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È nel tentativo di rispondere a questi interrogativi, fortemente radicati nella realtà e trasversali alla teoria politica e sociale, che si inscrive una nuova riflessione antropologica, che metabolizza le posizioni più radicali per elaborarne altre molto più moderate, tra cui la già citata posizione di Clifford che imputa ai limiti delle posizioni de-essenzializzanti, la tendenza a <<[…] liquidare troppo velocemente le forme storico-adattive di integrità>>28

. Anche le

riflessioni di Dei che si focalizzano sul dibattito che segue alla crisi epistemica dell’antropologia nell’ultimo scorcio del XX secolo, esprimono la necessità prioritaria di operare una ricongiunzione all’interno della disciplina, mettendo prima di tutto un punto fermo sull’impossibilità di scollegare il concetto di cultura dall’uomo e dall’antropologia; egli afferma, a questo proposito, che <<[…] le critiche ai concetti di cultura, di identità e di

27 F. Remotti, 2010. L’ossessione identitaria, citato da A. Favole, 2010, op. cit. p. 11. 28 J. Clifford, 2002, Prendere sul serio le politiche dell’identità, Aut-Aut, n.312.

multiculturalismo sono irrinunciabili per il dibattito antropologico contemporaneo, […] alcuni loro esiti, decostruzionisti, sono insostenibili sul piano epistemologico>>29, perché da

una parte essi assumono la stessa vocazione universalistica che vorrebbero contrastare, e dall’altra, le differenze culturali, benché non riducibili ad identità compatte, <<[…]

mantengono una loro concretezza antropologica>>30. Per Dei è doveroso riallineare le

posizioni interne alla disciplina, attuando una sintesi epistemica.

L’assunto per cui non esistono “culture naturali”, né identità essenziali, non deve trasformarsi automaticamente nel congedo delle differenze, dei suoi valori, delle sue costruzioni e dei contesti in cui esse sono operative e significative, così come non si possono cogliere completamente le configurazioni identitarie senza prima aver analizzato i rapporti di forza che ne regolano la produzione. Per cui un’alternativa valida a riassestare la teoria antropologica, in modo che essa possa avere “un’unica testa” e in modo che possa continuare a scandagliare i paesaggi umani, i suoi mutamenti emici ed etici, le sue espressioni necessarie all’interazione sociale, anche al netto degli squilibri economici globali, per essere da riferimento all’economia politica e non il contrario, diventa quella di cogliere il significato delle auto- attribuzioni, delle manifestazioni identitarie, innanzitutto contestualizzandole nel loro quadro sorgivo e significativo. L’operazione di riposizionamento delle identità, di quelle già espresse e di quelle ancora “in costruzione”31, nei loro contesti, risponde anche alla duplice esigenza di adattarsi, da una parte, alle fratture indotte dalla de-territorializzazione dei processi globalizzanti e, dall’altra, alla necessità di anteporre la contestualità, o meglio l’esaustività epistemica del contesto e le sue progressioni, come le uniche dimensioni in grado di attribuire, certamente non in modo statico, come lo era stato per quel relativismo ottocentesco ormai “fuori uso”, una centralità adeguata alla soggettività. Una soggettività che genera ed esercita le proprie “cornici di senso” e che restituisce la stessa centralità al contesto, organizzando un

29 F. Dei, Il multiculturalismo senza culture, in A. Nesti, 2006, op. cit. p.48. 30 F. Dei, 2002, op. cit. p. 39.

quadro di riferimento operativo, adatto interagire con le diverse identità che si pongono nella dimensione relazionale. In questo modo si aggira la critica che attribuisce alla variante

interpretativa l’appellativo di “ermeneutica delle ragnatele di significati”32, perché nei sistemi

dei significati condivisi da una precisa comunità, organizzati metodologicamente nei contesti in cui essi diventano operativi, sono inclusi anche quei processi oggettivi, come le storie di colonizzazione o di emigrazione, per citarne solo alcune, che hanno contribuito alla costruzione degli stessi insiemi dei significati che costituiscono il contenuto culturale e identitario di quella comunità.

Preso atto di questa alternativa, al fine di risolvere la contraddizione profilata dall’antropologia post-moderna e al fine di ricongiungere la produzione teorica con le dimensioni empiriche delle pratiche identitarie, l’antropologia contemporanea propone di operare una sintesi, che riguardi sia la supervisione analitica che la ricettività etnografica. L’attenzione dell’etnografia contemporanea rispecchia effettivamente il monito a tale sintesi, descrivendo degli incontri etnografici in cui sono le stesse costruzioni identitarie da parte dei soggetti a mettere insieme i due piani, quello soggettivo e quello oggettivo, a volte anche trascendendoli, a dimostrazione che una certa creatività culturale o semplicemente una scelta di rappresentazione, è una risposta persuasiva e operativa, in grado di superare critiche di essenzialità o, al contrario, critiche de-essenzializzanti. Come sostiene Davide Zoletto in un articolo del 2002, a proposito del multiculturalismo e del ruolo del mediatore culturale, <<il

dibattito tra essenzialismo e antiessenzialismo non è davvero il punto cruciale […]>>33; a

volte, come nel caso dei mediatori culturali di Zoletto, è la costruzione o reinvenzione di una realtà identificativa, suscettibile al cambiamento, sempre che anche questo rappresenti una strategia identificativa, a prestare fede, in tutta la sua esaustività, nelle analisi

32 F. Dei, Il multiculturalismo senza culture in A. Nesti, 2006, op. cit.

etnoantropologiche, al netto anche degli equivoci34 e degli imbrogli35 funzionali ad una certa

retorica narrativa, messi in atto dai soggetti. Una qualsiasi analisi culturale che invalidi questi costrutti, giudicandoli troppo frettolosamente inverosimili, rischia di essere cieca e di non vedere la forza creativa e rigenerativa delle strategie culturali, corroborando in questo modo l’impasse teorica dell’antropologia post-moderna. Al fine di scongiurare il rischio di “cecità” quasi paradossalmente, il dibattito contemporaneo suggerisce invece, come prospettiva metodologica e come sintesi epistemica, di recuperare un certo “strabismo” nello sguardo antropologico; <<[…] quello “strabismo” a lungo invocato nella disciplina che invitava i

suoi cultori ad essere insieme gli astronomi di un tempo con i loro lunghi cannocchiali puntati sull’universo e gli orologiai dei secoli scorsi con le loro piccole lenti fissati sui meccanismi minuti e circoscritti>>36. Un tale sodalizio analitico viene suggerito anche e

soprattutto da Geertz, convinto assertore dell’interconnessione tra provincialismo e

cosmopolitismo nell’interpretazioni delle culture, tanto da aver intitolato un suo lavoro del

1999 “Mondo globale, mondi locali”, in cui la proposta metodologica di operare una necessaria sintesi epistemica per riuscire a cogliere le particolarità culturali in relazione al senso dei soggetti interpreti, che delle relazioni e reinterpretazioni con i macro-processi globali si riappropriano funzionalmente alle “proprie utilità”37, diventa un vero e proprio programma politico. Geertz propone un programma liberista, che rinunci alle pretese di

universalismo e che, citando le parole testuali,

<<[…] nell’autoaffermazione etnica, religiosa, […], non veda una mancanza di ragionevolezza arcaica o innata, da reprimere o da superare, […] ma sappia

34 D. Zoletto, 2002, op. cit. 35 Ibid.

36 Questa metafora è riproposta da M. Callari Galli, (introduz.) etnografia nomadica in M. Callari galli (a cura di)

Nomadismi contemporanei, 2004, Rimini, Guaraldi srl, pp.12,13; elaborata per la prima volta da Lévi-Strauss

in Lo sguardo da lontano, 1984, Einaudi Torino.

37 Mi riferisco al senso della filosofia del gioco di Wittgenstein, in Ricerche filosofiche, 1967, Torino, Einaudi,

invece affrontarli come affronta la disuguaglianza, l’abuso di potere e altri problemi sociali>>38.

Il monito di Geertz a elaborare una teoria politica che metta insieme le “piccole narrazioni” con le “grandi narrazioni”39 e che così facendo salvaguardi l’attendibilità della disciplina, aiutandola a proiettarsi nel futuro in modo che “prenda sul serio le politiche dell’identità”, come suggerito esplicitamente da Clifford40, è anche una sintesi del processo emico di riappropriazione culturale. I protagonisti di alcune particolari politiche di risveglio culturale, come ci mostrano alcuni dialoghi etnografici contemporanei, non fanno altro che manipolare e sintetizzare continuamente immagini del passato, reale e ricostruito, con acquisizioni del presente e delle interconnessioni su scala globale, in cui anche gli “sguardi” degli altri diventano centrali nella costruzione di un percorso identitario. Il tutto, debitamente convogliato, come vedremo nei seguenti racconti etnografici, viene finalizzato a creativi processi di costruzioni identitarie, che risemantizzano anche le esperienze di un passato coloniale, da una parte, e dall’altra, confermano la necessità ontologica dell’uomo di esprimersi attraverso la cultura.

38 C. Geertz, 1999, Mondo globale, mondi locali, Bologna ediz. Il Mulino, p. 52. Il passaggio contenuto in questa

citazione è stato suggerito da F. Dei, 2002, op. cit. p. 40.

39 Ibid.

4.2 UN MODELLO ETNOGRAFICO DI SINTESI: IL POPOLO DEI “SENZA