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<<[…] Se la decolonizzazione ha rappresentato una rivolta dell’oggetto etnografico, di tale

oggetto la globalizzazione ha sancito la definitiva scomparsa>>1 e non perché, come scrive

Dei, <<[…] le differenze culturali, o tanto meno le diseguaglianze socio-economiche sono

scomparse>>2, ma perché, al contrario, si sono moltiplicate e scomposte, tanto da rendere

impossibile e non più utile l’impresa di individuarle e di classificarle per avere più chiaro un quadro complessivo dell’“ecumene globale”3, in cui <<[…] non ci sono più i “primitivi”, cioè

non esistono più quelle condizioni di separatezza fra porzioni di umanità - gli antropologi e i loro “oggetti”- che stanno alla base della disciplina>>.4

Dopo gli anni ’70 si è consolidato all’interno della disciplina lo spostamento della rappresentazione dell’etnia, da un’ascrizione naturalizzata e biologica ad una dimensione prevalentemente culturale, tanto da definirla in termini di “condivisione culturale”. Tale spostamento è avvenuto anche per effetto dei lavori degli studiosi africanisti della scuola di Manchester, che, come abbiamo visto, hanno scelto di analizzare l’etnia nella sua dimensione sociale e relazionale, cioè nelle relazioni interetniche; collocazione che, per ovvie ragioni intrinseche, ha fatto affiorare il valore e il ruolo delle differenze culturali tra le configurazioni etniche. Rispetto all’approccio oggettivizzante dell’etnia e dell’etnicità assunto piuttosto unanimamente dall’antropologia britannica, si è fatto poi strada un orientamento

soggettivizzante che ha continuato a riferirsi all’etnia e all’identità etnica in termini culturali,       

1 F. Dei, 2012, Antropologia culturale, Bologna, ed. Il Mulino, p. 71. 2 Ibid.

3 U. Hannerz, 2001 (traduz.it), La diversità culturale, Bologna, ediz. Il Mulino, p. 11. 4 F. Dei, 2012, op. cit. p.71.

ma più attento ad enfatizzarne i processi di self-ascription, cioè di auto-attribuzione di elementi culturali. Tale operazione, in condizioni molto diverse, ha determinato lo spostamento dell’attenzione antropologica sulle pratiche collettive e politiche di identità, finalizzate al riconoscimento etnico e culturale. Questo spiega in parte il motivo per cui i termini di riferimento delle riflessioni antropologiche e delle ricerche etnografiche non sono più, spesso come prima, “etnia/etnicità”, ma cultura, identità, politiche dell’identità e della diversità.

Nelle ultime decadi del secondo millennio sono intervenuti, con una accelerazione crescente, tali e tanti cambiamenti, a partire dalla fine dei regimi coloniali e ancora di più dallo sfaldamento dell’unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, che non è stato più possibile né prefigurare e rappresentare il mondo come un mosaico culturale, costituito da tessere separate le une dalle altre, dai caratteri specifici e ben definiti, delimitate da confini, reali e simbolici, netti e difficili da infrangere, né opporre più barriere all’impeto della globalizzazione del mercato capitalistico, che si è fatto strada mettendo in crisi in primis le strutture profonde dello stato e dello spazio-nazione, edificato anche sulla base dell’incarnazione di un patrimonio culturale di tipo binario impostato sulla definizione del sé e sul riconoscimento e negazione dell’altro. Modello epistemico, questo, che come abbiamo visto nel precedente capitolo, è stato gradualmente scalzato dalle riflessioni critiche di una “ragione antropologica”5 che ha iniziato ad attribuire all’identità di gruppo e in generale all’atto auto ed etero-poietico un carattere dinamico, finzionale, e socialmente costruito. L’aver riconosciuto questa nuova composizione alla costruzione identitaria e al processo sociale, ha, da una parte, rivelato, attraverso i riscontri con la realtà post-coloniale, i limiti e i pericoli derivati dal loro esercizio autoreferenziale ed escludente, dall’altra, ha fornito la base epistemica e referenziale per nuove riflessioni sulla tensione tra identità e alterità soprattutto alla luce della nuova composizione dell’ecumene globalizzato. Tali riflessioni hanno prodotto

      

lo sviluppo di approcci decostruzionisti verso i concetti di identità etnica e culturale, arrivando in alcuni casi anche a squalificare in modo forse un po’ estremo e radicale i valori positivi e costruttivi ad essi radicati; quegli stessi valori che Bernardo Bernardi, in un articolo del 1994, annovera nell’“etnocentrismo sano”6, apparente contraddizione in termini, e che egli condensa nell’importanza dell’educazione al rispetto della diversità a partire dall’applicazione di un giudizio critico verso criteri emici e scelte etiche da compiere7.

La critica epistemologica sulle culture del globo che si sviluppa all’interno della disciplina alla fine del XX secolo e che sceglie di elaborarne soprattutto gli aspetti di interconnessione tra le soggettività coinvolte, partendo anche da una rinnovata scrittura etnografica, in cui sono le traiettorie e le categorie culturali dell’antropologo/osservatore ad essere messe in discussione8, procede di pari passo con i cambiamenti indotti dalla fine dei monopoli nazionali e dalla crisi dei valori universalistici peculiari della modernità che si aprono a nuove logiche capitalistiche e transnazionali. Tali cambiamenti sono generati e supportati da una progressiva rivoluzione tecnologica delle comunicazioni, dell’informazione e della mobilità, che riduce le distanze, reali e metaforiche, tra continenti, tra società e culture, e che per la prima volta esibisce “scene locali” ad un “pubblico globale”, e viceversa, per una fruizione interdisciplinare, o meglio, transdisciplinare9. Il passaggio alla Post-modernità indotto dalla

globalizzazione è lucidamente espresso anche da F. Dei nel passaggio che segue e che ho

      

6 B. Bernardi, 1994, Il fattore etnico: dall’etnia all’etnocentrismo. In questo articolo, pubblicato sulla rivista

Ossimori, n.4, Bernardi sostiene che l’identità etnica fin dalla nascita di un individuo rientra nella formazione

dell’identità individuale e che per crescere in modo sano ha bisogno di alimentarsi con un’educazione al rispetto delle identità altrui e diverse; solo in questo modo può emergere un etnocentrismo sano, opposto ad un etnocentrismo patologico che invece asseconda le relazioni sociali ad una presunta superiorità biologica. In questo modo prosegue Bernardi non occorre neanche decostruire il valore “costitutivo” e sociale dell’identità etnica che va semplicemente educata ad una canonizzazione del rispetto.

7 Interessante, rispetto alle riflessioni stimolanti sull’etnocentrismo di B. Bernardi, è l’articolo, contenuto nello

stesso numero, di Severino Saccardi, per cui, l’unico etnocentrismo da salvaguardare è quello delle concezioni dei diritti umani, della democrazia, della dignità umana. (Ossimori, 1994, n.4. p. 24).

8 Mi riferisco al fatto che anche le categorie interpretative dell’antropologo vengono considerate nel loro

significato e nella loro referenzialità culturale, soprattutto nelle imprese etnografiche e nei luoghi di ricerca, come testimonia il lavoro di James Clifford, 1999, Strade, Torino Bollati Boringhieri.

9 Con questo aggettivo mi riferisco a quanto con tutti i supporti introdotti dallo sviluppo delle tecnologie della

comunicazione che quindi diventa globalizzata, gli argomenti, i problemi, i prodotti culturali in genere diventino trasversali alle scienze umane, alle scienze sociali, così come a quelle economiche, politiche, giuridiche, mediche, ecc., facendo proliferare ovunque nuove consapevolezze umane e nuove competenze.

riportato testualmente perché ai fini della costruzione di questo lavoro, illustra e preannuncia molto efficacemente quello che accade nel mondo e alle culture dell’uomo tra il XX e il XXI secolo e alle rispettive rifrazioni nella ricerca antropologica:

<<Il superamento della concezione essenzialista delle culture, come unità

autonome e isolate, è sicuramente dipeso dagli sviluppi riflessivi e autocritici della disciplina, ma anche e soprattutto dalla rapida accelerazione del processo di globalizzazione. Prima ancora che la critica epistemologica, sono stati i mutamenti storici a farci pensare le culture come configurazioni ibride e provvisorie che si mescolano in continuazione fra di loro>>10

.

L’approfondimento sullo sviluppo degli approcci decostruzionisti dei concetti di identità e di cultura e sulle successive riflessioni critiche prevede necessariamente un focus preliminare su parte della vastissima rassegna delle principali indagini sui processi e sugli effetti della globalizzazione e sulla sincrona necessità di revisione delle categorie epistemiche da parte delle scienze umane e sociali che, come scrive U. Beck, nel suo lavoro di analisi delle principali teorie sulla globalizzazione, <<[…] si vedono costrett(e) a cambiare il modo di

pensare, e a regolarsi ed orientarsi in maniera concettualmente nuova nella molteplicità non integrata del mondo senza confini>>11. Questa definizione in modo velato ma molto coinciso

rimanda a uno degli aspetti della globalizzazione maggiormente condiviso: il processo d’incorporazione e di demolizione virtuale, ma concretamente operante, dei confini degli stati nazionali per opera dei flussi inarrestabili e irreversibili determinati dalla libera circolazione dei beni, delle persone, delle idee e del capitale, tali da creare legami e vincoli transnazionali trasversali, ma anche diretti tra stati e società, “aggreganti e disgreganti”12, quasi sempre metamorfici, e dai sicuri effetti anche sulla gestione e sulla manipolazione dei contenuti

      

10 F. Dei, 2012, op. cit. p. 201. In questo passaggio ripropongo con molta fedeltà, in quanto estremamente chiare,

le riflessioni di F. Dei sulle culture globali e locali.

11 U. Beck, 1999 (ed. it.) Che cos’è la Globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma ed.

Carocci, p. 44.

12 Questi due aggettivi, molto eloquenti, li ho mutuati dalla critica che U. Beck fa alla teoria del “sistema-

mondo” di Wallerstein. Beck scrive precisamente: << la logica interna del sistema-mondo capitalistico

produce entrambe le cose: l’integrazione del mondo e la disintegrazione del mondo>>; U. Beck, 1999, op.cit.

culturali. L’etnicità, come l’identità, rientrano a pieno titolo in tali contenuti non più come fenomeni statici o come oggetti di speculazione teorica, ma come incarnazioni attive da parte di vecchie e nuove configurazioni sociali che si affacciano su una rinnovata scena internazionale, pretendendo un riconoscimento politico per un adeguato accesso alle risorse, e che soprattutto si interfacciano con le altre configurazioni, anche attigue, per la prima volta senza alcuna mediazione governativa totalitarista o imperialista13. Negli ultimi decenni del XX secolo l’intensificazione dei flussi transnazionali, sul piano economico come su quello culturale e religioso, sul piano delle migrazioni, come su quello delle informazioni e delle tecnologie, rimette in questione l’idea stessa di Nazione, che non appare più come un’entità politica valida e legittima, come unica cornice atta a contenere le nuove forme di solidarietà, in cui la potenziale orizzontalità delle connessioni, ancora tutta da esplodere, tende a sostituire la verticalità dei poteri gerarchicamente imposti. Con la globalizzazione si concretizza, dunque, un totale sovvertimento del rapporto tra gli spazi territoriali e gli spazi sociali, sovvertimento che secondo U. Beck ha prodotto “spazi sociali transnazionali”14, e che sembra spazzare via la convinzione che linguaggi, pratiche e prodotti culturali, relazioni sociali, espressioni simboliche, problemi e manufatti siano radicati, come origini o come successive modificazioni, date dall’impatto coloniale o dai processi migratori ad esempio, a luoghi geograficamente identificabili. Insieme agli spazi sociali e a quelli territoriali, si va determinando un cosmopolitismo dei riferimenti culturali, che ne costituiscono i contenuti, che cominciano a far vacillare tutte quelle certezze funzionalmente e finzionalmente costruite nel tempo per “certificare” l’appartenenza storica ad un territorio, l’autenticità culturale atavica e monodimensionale e la legittimità, dunque, a poter esercitare un potere selettivo e coercitivo di inclusione e di esclusione.

      

13 In questo passaggio il riferimento va ai conflitti etnici scoppiati nei Balcani tra Serbi, Croati e Bosniaci,

innescati dal crollo della Repubblica socialista federale della Jugoslavia, e a quelli scoppiati in Rwanda tra Tutsi e Hutu, noti per l’efferatezza delle violenze.

Allo sviluppo della consapevolezza e delle responsabilità da parte di quell’antropologia riflessiva che si afferma a partire dagli anni ’60, e, successivamente, alla maturazione dei

post-colonial studies che definiscono meglio le responsabilità nell’aver generato le “situazioni

coloniali” in base a paradigmi epistemici che prediligono il focus sugli squilibri di potere, elaborando e proponendo “la visione dei vinti”15, segue l’operazione di delegittimazione delle pretese di universalismo culturale e politico dell’Occidente e delle sue visioni eurocentriche “patologiche”16. Tale manovra di decostruzione procede di pari passo con la costruzione di una piattaforma ideologica, immatricolata dalla corrente postmodernista, che, partendo da una nuova solidarietà transnazionale resa possibile dall’estrema operatività della globalizzazione in tutti i settori antropici, realizza quella che da più autori è stata definita un’ “etnografia cosmopolita”17, cioè un’etnografia attenta, a <<[…] cogliere l’impatto della

deterritorializzazione sulle risorse immaginative delle esperienze vissute dalle persone localmente>>18 con una modalità che non può essere assolutamente afferrata dall’etnografia

tradizionale. Si propone dunque un’etnografia che tende a riscoprire la dimensione del movimento, dell’intreccio e della contaminazione, ad introiettare i rapporti tra globale e locale, tra cosmopolitismo e provincialismo, attribuendo nuovi significati e riferimenti epistemici alle configurazioni identitarie e ridefinendo nuovi confini e appartenenze, ma anche nuove divisioni, nuove immagini e nuovi immaginari. Non solo un’etnografia cosmopolita, ma anche una prospettiva culturale, come suggerisce Ulf Hannerz, in cui competenza, ma anche prontezza ad orientarsi nelle altre culture, incarnino la volontà ad interagire con l’altro, rivelando <<[…] un’apertura intellettuale ed estetica verso esperienze

      

15 Ho utilizzato il titolo di un famoso lavoro dello storico Nathan Wachtel, La visione dei vinti. Gli Indios del

Perù difronte alla conquista spagnola, 1977, operando uno slittamento semantico che sintetizza in modo

efficace il leit-motiv dei post-colonial studies.

16 B. Bernardi, 1994, Il fattore etnico: dall’etnia all’etnocentrismo; Ossimori n.4.

17 Espressione coniata da A. Appadurai e citata da U. Fabietti, 1999, Antropologia culturale. L’esperienza e

l’interpretazione, Roma- Bari, ediz. Laterza, p.261.

culturali divergenti, una ricerca di contrasti, più che di uniformità>>19; un’apertura che,

tuttavia, non equivale ad una resa passiva, poiché nel soggetto cosmopolita persiste la libertà di scegliere di distaccarsi dalla sua cultura originaria. Come scrive Hannerz:

<<La resa è sempre condizionata: il cosmopolita può abbracciare la cultura estranea, ma non vi si identifica. In ogni istante egli sa dove trovare l’uscita di sicurezza>>20.

Credo che a prescindere da come un soggetto cosmopolita si ponga individualmente verso le diversità che incontra, è lo sguardo collettivo e del sapere che cambiano prospettiva: l’etnografia e l’antropologia, <<[…] finita la certezza dell’identità […]>>21e della cultura auto-referenziale e unidimensionale e <<[…] compromessa la stabilità dei luoghi […]>>22, procedono a disegnare un nuovo atlante geografico, più simile ad un fumetto di Guillermo Mordillo23 che ad un mosaico!

      

19 U. Hannerz, 2001, La diversità culturale, Bologna ediz. Il Mulino, p. 131 20

Ibid., p. 132.

21 J. Clifford, 2008, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, p 22 Ibid.

Le parole di Ulf Hannerz restituiscono, a mio avviso, fedelmente quest’immagine:

<<Quando la gente circola con i propri significati, e quando i significati trovano il modo di circolare anche senza la gente, i territori non possono veramente essere i contenitori delle culture. [...] Per questo sentiamo sempre più la necessità di un’immagine alternativa a quella di mosaico culturale: un’immagine che non dia per scontata la limitazione delle culture e il loro esclusivo vincolo con territori e popolazioni particolari, bensì preveda come punto di partenza un mondo più aperto, interconnesso>>24.