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La sintesi tra globale e locale consente sia di comprendere meglio le configurazioni umane e le prospettive di umanità immaginate, sia di proporre nuove modalità di interpretazione delle culture e delle identità transnazionali secondo una logica non più “binaria escludente” ma “multivariata includente”, che comincia ad attribuire un valore ontologico alle “differenze”, quindi alle realtà diasporiche, alle ibridazioni e ai meticciamenti culturali, cercando di rintracciarli nel “nomadismo contemporaneo”63, che la mondializzazione dell’informazione e la nuova circolazione globale della conoscenza ci ha restituito, facendolo apparire quasi un fenomeno nuovo. Come sappiamo tale fenomeno nuovo non è, quanto è vero che “la ragione

      

60 U. Fabiettti, 1999, op.cit. p. 45; J.-L. Amselle, 1999, Logiche meticce, p. 63. 61 A. Appadurai, 2001, op. cit. p. 72

62 Ibid.

antropologica”64, ha ampliamente dimostrato, anche facendo un’omissione di colpa, che non esiste alcuna configurazione identitaria, né etnica, né culturale che non abbia metabolizzato nel proprio patrimonio genetico, storico e culturale i risultati dei processi di interazione a qualsiasi livello con altre realtà identitarie, vicine o lontane, in un lasso cronologico breve o esteso. Negare o misconoscere questo dato, equivale ad avvalorare quella che, secondo Appadurai, è la contraddizione più emblematica della “resistenza alla modernizzazione” che è, oltretutto, profondamente intrecciata al fenomeno della violenza etnica;

<<[…] si tratta della contraddizione che tocca in linea di principio quasi tutti gli stati nazionali. Si tratta della contraddizione tra l’idea che ogni stato nazionale possa veramente rappresentare un solo gruppo etnico, e il dato di fatto che tutti gli stati nazionali, implicano storicamente l’amalgama di diverse identità. […] Detto per inciso, questa è la ragione per cui la politica della memoria e dell’oblio, è così importante per i conflitti di tipo etnico collegati al nazionalismo>>.65

Convalidare tale oggettività, invece, conduce ad una concezione alquanto diversa della cultura, in cui questa non è mai un’entità uniforme e unificata, ma una composizione segnata da fratture e sempre attraversata dalla “differenza”. I suoi significati sono il risultato di un costante, progressivo processo di negoziato culturale che cambia costantemente i suoi contorni per far posto alle continue tensioni che, soprattutto con la globalizzazione, penetrano, anche invisibilmente, nelle “cornici di senso”66 delle esistenze, trasformandole. Le culture concettualizzate in questo modo non sono più soggette al “peccato discontinuista”67

, non si

estendono più all’indietro, non offrono più punti fissi, fissati nella memoria e immutati nel tempo, ma si protendono in un network segmentato in fasci di spazi intrecciati e sovrapposti, reali e immaginati.

      

64 U. Fabietti, 1998, op. cit. p. 27.

65 A. Appadurai, 2001, Op. cit. p. 202. Per Appadurai la resistenza alla modernizzazione da parte dei movimenti

etnici e la violenza etnica hanno finito per sovrapporsi secondo la logica dell’implosione e dell’esplosione che secondo l’autore deve necessariamente sostituire la logica della riattivazione di sentimenti primordialisti nei conflitti etnici.

66 C. Geertz, 1999, op. cit., p.53. 67 U. Fabietti, 1998, op. cit., p. 26.

<<Il pensiero in termini di origine, sia essa una o multipla, ha come effetto di essenzializzare gli elementi che essa dovrebbe relativizzare o decostruire>>68.

In questo modo si esprime Jean-Loup Amselle, secondo cui, alla logica della “ragione etnologica” che, con i suoi culturalismi, relativismi, strutturalismi, di cui egli non si risparmia dal fare nomi, ha costruito a tavolino, insieme alla “ragione coloniale”, la presunta autenticità delle configurazioni peul, bambara e malinke del Mali sud-occidentale e della Guinea nord- orientale, va contrapposta la “logica meticcia”, prima, e quella delle “connessioni”, poi. Solo considerando questi riferimenti come elementi fondativi, l’antropologia, secondo Amselle, può superare i vicoli ciechi che essa stessa ha contribuito a far nascere e far depositare con la “ragione etnologica”. Un’operazione questa che, come abbiamo più volte considerato, ha incluso un’ammissione di responsabilità, tanto importante, quanto salvaguardevole rispetto alla tenuta della disciplina stessa, e che prevede, scrive Fabietti commentando l’antropologo francese, <<[…] che non faccia della distinzione il punto di partenza della riflessione sulla

differenza ma che, al contrario, contribuisca ad affermare una prospettiva che prende le mosse dall’indistinzione e dal sincretismo. […] Partire ( da qui) significa […] adottare uno sguardo più neutro, meno compromesso di quello “classificatorio” e “discontinuista”>>69.

Amselle, convinto sostenitore della necessità di abbandonare il paradigma della discontinuità tra culture, in favore di quello della continuità, sposta in avanti il dibattito; egli cerca di dimostrare, partendo da un’analisi diacronica dei principale studi etnografici compiuti in Africa dai maggiori esponenti dell’antropologia culturale, funzionalmente e parallelamente ai processi storici dell’organizzazione dei poteri coloniali europei, che le culture partono da un’indistinzione e da una mescolanza originarie, a cui si sono sovrapposti nel tempo e secondo modalità diverse gli “effetti di ritorno” delle stesse ragioni di novero e di

      

68 J.-L. Amselle, 2001, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, ed. Bollati-Boringhieri,

p.78.

69 U. Fabietti, 1998, op. cit., p. 26. In questo passaggio Fabietti commenta il ragionamento di Amselle,

funzionalmente all’utilità della narrazione del passaggio epistemologico nel considerare le culture come un

classificazione messe in atto dagli antropologi e dagli amministratori coloniali che hanno costruito a tavolino, decontestualizzando certi dati, un’etnicizzazione forzata delle configurazioni locali. Quest’ultime ad un certo punto per garantirsi il migliore accesso alle risorse, non hanno fatto altro che riproporre in modo speculare gli stessi modelli subiti dal potere del pensiero occidentale, ma anche quello islamico, per sostenere la competizione; l’identità subita si è trasformata in identità esercitata e rivendicata. Rispetto a questa importante e ingombrante lezione etnostoriografica, solo un’analisi in termini di “logiche meticce”, secondo Amselle <<[…] permette di sfuggire alla questione dell’origine. […] Non

si tratta più di chiedersi se viene prima il segmentario o lo stato, il paganesimo o l’Islam, l’orale o lo scritto, ma di postulare un sincretismo originario, una mescolanza di cui è impossibile dissociare le parti>>70.

Il Métissage non è la traduzione culturale e sociale del fenomeno biologico del

meticciamento; esso non nasce dall’incontro tra due o più fenomeni omogenei; non è neanche

la riduzione della molteplicità in un’unità, come porterebbe a far pensare il sincretismo, ma è un processo che, infrangendo le polarità indotte dell’omogeneo e dell’eterogeneo, si pone come terza via epistemica tra la fusione e la frammentazione; più che coesione o osmosi, il métissage è dialogo e confronto. Un’identità meticcia ad esempio è un’identità costituita da più voci: un meticcio non ignora le frontiere che esistono tra le sue diverse appartenenze, ma è in grado di attraversarle, accettando di vivere anche l’esperienza dello spaesamento, della perdita e dell’alienazione; esperienze che nel linguaggio poetico di E. Glissant diventano il “diritto all’opacità”71. Un diritto che per Amselle corrisponde alla libertà sacrosanta di poter scegliere e la cui importanza egli esprime nel modo seguente, parlando di “minoranze” e non di meticci:

      

70 J.-L. Amselle, 1999, op. cit. p.189.

<<Tra i diritti delle minoranze c’è anche quello di rinunciare alla loro cultura, e i dominanti non dovrebbero avere la possibilità di scegliere, al loro posto, il tipo di cultura o di lingua che reputano più conveniente>>72.

Come esempio di meticciato e di “relatività dei processi di autoidentificazione”73, Amselle presenta, tra i lavori etnografici e le riflessioni antropologiche sulle cheffreries peul, bambara e malinke del Mali sud-occidentale e della Guinea nord-orientale, anche il caso dei falasha d’Etiopia, una popolazione che secondo alcuni storici, deriverebbe dalla fusione tra le popolazioni autoctone africane e gli ebrei fuggiti dal proprio paese in Egitto ai tempi della distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e in successive ondate della diaspora ebraica. Minacciati da carestie e dalle repressioni del governo etiope nel 1977-1979, i falasha emigrarono verso il Sudan, il cui governo musulmano fu però ostile nei loro confronti. Il governo di Israele decise allora di trasportarli nel proprio territorio in maniera massiccia e così vennero trasferiti circa 90.000 ebrei. Attualmente in Israele vivono circa 135.000 di ebrei falasha74 in progressiva integrazione, nonostante difficoltà di adeguamento ad un ambiente diversissimo da quello di origine; infatti numerosi sono casi di alienazione e di degrado soprattutto dei maschi adulti a differenza dei giovani, che per via dell’azione di omologazione prevista dall’arruolamento nelle forze armate, tendono ad integrarsi molto più facilmente nella società israeliana.

Per tenere fede all’indicazione di C. Geertz sulla necessità di abbandonare la distorcente “prospettiva da mongolfiera”75 e sull’opportunità, al contrario, di <<[…] calarsi nel fango dei

casi concreti […]>>76, e per cercare di <<[…]capire intenti diversi dai nostri […]>>77 e

restituire il senso locale e contestuale delle configurazioni identitarie al netto delle

      

72 J.-L. Amselle, 1999, op.cit. p. 37. 73

Ibid. p. 72

74 I dati presentati sono quelli forniti da Wikipedia; non è precisata la fonte.

75 C. Geertz, 1999, Mondo globale, mondi locali, Bologna, ediz. Il Mulino, p. 24, 25.

76

C. Geertz, 1999, op.cit.

interconnessioni culturali, Amselle, nel successivo lavoro del 200178, presenta il caso del movimento religioso mandingo N’KO, fondato da Souleymane Kantè nel 1949. Musulmano, ma anti-arabo, il movimento N’KO viene concepito come il movimento religioso di un popolo oppresso, il popolo mandingo che sistematizza l’appropriazione di categorie e di ideologie straniere per meglio scagliarle contro chi le ha create. Quasi paradossalmente, infatti, il movimento N’KO incrocia concetti arabo-musulmani ed europei-cristiani, li rielabora

indigenizzandoli con la cultura orale mandinga, che ora si dota di un proprio alfabeto

“profetico”79, e li ripropone in una dottrina afro-centrica che ha il duplice obiettivo circolare: quello di fondare la “legittimità testuale” di una cultura africana, seppur figlia sia dell’islamizzazione del continente Africano, che della “colonizzazione cristiana”, di cui vengono proposti gli elementi generativi, i “significati fluttuanti”80 e quello di smontare le connessioni con le culture dominanti, al fine di attribuire un senso a se stante e una legittimità “fondatrice di senso”, per dirla con le parole di Geertz, ad una configurazione negro-africana- mandinga. <<Procedendo per connessioni, Souleymane Kantè enuncia la verità della propria

cultura e contemporaneamente interroga le culture araba ed europea>>81. Il senso critico

dato dall’esempio del movimento N’KO, estendibile a tutti quei movimenti “-centrici”, come l’afrocentrismo o l’eurocentrismo, è quello di dimostrare come <<l’essenza intima di ogni

cultura si esprime attraverso le altre culture>>82 e non attraverso mistificatori “ritorni alle

radici”, di cui vengono esaltate autenticità e purezza, fisiologicamente impossibili e ontologicamente anti-storiche, che, infatti, altro non sono che l’interesse a vedersi riconosciuti ruoli attivi nella perpetuazione del sapere e l’interesse ad esercitare una centralità economica e

      

78 J.-L. Amselle, 2001, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, Bollati Boringhieri

ediz.

79 J.-L. Amselle, 2001, op. cit.,p. 75. Amselle racconta di Souleymane Kantè che imitando le dinamiche delle

culture occidentali, e interpretando negativamente il dato per cui i popoli africani non hanno mai avuto una tradizione scritturale, e forse per questo motivo più facilmente assoggettabili dalle “culture scritte”, propone un alfabeto che, sul modello profetico delle 12 tavole ( altra configurazione presa in prestito) dice di aver ricevuto in sogno.

80 Ibid. p. 95.

81 Presentazione di M. Aime in J.-L. Amselle, 2001, op. cit. p. 12. 82

politica. Tutte le culture che si costituiscono, sostiene Amselle, pianificano delle origini, dei miti fondatori, escludendone altri; anche la cultura e la filosofia occidentale hanno di fatto deciso di connettersi al “miracolo greco”83, e non ad altri miti, così come il movimento N’KO ha deciso di connettersi alle procedure culturali dell’Islam e dell’Occidente cristiano, per poi riconfigurarle e rivendicarne valori afrocentrici. Per uscire dall’aporia della necessità fittizia di stabilire quale tra le culture abbia una maggiore attendibilità in termini di “purezza delle origini”, l’autore suggerisce, prendendo una significativa distanza teorica dal suo precedente lavoro84, di ritenere non più valida la teoria sul meticciato delle culture perché <<presuppone

una pluri-origine di ciascuna cultura, ripropone precisamente la distinzione tra le varie culture, dispositivo che si vuole appunto scartare>>85 e di considerare, invece necessaria

l’azione di <<[…] disconnettere ogni forma di pensiero dalla logica delle origini; […]

privilegiare le relazioni sugli elementi, le connessioni sui poli […]>>86. Nello schema delle connessioni proposto da Amselle, è, infatti, l’interconnessione la condizione di partenza delle

culture, la cui esistenza viene assicurata poi dalla coerenza al senso attribuito; una condizione strutturale che ribadisce la validità della teoria del métissage originario, ma lo rielabora in modo da sfuggire al rischio di una supponibile considerazione biologizzante delle culture e delle etnie, in nome di una più consona e realistica teoria dei prestiti culturali.

      

83J.-L. Amselle, 2001, op. cit. p. 190.

84 Mi riferisco a “Logiche meticce” del 1999. 85 J.-L. Amselle, op.cit. p. 191.