CHANGE.
“La dominazione imposta a una maggioranza autoctona materialmente inferiore, da una minoranza che è straniera come gruppo etnico e che è culturalmente diversa, in nome di una superiorità etnica e culturale dogmaticamente affermata; […] il fatto che questa dominazione porti con sé l’entrare in rapporto civiltà eterogenee….; […] il carattere antagonista delle relazioni esistenti tra queste due società, che si esplica tramite la funzione di strumento cui la società colonizzata è condannata; […] la necessità, per mantenere la dominazione, di ricorrere non soltanto “alla forza”, ma ad un insieme di pseudo-giustificazioni e di comportamenti stereotipati[…]. Questa situazione deve essere afferrata nel suo insieme e come sistema”.7
Queste osservazioni, scritte da Georges Balandier nel 1955, interprete dell’approccio
dinamista, sono contenute in un articolo di M. Gluckman del 1958 e nel tentativo di definire
la situazione coloniale, descrivono il caos complessivo che si è generato ed autoalimentato presso le società “tradizionali”, determinato dal lungo dominio dei governi occidentali. L’instabilità, anche determinata dalle strategie di alleanze militari accanto ai governi coloniali durante il secondo conflitto mondiale da parte di unità etniche selezionate, penetra nelle strutture sociali, in quelle economiche, e nelle configurazioni etniche, che esperiscono nuove
7 G. Balandier, 1955, Sociologie actuelle de l’Afrique noir, P.U.F., Paris, citato da P. Mercier, 1972, op. cit., p.
conflittualità generatesi dalla competizione per l’accesso alle risorse e al potere, una volta rimossa la “coltre” delle amministrazioni coloniali. L’indipendenza ha tra i suoi effetti anche quello di intensificare la competizione ed è chiaro che, come scrive Epstein, <<[…]in
conseguenza dei processi e degli eventi storici precedenti non tutti i gruppi si presentarono sulla linea di partenza con le stesse possibilità>>.8 Anche Ugo Fabietti conferma questo
assunto scrivendo <<le etnie […] sono sempre il prodotto di una storia caratterizzata da uno
squilibrio nei rapporti di forza>>.9
Di fronte a questo “crogiuolo”10 di incertezze, che riflette non un caso specifico, ma un sistema, come viene suggerito da Gluckman, e che ha tra i tanti effetti anche quello di attivare la procedura dell’inasprimento del sentimento etnico, l’inadeguatezza del paradigma “struttural-funzionalista”, con la sua ricerca di una “alterità sincronicamente compatta”11 e con la sua proposta di inventario di precise variabili nelle race relations, diventa un punto di partenza di rielaborazione teorica e metodologica per la ricerca antropologica britannica che intorno al 1950 si coagula intorno alla Scuola di Manchester. In questo polo di ricerca emergente ebbe un ruolo centrale proprio Max Gluckman (1911-1975), già attivo presso il Rhodes-Livingstone Institute, istituto di ricerca sociale ed economica fondato nel 1938 nel nord Rhodesia (attuale Zambia), con lo scopo di esaminare gli effetti dell’impatto della civiltà europea sulle società africane.
Metodologicamente, Gluckman, nelle sue ricerche condotte presso alcune Società del Sudafrica della Rhodesia, nel tentativo di cogliere la “totalità dei fatti sociali”12, opera una
strategia diacronica e processuale, esattamente opposta a quella proposta da Malinowski, che
8 A.L. Epstein, 1983, trad. It., L’Identità etnica. Tre studi sull’Etnicità, ed Loescher, p.239 9 U. Fabietti, 1998, Op. Cit. p. 50
10A. L. Epstein, 1983, op. cit. 11 F. Dei, 2002, op. cit., p. 23.
12 M. Mauss, 1924, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad it. 2002, ed
<<consiste nel considerare una serie di episodi specifici, riferiti alle stesse persone o agli
stessi gruppi, per un lungo periodo di tempo, e nel mostrare come questi episodi, questi casi siano legati allo sviluppo e al mutamento delle relazioni sociali fra queste persone e questi gruppi […]>>.13 Per Gluckman, dunque, solo l’analisi dei processi, riferibili a situazioni
etno-sociali di piccola entità, che si scandiscono nel tempo, possono cogliere il dinamismo essenziale di una data società e appunto la sua “totalità”. Il riferimento a Marcel Mauss in questo contesto non si limita alla sola struttura semantica coniata da quest’autore negli anni venti del Novecento e tanto esemplificativa, ma vuole rendere il giusto merito ad una visione premonitrice che aveva intravisto nella processualità e in un approccio diacronico, gli unici metodi in grado di restituire etnograficamente la complessità della struttura sociale delle società tradizionali. Per quanto fosse ameno di dati empirici, direttamente raccolti, Mauss seppe cogliere l’importanza dei dati etnografici al fine di conferire una sorta di riscontrabilità empirica alla teoria delle “prestazioni sociali totali”14 nella loro concatenazione processuale colta nel costante divenire e di cui, nella sua opera più conosciuta, ne dà la seguente testimonianza:
<<Abbiamo visto delle società allo stato dinamico e fisiologico. Non le abbiamo studiate come se fossero paralizzate in una condizione statica o piuttosto cadaverica, e ancor meno le abbiamo scomposte e sezionate in norme di diritto, in miti, in valori e in prezzi. [….]>>15
Ritornando agli anni Cinquanta, i risultati persuasivi del nuovo approccio etnografico superano, in termini di novità, anche l’impianto teorico di alcune categorie concettuali care all’antropologia, come il “cambiamento” e il “conflitto”, relative alle società in via di
13 M. Gluckman, 1959, The use of Ethnographical data in Social Anthropological Analysis in Britain, nella
Comunicazione al Congresso Mondiale di Sociologia,Stresa, citato da P. Mercier, 1972, op. cit., a p. 178.
14 M. Mauss, 1924, op. cit. in Saggio sul dono, i “fatti sociali totali” diventano “ prestazioni totali”. 15 Ibid. pp. 135,136.
trasformazione. Essi permettono, infatti, di constatare che nei contesti “tradizionali” africani e non solo, il “conflitto” costituisce la materia prima della coesione sociale, poiché aumenta la possibilità di confronto tra gli individui che, fisiologicamente propensi a trovare la propria omeostasi, devono inventare e istituzionalizzare di volta in volta nuove soluzioni, che a loro volta naturalmente comportano dei mutamenti rispetto all’ordine precedente. Lo spunto viene offerto dallo studio e dall’osservazione etnografica dei contesti interetnici africani che, profondamente segnati e modificati dall’impatto con il sistema coloniale e dalle conseguenti trasformazioni “endogene”, consentono agli esponenti della Scuola di Manchester di risemantizzare i concetti di conflitto e di mutamento, riqualificandoli con accezioni non più negative ma costruttive e dinamiche e soprattutto non esclusive delle società tradizionali. Infatti il riassetto epistemologico dei concetti legati ai processi di trasformazione saranno cardinali per un nuovo modo di fare ricerca etno-antropologica, a partire dalla scoperta della trasversalità di tali concetti a tutti i tipi di società, non più, dunque, solo delle società
tradizionali, ma anche di quelle cosiddette complesse, caratterizzate cioè da <<[…] un’accentuata specializzazione produttiva, dalla scrittura, da forme marcate di stratificazione sociale, dalla presenza di organismi politici centralizzati oltre che da religioni universalistiche e salvifiche [….]>>16. Il contesto storico coincidente con i processi di
decolonizzazione e con i movimenti civili indipendentistici insieme all’analisi dei cambiamenti e delle società in trasformazione diventa il motore propulsore per lo sviluppo e la diffusione di un’attenzione antropologica verso tutte le società in via di trasformazione, interessate da una vitalità multietnica e da una imponderabile relazionalità e conflittualità, capaci di scomporre quella coerenza normativa delle strutture sociali, verso cui l’antropologia struttural-funzionalista si era protesa. Come sostiene F. Dei, <<[…] i paradigmi che
l’antropologia classica ha fornito per pensare la diversità culturale [….] accentuano l’esclusività, la compattezza interna, i confini netti, la staticità e nascondono gli elementi di continuo mutamento, di conflitto, di scambio reciproco e di sincretismo che caratterizzano invece la vita culturale>>17. Anche per ovviare a questi limiti, prosegue F. Dei, <<[…] l’antropologia ha dovuto rivedere la propria attrezzatura teoretica […] >>18, partendo
proprio da un approccio revisionista dei concetti di identità, etnia e cultura, e mettendo in atto quel “capovolgimento di prospettiva nella ricerca antropologica”19, che tenderà a sostituire gradualmente la ricerca della coerenza, dell’esaustività e dell’autenticità culturale di “porzioni di umanità separate”20, con la ricerca dei processi, della dinamicità delle relazioni sociali che così costruiscono la propria cultura e identità, passando attraverso continue negoziazioni e conflitti e, arrivando talvolta anche a formazioni contraddittorie.
Il cambiamenti di prospettiva e di risemantizzazione dei cardini epistemologici comportano naturalmente anche una precisa ridefinizione del concetto di “identità etnica”, a cui viene asportato l’elemento di omogeneità e coesione interna, per diventare << […] pensabile [solo]
in maniera contrastiva e contestuale>>21, come spiega Fabietti. Il risultato di tale operazione
attribuisce all’identità etnica un valore auto- ed etero-poietico che si estrinseca attraverso una procedura dialettica, finemente analizzata da Roger Bastide e dalla Scuola dinamista francese22 che prevede sempre un “noi” e gli “altri” in un movimento continuo il cui margine di imprevedibilità si configura meglio nel concetto di etnicità.
17 F. Dei, Antopologia culturale, 2012, p. 36 18
Ibid. p.36.
19 J.-L. Amselle, 1990, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati
Boringhieri, p. 9
20 F. Dei, op. cit. p. 71
21 U. Fabietti, 1998, Op. Cit, p. 44. Il corsivo in parentesi è il mio.
22 Mi riferisco naturalmente allo studio sulla doppia casualità di R. Bastide in La casualité externe et la casualité
interne dans l’explication sociologique, in Cahiers internationaux de sociologie, n.21, 1956, pp. 77-99
Anche Arnold Epstein della scuola britannica, descrive bene questo processo, con particolare riferimento alle situazioni multi-etniche; egli così scrive:
<<[…] il senso d’identità etnica è sempre in qualche misura un prodotto dell’interazione di una percezione interiore e di una risposta esterna, di forze che operano sull’individuo e sul gruppo dall’interno e di forze che agiscono su di loro dall’esterno>>. 23
La processualità delle interazioni umane finisce per conferire all’etnicità una imponderabile soggettività, le cui differenti formulazioni da parte degli antropologi del polo britannico hanno in comune, secondo F. Pompeo, il significato di “un’appartenenza vista dalla parte del
soggetto”24, dove per appartenenza, in questo nuovo scenario, si intende la percezione del sé,
degli altri e l’imperscrutabile senso dell’agire umano ora sentimentale, ora cognitivo, ora strategico, ora velleitario, ora rivendicativo, ora situazionale e qualche volta anche tutte queste dimensioni insieme. Epstein per spiegare questa multidimensionalità scrive:
<<[…] se dobbiamo raggiungere molti dei problemi che l’etnicità pone, dovremo sviluppare metodi e approcci più sottili di quelli adottati fino a ora, i quali rendano pienamente conto dell’interazione degli elementi esterni e interni, oggettivi e soggettivi, sociologici e psicologici che sono sempre presenti nella formazione dell’identità etnica>>.25
23 A. L. Epstein, 1983, ed. It. , L’identità etnica. Tre studi sull’etnicità. Torino, ed. Loescher, p. 183. 24 F. Pompeo, 2007, Il mondo è poco, Meltemi ed. p. 85
2.1.1 PRIMORDIALISTI, SITUAZIONALISTI E STRUMENTALISTI NELLA TRATTAZIONE DELL’ ETNICITA’.
Clyde Mitchell, Arnold Epstein e successivamente Abner Cohen e Fredrik Barth, hanno interpretato la necessità di superare il “sostanzialismo antropologico” della Scuola Classica, cominciando proprio dal superamento della visione tradizionale del gruppo etnico come nucleo culturale compatto e omogeneo, attribuendo all’etnicità una dimensione politica o situazionale o una condizione naturale, fino ad arrivare, negli anni Settanta con Fredrick Barth, alla ridefinizione dei parametri per la definizione di gruppo etnico come processo sociale nei contesti stabilmente polietnici.
La complessità etnografica delle situazioni post-coloniali, sia nel continente africano che in quello asiatico, caratterizzate in gran parte da una rapida mutevolezza, come si evince dai resoconti scientifici, in cui fenomeni di tribalismo comunitario si snaturano per far fronte ai fenomeni di detribalizzazione26
, neourbanizzazione e capitalizzazione dei nuovi centri di
potere, e contraddistinte anche dagli effetti delle manifestazioni di erosione culturale a livello intra-generazionale nei contesti di recente emigrazione, se da una parte compattano la risposta del polo scientifico britannico alla precedente metodologia essenzializzante e reificante delle culture e delle etnie, dall’altra, diversificano gli approcci analitici e le conclusioni dei vari autori in merito alla natura dell’etnicità. Fabietti, ad esempio nel suo lavoro di critica al concetto di identità etnica, dedica un paragrafo alla sintesi e alla classificazione dei differenti approcci interpretativi sulla natura dell’etnicità da parte degli autori della scuola di Manchester e non solo, citando primordialisti, strumentalisti e situazionalisti27. Anche gli
autori maggiormente citati in questo lavoro per i diversi contributi elaborati sul discorso
26 A. Epstein, 1983, op. citata. L’autore facendo riferimento ai nuovi centri urbani della Copperbelt, al fine di
semplificare i cambiamenti in atto, il Social change, cita i fenomeni di detribalizzazione e di retribalizzazione.
etnico, come F. Pompeo, C. Marta e M. Banks28 riferiscono le medesime classificazioni, considerate un momento molto importante per lo sviluppo dell’indagine etno-antropologica sull’identità etnica e sull’etnicità.
In base ai vari approcci, l’etnicità viene considerata ora come connaturata all’identità individuale, come primordiale e sovraindividuale imperativo alla solidarietà tra individui che hanno legami di sangue, di parentela, di costumi e di lingua e quindi biologicamente ascritta e perpetuata29, ora come artefatto culturale, come costruzione di un “noi etnico”, capace di corroborare il sentimento identitario, attraverso l’attivazione in determinate circostanze di precisi valori e significati, come potrebbe essere per i situazionalisti; ora come reazione a situazioni di conflitto o base per azioni di gruppo razionali, come potrebbe essere per gli
strumentalisti.
Gli antropologi della Scuola di Manchester, sebbene con fluttuazioni di analisi piuttosto importanti, così come i rispettivi campi di osservazione, tengono comunque a precisare che il concetto di etnia è assunto unicamente come strumento di indagine e non come determinazione della realtà. Le etnie, lungi dall’essere realtà naturali, sono piuttosto creazioni collettive e le rappresentazioni etniche e gli etnonimi hanno un valore performativo, ovvero ricoprono la funzione di delimitare e di suggerire uno spazio relazionale e sociale privilegiato. L’etnia diventa dunque una forma simbolica, una categoria interpretativa per comprendere la natura delle relazioni e le realtà morali. Non va, inoltre, dimenticato che le tradizioni e gli elementi identitari vengono continuamente manipolati da chi ha il potere, da chi lo subisce e
28 I lavori di questi autori, in cui si fa riferimento alla distinzione tra i differenti approcci allo studio dell’etnicità,
sono: di F. Pomeo Il Mondo è poco, op. cit.; di Claudio Marta, Relazioni interetniche: prospettive
antropologiche, 2005, Guida Editori; di Marcus Banks, Ethnicitity anthropological constructions, 1996, ed.
Routledge.
29 Un modello di questa trattazione dell’etnicità considerata nei suoi legami primordiali e sovraindividuali,
da chi lo vuole ottenere; quindi i gruppi etnici, così come l’etnicità, sono costruzioni funzionali tanto ad una casualità esterna quanto ad una casualità interna30.
Clyde Mitchell, figura-chiave della Manchester School, ad esempio si sofferma sulle grandi trasformazioni dell’urbanizzazione africana, indotte sia dalle conseguenze del colonialismo occidentale, che dai cambiamenti di struttura nel sistema economico locale, e arriva alla conclusione che l’appartenenza etnica, lungi dall’essere un dato naturale e oggettivo, agirebbe come una categoria di pensiero per la regolamentazione delle relazioni sociali. In “La danza della Kalela”31, Mitchell presenta etnograficamente il caso di una danza tribale, molto popolare nella zona della Copperbelt, nella Rhodesia del nord (attuale Zambia), in cui gli elementi etnico-tribali tendono a svanire per lasciare posto alle incursioni occidentali, come si evince dalla tipologia dei costumi dei danzatori e addirittura dai contenuti delle canzoni. Tuttavia, seppur modificata, o meglio “detribalizzata”, la danza della kalela, a livello cognitivo, continua a mantenere una forte valenza etnica, identificando e rappresentando con forza le differenze tra i vari gruppi tribali sia nelle città che nelle zone extra-urbane. Dunque per Mitchell l’etnicità agirebbe, per dirla con le parole di A. Epstein, come una “mappa
cognitiva”32che i singoli individui utilizzano, alla stregua di “etichette”, per strutturare il
proprio ambiente e contemporaneamente regolare le relazioni con gli altri nei contesti interetnici.
Diversamente da Mitchell e dal suo approccio cognitivista, Arnold Epstein, anch’egli esponente della Manchester school, propone una lettura e un’analisi del senso di identità etnica differente ma anche complementare a quella di Mitchell. Epstein che, nel suo lavoro
30 Le parole del titolo del lavoro di R. Bastide del 1956, La casualité externe et la casualité interne dans
l’explication sociologique, in Cahiers internationaux de sociologie, n. 21, pp. 77-99, esprimono al meglio la
complessità della duplice funzione dell’etnicità.
31 J. Clyde Mitchell, 1976, traduz. It., La danza della Kalela. Aspetti dei rapporti sociali tra gli Africani in una
comunità urbana della Rhodesia del nord, in V. Maher ( a cura di), Questioni di etnicità, 2008, Rosenberg &
Sellier, p. 73.
del 197833, mette a frutto sia gli studi fatti tra i Tolai della Papua Nuova Guinea negli anni Cinquanta, sia quelli compiuti sul gruppo africano dei Bemba, nella zona della Copperbelt, sia le testimonianze scaturite dall’osservazione delle seconde generazioni di Ebrei, negli Stati Uniti, profondamente e inevitabilmente influenzate dalla sua personale esperienza di ebreo della Diaspora, si colloca in una posizione mediana, dichiarando espressamente di ritenere validi, nel considerare i meccanismi dell’origine del sentimento dell’appartenenza etnica e quello del suo mantenimento, sia l’approccio primordialista che quello situazionalista. Per Epstein, infatti, l’etnicità non è soltanto la somma di elementi soggettivi, cognitivamente selezionati per assolvere alla funzione di auto ed etero-riconoscimento, ma anche l’insieme di elementi oggettivi a carattere sociologico, in cui gioca un ruolo centrale la carica emotiva e affettiva del sentimento dell’appartenenza etnica. In altre parole l’identità etnica per Epstein, è sicuramente influenzata dall’altro, da una percezione e da un’etichetta spesso negativa imposta dall’esterno: ciò nonostante viene nutrita anche da certe esperienze affettive che contribuiscono alla formazione dell’identità individuale sin dalla tenera età, come ad esempio dal rapporto con i nonni che molto più dei genitori assolvono alla funzione di trasmissione dell’eredità culturale. A questo proposito nel tentativo di asserire con forza la propria prospettiva nell’affrontare l’analisi dell’origine del sentimento etnico, l’autore scrive:
<< Riflettendo su tutto ciò si fece strada in me la convinzione che il solo punto fermo del problema fosse rappresentato dalla grande carica emozionale che sembra circondare o stare alla base di buona parte del comportamento etnico; ed è proprio questa dimensione affettiva del problema che mi sembra mancare in tanti recenti tentativi di trattare la questione.>>34
33 A. L. Epstein, 1983,op.cit. p.37. 34 Ibid. pag. 9.
Per Epstein, inoltre, non è possibile parlare di etnicità solo nel caso in cui gruppi di diversa appartenenza si trovano a convivere in uno stesso spazio fisico, perché in questi casi l’etnicità assolve alla sua funzione classificatoria, con il risultato di creare delle categorie che in quanto tali sono sovraindividuali, per dirla con le parole di Bromlej35. Proprio la sovraindividualità, continuando a seguire lo schema dell’etnografo russo, è la garanzia epistemologica dell’esistenza di un gruppo etnico; una dimensione esogena della rappresentazione collettiva che va a scapito, secondo Epstein, di quella endogena individuale, che d’altronde è molto difficile rendicontare anche per la sua fisiologica variabilità. Un ulteriore punto fermo della teoria di Epstein sta proprio nella dimostrazione della vulnerabilità della dimensione individuale ad un certo dinamismo e/o circostanzialismo non per forza indotto da forze esterne, come testimoniano le seguenti parole dell’autore:
<< […] nessuno di noi ha una singola identità: come membro della società ognuno di noi porta contemporaneamente su di sé tutta una serie di identità, proprio come ognuno di noi riveste simultaneamente un certo numero di status e ricopre una molteplicità di ruoli.>>36
A conferma di questo ragionevole assunto, che in qualche modo anticipa quelle che saranno le posizioni postculturaliste, mi sento di citare, anche per la mia esperienza biografica di studentessa e lavoratrice “fuori sede”, parte di un racconto di Vanessa Maher37, la cui eloquenza è utile al discorso sulla plasticità della dimensione individuale del senso di appartenenza etnica e delle sue continue manipolazioni.
Vanessa Maher, nella cura editoriale della raccolta di saggi sull’etnicità scritti dai principali autori della Manchester School, racconta un suo viaggio in treno per andare in Germania durante il quale incontra un signore siciliano che le racconta di vivere in Germania da sedici
35 J. V. Bromlej, 1973, Etnos e etnografia, Ed. Riuniti 36 A. L. Epstein, 1983, op. cit. pag. 181