo”, legato cioè sia all’esperienza che all’interpretazione, il riferimento è Ugo Fabietti, 1999, Antropologia Culturale, Esperienza ed Interpretazione, Roma-Bari, ed. Laterza, p. 5-8.
68 U. Fabietti, 1999, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Roma- Bari, ediz. Laterza, p.3-8;
cui effetti non ricadono solo sui soggetti che vivono nel mondo, ma ricadono anche sulla teoria che cerca di analizzare le trasformazioni in atto, diventando anche per questo motivo un “sapere di frontiera”69. Non è neppure casuale che l’autore nel presentare la maggiore pertinenza del concetto di frontiera alla natura auspicata dell’incontro tra identità e alterità, parta proprio dalla critica al concetto di confine proposto da Barth e al suo significato epistemologico, prima ancora di descrivere le trasformazioni reali e oggettive trascorse nell’arco temporale di un ventennio nella stessa area geografica, speculari ai cambiamenti dell’uso pluri-referenziale del concetto più aperto di frontiera rispetto a quello dualistico-
oppositivo di confine.
L’analisi critica proposta negli anni Novanta da Ugo Fabietti, nel suo lavoro di ricostruzione del concetto di identità etnica70, da cui abbiamo già largamente attinto, merita un adeguato
approfondimento soprattutto per l’efficacia argomentativa delle sue analisi, che partendo proprio dall’esame della teoria di Barth, e avendo compiuto quasi vent’anni dopo ricerche etnografiche nello stesso territorio (confine tra Pakistan e Afghanistan), aggiunge un tassello alla narrazione e alla descrizione di una composizione multi-variegata della presenza umana, problematizzando la natura, i significati e la dinamicità dei contatti interetnici71. È eloquente, in questo senso, il passaggio scritto da Fabietti rispetto ai cambiamenti ad uso referenziale che lui stesso riscontra sulla frontiera tra il Baluchistan meridionale e il Pakistan, rispetto alla composizione classica riferita da Barth:
<<[…] mi sono ritrovato a lavorare in un contesto caratterizzato, oltre che dalla compresenza di “gruppi etnici” (Baluch, Afghani, Pathan, Penjabi, Hazara, Brahui), da una pletora di personaggi che poco avevano a che fare con una storia locale così come la si sarebbe potuta intendere in senso tradizionale: antropologi (io) e archeologi occidentali […], medici inglesi […], ingegneri americani […],
69 U. Fabietti, 1999, op.cit. 70 Ibid.
missionari cristiani, funzionari e militari provenienti dal Pakistan, contrabbandieri e corrieri della droga, […]>>.72
Fabietti interpreta, partendo da una siffatta esperienza etnografica, la necessità di mettere a frutto il dibattito antropologico sull’etnicità rispetto alle trasformazioni empiriche, simboliche e cognitive dell’ecumene globale, determinate in modo congiunto dalle svolte epocali del “sistema-mondo”73 e dal modo di guardarle e interpretarle ai fini teorici.
Egli, pur riconoscendo all’antropologo norvegese l’efficacia dell’osservazione etnografica nell’aver messo per la prima volta sotto la lente di ingrandimento i processi e i meccanismi che si sviluppano dalla coesistenza di due o più culture differenti occupanti lo stesso territorio, assume una posizione critica sia verso la rigidità di una costruzione tipologica come quella paventata dalle variabili socio-ecologiche dell’interrelazione tra gruppi differenti, sia verso l’eccessiva e anche pericolosa attribuzione valoriale delegata ai confini soprattutto in relazione ai rimandi epistemologici ed etnografici del concetto di mantenimento dell’identità. A questo proposito la sua eloquente domanda <<cosa accade quando il confine non viene
mantenuto ma l’interazione tra due gruppi etnici produce delle identità che non sono coincidenti né con quella dei componenti dell’uno né con quella dei rappresentanti dell’altro?>>74 rivela tutti i limiti della prospettiva di Barth, <<[…] troppo debitrice di un’idea di separatezza tra ambiti culturali differenti>>75; svela, inoltre, una realtà diversa,
costituita da interazioni sociali dagli inneschi difficilmente prevedibili, e contemporaneamente annuncia il ricorso, evidentemente più idoneo e realistico, al concetto di
frontiera per spiegare e teorizzare i fenomeni di meticciamento e di sincretismo culturale.
72
U. Fabietti, 1999, op.cit p. 6,7.
73 I. Wallerstein, 1979, The Capitalist word economy; autore citato da U. Fabietti, 1999, op. cit., pag 266 e da
molti altri antropologi che si focalizzano sull’interpretazione delle connessioni tra culture alla luce degli effetti della globalizzazione.
74 U. Fabietti, 1998, op. cit. p. 104 75 Ibid. p. 111
Partendo da presupposti differenti, anche A. Epstein, negli stessi anni di ricerca di Barth, aveva espresso delle perplessità rispetto alla pretesa di universalità del nuovo paradigma sull’etnicità, senza, tuttavia, proporre un’ipotesi sostitutiva. Epstein partendo dalla sua dolorosa esperienza biografica di ebreo costretto ad emigrare negli Stati Uniti, confutava a Barth la scelta di aver preso in considerazione i processi etnici solo in contesti socio-ecologici consolidati, e non anche in quelli in cui << […] l’etnicità (aveva) rappresentato una risposta
a condizioni sociali in mutamento>>76 e ancor meno in quelli in cui il mantenimento dei
confini risultasse problematico a causa dell’erosione culturale presente soprattutto in quei gruppi con un’identità sospesa, se non spaccata, costretti a vivere esperienze diasporiche o di marginalità, proprio come quelle che lui racconta di aver vissuto e osservato nei quartieri ebraici di New York. Epstein, tuttavia, pur contemplando una natura relazionale dell’etnicità, non oltrepassa il tracciato epistemologico sostanzialista dell’identità etnica e della ricerca di un’originaria autenticità, confermando e convalidando il ruolo da attribuire ai confini etnici: quello di separare culturalmente e di stigmatizzare le differenze.
Il concetto di frontiera e di “sapere di frontiera”77 che, invece, quasi vent’anni dopo, propone
Fabietti alla luce dei cambiamenti reali nelle relazioni umane e nelle scienze umane, condensa e semplifica78 le riflessioni antropologiche in auge79, confermando ed enfatizzando la necessità di superare la strettoia epistemologica indotta dalla logica binaria del concetto di
confine, in una prospettiva multivariata e più dinamica dell’“interazione tra identità
76 A. Epstein, 1978, op. cit., p. 174; il corsivo tra parentesi è il mio.
77 U. Fabietti, 1999, op. cit., pp.3-8; L’autore intitola l’introduzione all’opera: Antropologia come frontiera 78 Con questo termine intendo la capacità di rendere più facilmente accessibile, e non più riduttiva, la
comprensione complessa delle varie ipotesi e teorie antropologiche che tra gli anni ’70 e ’90 si focalizzano sul tema dell’identità/alterità.
79 Mi riferisco agli antropologi che tra gli anni ’70 e ’90 si focalizzano sul tema del contatto culturale e sulle
trasformazioni identitarie, come A. Appadurai, J. L. Amselle, É. Glissant. Fabietti, inoltre, nell’elaborare il concetto di frontiera, soprattutto nella sua veste referenziale-etnografica si appoggia sui lavori etnografici dello storico Owen Lattimore, compiuti in Cina tra il 1920 e il 1960.
diverse”80, coerentemente allo “slittamento semantico”81 che il termine subisce tra gli anni ’70 e ’90, per allinearsi sia alle mutati condizioni del “sistema-mondo”82, sia ai nuovi sviluppi teorici della ricerca antropologica83. Diversamente dal concetto di confine, così come sviluppato da Barth, il concetto di frontiera << […]esprime non tanto la linea di separazione
tra due territori differenti, quanto il luogo di incontro, di contatto tra società diverse; la frontiera è […] qualcosa che, nel momento in cui separa, unisce>>84. Fabietti per spiegare
meglio questo concetto apparentemente paradossale, propone di immaginare la frontiera come una “terra di nessuno”85 posta tra società culturalmente diverse, che, nonostante le proprie diversità, coesistono dando luogo a processi di scambio, proprio in quella zona, non necessariamente fisica, liminale a entrambe. Gli scambi derivanti dall’interazione determinano continui adattamenti e influenze reciproche che da una parte compromettono l’ideale perennista di un’autentica originalità culturale e la ricerca della stessa, dall’altra possono “assumere delle forme inedite rispetto ai luoghi di origine delle persone coinvolte”86; in altre parole, possono palesarsi in configurazioni sociali meticce o ibride oppure possono innescare processi omologanti o, al contrario reattivi; in ogni caso tanto imponderabili da rendere inapplicabile e ormai desueta la tendenza a stigmatizzare la diversità etnica e culturale, oltre a far vacillare la teoria di Barth che, pur prevedendo “continui attraversamenti
80 U. Fabietti, 1998, op. cit., p. 95. 81 Ibid. p.104.
82 Vedi nota 72.
83 Dopo la caduta del muro di Berlino, i cambiamenti della ricerca antropologica si palesano in una vera e
propria specializzazione della disciplina, proiettata allo studio dei confini sia geopolitici che metaforici e che prende il nome di Border Studies.
84 U. Fabietti, 1998, op. cit., p.105. 85
Ibid.
del confine”87 con un’effettiva “osmosi di personale”88, non prende in considerazione possibili “situazioni di ibridazione, meticciamento e sincretismo”89.
Il confine in ogni caso e a prescindere dagli effetti che esso opera nelle persone che lo vivono, resta il luogo privilegiato per la pratica dell’identità e della diversità, che rappresentano i cardini ontologici ed epistemologici della riflessione antropologica; a questo proposito è eloquente la definizione che il Prof. Carlo Belli da in una delle sue pubblicazioni del 201590:
<<[…] La frontiera è un’area dove è intenso lo scambio, il confronto, la competizione e dove predomina l’incertezza, l’instabilità, il cambiamento: in altre parole questo è il luogo delle differenze […]>>.
Essendo l’antropologia la scienza più disposta rispetto alle altre scienze sociali, ad “attraversare” i confini per osservare più da vicino l’alterità culturale, sempre per una questione di coerenza epistemica o per “l’utilità del suo discorso” 91, essa viene definita
proprio da Fabietti, che elabora l’ampliamento del significato di frontiera per adottarlo come riferimento semantico al suo modo di concepire l’evoluzione del pensiero antropologico, un “sapere di confine/frontiera”92. Se dunque il posizionamento dell’antropologia è lungo le linee
di frontiera, quello che accade lungo le stesse linee si traduce realmente e metaforicamente in nuove genealogie identitarie che interrogano il sapere antropologico, inducendolo a compiere delle nuove riflessioni rispetto al proprio status epistemologico; Fabietti a questo proposito scrive in due passaggi differenti dello stesso lavoro:
<<L’antropologia è […] un’altrove metaforico che mette alla prova le certezze
della tradizione culturale da cui proviene, una specie di “figlia ribelle” e niente
87 F. Barth, 1969, op. cit. 88 Ibid.
89 U. Fabietti, 1995, op. cit., pag. 111.
90 C. Belli, Il ruolo dei confini nei sistemi internazionali in Gentes, anno II, n.2, Dic. 2015.
91 Mi riferisco naturalmente al senso della filosofia del gioco di Wittgenstein, in Ricerche filosofiche, 1967,
Torino, Einaudi, citato da L. Piasere, 1995, Comunità girovaghe, comunità zingare, Napoli, Liguore editore.
affatto propensa all’obbedienza nei confronti della tradizione di pensiero da cui è nata>>..
<<[…] Se dunque l’antropologia è una frontiera, è perché essa esprime il “limite” della cultura che l’ha vista nascere, perché si è sviluppata in “zone di contatto” e forse anche perché si pone come sapere “mobile, sempre disposto a riformulare i propri parametri sulla base delle nuove esperienze suscettibili di produrre nuove interpretazioni>>93.
L’antropologo italiano consolida, dunque, il significato evocativo ed esplicativo della convergenza referenziale e metaforica tra “frontiera” e antropologia, dimostrando che si tratta di un “sapere nato sulla frontiera”94, essendo formatosi e cresciuto nelle zone di contatto e interscambio culturale. Proprio per questa sua caratteristica statutaria, l’antropologia ha tra le sue peculiarità anche quella di essere <<[…]un sapere meticcio, in cui le idee di coloro che
la praticano sono largamente influenzate da quelle di coloro che ne costituiscono l’oggetto>>95.
Le riflessioni di Fabietti sull’equivalenza reale ed epistemica tra l’uso simbolico e referenziale del concetto di frontiera e i nuovi approcci di una sapere antropologico, che esperisce prima di tutto “sul campo” l’illusione di una visione sostanzialistica delle culture dai confini netti e separati, contribuiscono, come abbiamo visto, a mettere in discussione le certezze dell’antropologia classica che, tuttavia, molto prima di altre scienze, riesce proprio per il suo posizionamento (lungo le zone di frontiera), a cogliere i cambiamenti in atto nei sistemi sociali e relazionali e ad acquisirli come spunti di riflessione per la realizzazione di un’operazione complessiva di autocritica e di ripensamento delle modalità di rappresentazione etnografica, al netto delle responsabilità assunte nel reo processo di etnicizzazione del mondo,
93 U. Fabietti, 1999, op. cit. p. 6, 8. 94 Ibid.
95 P. P. Viazzo, Frontiere e confini: prospettive antropologiche, in ( a cura di) A. Pastore, 2007, Confini e
di reificazione dei modelli culturali e di esclusione dei soggetti/oggetti etnografici dalla possibilità di parlare per sé. Tale operazione messa in atto dalla generazione di antropologi attivi tra gli anni’70 e ‘90 procede di pari passo con l’interpretazione dei fenomeni connessi ai cambiamenti globali, anzi, come scrive Marc Augè, screditando l’idea che in questo frame storico si siano concretizzate “mutazioni epocali”96, connesse all’“affinamento dello sguardo sul mondo”97, sebbene si siano verificate delle reali accelerazioni dei processi messi in atto dal fenomeno della globalizzazione.
96 U. Fabietti, 1999, op cit. p. 261.
3.0 LA GLOBALIZZAZIONE E I CAMBIAMENTI DELLA PROSPETTIVA