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L’IDENTITÀ ETNICA E CULTURALE: ANALISI DEGLI SVILUPPI E DELLE RELATIVE TRASFORMAZIONI IN ALCUNI MOMENTI DEL PENSIERO ANTROPOLOGICO.

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UNIVERSITÁ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA E CIVILTA’

L’identità etnica e culturale:

analisi degli sviluppi e delle relative trasformazioni

in alcuni momenti del pensiero antropologico

RELATORI

CANDIDATA

Prof. Fabio Dei

Antonella Patrizia Tartaglia

Prof.ssa Caterina Di Pasquale

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                  Alle mie metà…   che nascono insieme  per poi dividersi   e unirsi di nuovo   con perseveranza  in un’unica essenza.  A Peppe, Alice e Irene. 

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Ringraziamenti

Ringrazio il professor Fabio Dei, per la sua disponibilità e gentilezza; per avermi dato fiducia nella realizzazione di questo lavoro.

Ringrazio la Professoressa Caterina Di Pasquale per aver accettato di collaborare come correlatrice della tesi.

Ringrazio il personale della biblioteca comunale SMS di Pisa e della biblioteca di Storia e Filosofia per avermi concesso prestiti di libri e articoli anche molto difficili da reperire.

Ringrazio la Dea della Perseveranza, mia grande musa in questo lungo e discontinuo viaggio e mia madre che ne ha fatto le veci nei momenti più difficili.

Ringrazio il mio compagno per il supporto tecnico che mi ha elargito e per l’infinita pazienza che mi ha accordato in questi ultimi mesi; ringrazio, infine, le mie figlie per avermi dato ritmo e positività.

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Indice

Introduzione ……….. 3

1.0 La definizione ed evoluzione dell’ethnos nell’antropologia classica ... 8

1.1 La costruzione epistemologica del sapere etnografico ……… 13

1.2 La scuola americana: l’approccio idiografico e la matrice assimilazionistica ……... 19

1.3 La rivoluzione etnografica europea ………... 25

1.4 Lo sviluppo del contatto culturale nell’antropologia sociale britannica ……… 29

1.5 Lo sviluppo di alcune teorizzazioni dell’ethnos nel panorama sovietico ………... 34

1.6 Il relativismo etico del secondo dopoguerra e il tramonto del funzionalismo ……... 38

2.0 Il passaggio dall’ethnos all’etnicità ..……….. 43

2.1 I contributi della Scuola di Manchester nell’analisi del Social change ……….. 46

2.1.1 Primordialisti, Situazionalisti e Strumentalisti nella trattazione dell’etnicità ….. 52

2.1.2 L’etnicità come processo sociale ……… 60

2.2 Dal confine alla frontiera etnica ………... 67

3.0 La globalizzazione e i cambiamenti della prospettiva antropologica ………… 76

3.1 L’antropologia postmodernista: alcuni cenni ....………. 83

3.2 Le culture come flussi transnazionali di soggettività reali, virtuali e immaginate ……. 88

3.3 Culture meticce e interconnesse .……… 94

3.4 Dal métissage alla creolizzazione delle culture ..……….. 101

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4.0 La crisi epistemica della cultura e dell’identità ……… 111

4.1 La sintesi operata dall’antropologia della contemporaneità ……… 116

4.2 Un modello etnografico di sintesi: il popolo dei “senza memoria” di Tahiti …….… 121

4.2.1 La memoria ma’ohi ritrovata attraverso i linguaggi dei passeurs culturels ... 127

4.3 La creatività culturale delle società oceaniane contemporanee ……….. 137

Epilogo ……… 144

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INTRODUZIONE

La centralità del tema identitario legato all’ethnos è da sempre presente nella nostra cultura, ben prima che i fenomeni migratori transnazionali comportassero una presa di coscienza improvvisa dal carattere emergenziale che la globalizzazione, l’integrazione di altre culture e il confronto con altre identità, rappresentano per la società contemporanea. Oggi tuttavia, più che nel passato, in cui il concetto di etnia risultava associato ad un discorso specialistico, si assiste ad un uso massiccio del concetto di identità etnica anche nel linguaggio comune, sia sui media che nella retorica politica. È sintomatico che ci si trovi sempre più spesso a parlare di identità e di differenze etniche e culturali proprio mentre la globalizzazione ci avvolge ogni giorno di più nel suo “mantello” uniforme. In realtà non si tratta di un fenomeno insolito, ma di una reattività umana soggettiva e collettiva piuttosto comprensibile, indotta dalle preoccupazioni e dalle incertezze identitarie del momento: la paura di essere uguali agli altri ci porta ad “indossare abiti più vistosi e sgargianti”. Per sancire e definire la nostra diversità, le nostre peculiarità etniche e culturali, si ricorre spesso a usi essenzialistici di tali concetti che si approvvigionano dalla logica binaria e oppositiva, che contrappone l’identità all’alterità, la modernità al passato, l’autenticità alla finzione. Una logica, questa, costruita a tavolino dal Sapere occidentale, funzionalmente alla realizzazione dei progetti nazionalistici europei, tra il XVIII e il XIX secolo e dei progetti di conoscenza geografica e di espansione territoriale nel resto del mondo. Nello stesso contesto storico l’adozione del termine ethnos insieme a quello di anthropos entra nella sistematizzazione delle discipline scientifiche dello studio dei popoli, che contribuiscono alla costruzione della legittimità dello sguardo dell’uomo europeo sugli altri popoli, attraverso la definizione della sua autenticità e superiorità culturale. Con la nascita dell’etnologia alla fine del Settecento, lo sviluppo iniziale delle teorie sulle differenze etniche avviene sotto l’influsso delle teorie evoluzionistiche e della problematica delle origini, che indirizzano gli studi alla ricerca delle culture cosiddette “primitive” e la cui artificiosa

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individuazione si trasferisce dal piano empirico-etnografico a quello epistemologico, sancita dalla altrettanto artificiosa distinzione tra “società semplici” e “società complesse”. L’etnologia crea un riferimento empirico di primordialità che,“rimpolpato” dalle speculazione antropologica ottocentesca, si presta a servire le missioni di civilizzazione predisposte dai governi coloniali, attraverso procedimenti di etnicizzazione dei popoli assoggettati, essendo questi inseriti nelle strutture organizzative amministrative. Dunque, se il concetto di etnia per tutto il XIX secolo resta un’appendice dello studio delle società

primitive, a partire dal XX secolo, comincia ad oltrepassare i confini del discorso scientifico,

entrando a pieno titolo nel gergo politico-amministrativo, pur non perdendo l’accezione

razziologica e biologica del suo significato.

Lo spostamento semantico dalla dimensione biologica a quella socio-culturale del concetto di

etnia è rintracciabile nella svolta sociologica dell’antropologia britannica, che, tra la fine del

XIX secolo e la prima guerra mondiale, comincia ad impiegare il termine ethnic group, al posto di razza. Le società tribali vengono osservate funzionalmente ai nuovi indirizzi disciplinari tesi a evidenziare le differenze delle organizzazioni sociali e non più quelle fisiche. In questa versione depurata, il termine etnia contraddistingue una nuova metodologia di ricerca antropologica “sul campo”, diventando un’unità di analisi che, pur prendendo le distanze dalle ascrizioni biologiche della diversità, continua a condividere con il vecchio termine razza alcune analogie sostanziali: l’idea di gruppi umani chiusi, autoreferenziali, isolati, immobili nel tempo e segnalati non più da caratteristiche fisiche, ma da un inventario di tratti culturali e di modelli di organizzazione sociale e rituale. Il compito di inventariare, in modo quanto più esaustivo, le varie attitudini e consuetudini sociali delle “società tradizionali”, funzionale alla necessita amministrative dei governi coloniali, si trasforma ben presto in una strategia di invenzione delle etnie nei territori colonizzati, che acquisiscono anche dei nuovi nomi, più facilmente pronunciabili dagli Europei.

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Con le prime esperienze di decolonizzazione, a partire dalla seconda metà del Novecento, la sensazione di inadeguatezza della pratica antropologica classica si traduce nella necessità di superare il sostanzialismo antropologico. L’etnia cessa di essere una categoria dell’osservatore per diventare gradualmente un attributo del soggetto osservato, con un’attenzione crescente alla dinamica sociale, alla contestualità storica, al cambiamento e al conflitto. Con Evans-Pritchard, si può dire, che inizia la fase della riflessione antropologica sul “punto di vista del nativo” che si innesta con l’insorgere dei grandi mutamenti storici, come il tramonto degli imperi coloniali, l’occidentalizzazione del Terzo mondo, i nuovi flussi e traiettorie di immigrazione e i nuovi fenomeni di urbanizzazione. Questi cambiamenti finiscono per minare anche la classica distinzione tra “società tradizionali” e “società complesse”, che non appare più adeguata a rappresentare le trasformazioni in atto.

Sulla scorta degli studi degli antropologi africanisti della scuola di Manchester, l’etnia perde definitivamente il suo statuto classificatorio e annoverativo, per diventare un elemento di indagine sulla percezione e sulla natura dell’operatività del sé collettivo. Il concetto di etnia si trasforma così in etnicità, che diventa trasversale a tutte le società, “tradizionali e complesse”, in quanto acquisisce un criterio emico di appartenenza, da utilizzare, in modo strategico o

situazionale nella relazione con gli altri gruppi etnici e con le altre culture. L’etnicità, con

Barth, si configura in un processo sociale di relazione interetnica, la cui stabilità, tuttavia, non riesce a tenere il passo con i cambiamenti sociali, politici, economici che tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento confluiscono nel delineare nuovi scenari di umanità.

Con i primi fenomeni della globalizzazione, con il crollo del totalitarismo dell’impero sovietico sotto la spinta della forza centripeta delle rivendicazioni identitarie ed etniche delle ex-repubbliche socialiste, con la crisi degli stati nazionali e dei loro confini, l’etnicità diventa un’appropriazione riflessiva finalizzata a rivendicare i diritti calpestati o al fine di competere per l’accesso alle risorse. L’etnicità si inscrive pertanto nelle politiche di self-ascription e di

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richieste di riconoscimento identitario e culturale che diventano delle risposte persuasive e trascinanti da opporre agli effetti omologanti della globalizzazione.

Proprio le traiettorie operative della globalizzazione e i grandi cambiamenti del

paesaggio-mondo, dove non esistono più i “primitivi” e non ci sono più “quelle condizioni di

separatezza” tra i gruppi umani, e “tra gli antropologi e i loro oggetti”, inducono l’antropologia a prenderne atto, risemantizzando la tensione tra identità e alterità, sostituendo la logica oppositiva a quella delle interconnessioni, dei prestiti e delle filiazioni tra le culture. Le teorie dei flussi culturali, delle ibridazioni e dei meticciamenti culturali, da una parte, e dell’operatività delle rivendicazioni identitarie, sempre più emergenti, dall’altra, confluiscono in un’antropologia postmoderna che non rinuncia neanche alle motivazioni post-coloniali per smontare letteralmente i concetti di identità e di etnicità e cominciare a “scrivere contro la cultura”.

A “mettere in salvo”, tuttavia, l’antropologia e ad operare una sintesi che mette fine alla diaspora epistemica, interviene un approccio interpretativo che si focalizza sulla costruzione e sulla condivisione dei significati culturali di appartenenza; per cui l’identità etnica e culturale acquisiscono validità e attendibilità epistemica nel momento in cui esse diventano una cornice operativa da parte dei gruppi che ci si identificano, differenziandosi dagli altri gruppi. Nell’interpretazione delle culture e delle etnicità cosi definite non viene, inoltre, tralasciata la formazione storica dei significati legati all’identità culturale ed etnica, da cui naturalmente ne emergono gli squilibri politici ed economici del passato coloniale e della ripartizione iniqua del capitale. Diventa importante, pertanto, per l’antropologia contemporanea “prendere sul serio le politiche di identità” perché continuano a manifestarsi in tutto il mondo sotto-forma di rivendicazioni ancorate al passato, ma anche sotto-forma di re-invenzioni creative che proprio dal passato della dominazione coloniale e dalla dinamicità della globalizzazione prendono spunto per costruire nuovi modelli identitari. Modelli, come quelli caraibici ed oceaniani, che

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incarnano processi simbiotici di costruzione multiculturale, metabolizzando anche le ricostruzioni degli occidentali e producendo soluzioni ibride, creative e progressive.

I risultati molto potenti e suggestivi di rinnovamento culturale e di convivenza interetnica spingono gli antropologi a disfarsi dalla “cassetta degli attrezzi” dei modelli dualistici-oppositivi per immaginare e interpretare la costruzione culturale.

Piano dell’opera

Il lavoro di tesi è suddiviso in quattro capitoli. Nei primi due capitoli presento alcune riflessioni teoriche sullo sviluppo del concetto di etnia, privilegiandone un approccio fenomenologico al fine di evidenziarne meglio la dinamicità del concetto e dei paradigmi teorici che l’hanno accompagnato lungo alcuni momenti salienti del pensiero antropologico. Nel terzo capitolo ho ampliato l’analisi, con un approccio più sincronico, allo sviluppo delle politiche identitarie alla luce dei fenomeni della globalizzazione e delle relative interpretazioni da parte dell’antropologia contemporanea, con un’attenzione particolare ai dibattiti interni alla disciplina sull’ermeneneutica epistemica in rapporto al soggetto culturale. Nel quarto ed ultimo capitolo, alla stregua del monito di “prendere sul serio le politiche di identità”, esamino i risultati sorprendenti e inaspettati del rinnovamento culturale della società di Tahiti, nella Polinesia francese e del popolo Kanak della Nuova Caledonia.

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1.0 LA DEFINIZIONE ED EVOLUZIONE DELL’ETHNOS NELL’ANTROPOLOGIA CLASSICA.

Il concetto di etnia/ethnos è di difficile definizione, e, nonostante il suo ruolo fondativo e fissativo nelle scienze etno-antropologiche, è tutt’altro che una categoria scientificamente apprezzabile, con oscillazioni di significati e di interpretazioni che raffigurano fedelmente l’evoluzione delle rispettive concettualizzazioni nella storia del sapere antropologico ed etnografico.

Dal Greco antico la parola έϑνοζ (ethnos/etnia)indica molti significati, tra cui: popolo, stirpe, folla, gruppo di persone, gens. L’analisi etimologica di questa parola consente di individuare in essa l’indicazione di qualsiasi insieme di persone, dotate di alcune proprietà comuni (lingua, cultura, religione, tradizioni, ecc.), che diventano, già nelle società preclassiste, i “mattoncini” su cui costruire la propria identità in modo da assicurare e fissare contemporaneamente un’accomunanza interna ed una diversità dall’esterno.

Nella Grecia antica, da Omero ad Aristotele, risulta che a questa parola fossero attribuiti i significati di “branco, sciame, gruppo”. Successivamente, nella letteratura storica del V e del VI secolo a. C., questo termine cominciava ad essere utilizzato per indicare i significati di “stirpe, popolo”, ma con un’accezione negativa e discriminatoria da riferirsi alle stirpi non

Greche1. Con questa valenza semantica, il termine, durante il Medioevo, veniva impiegato

nella traduzioni della Bibbia al plurale (ethnè) e indicava i pagani, i non-cristiani, gli idolatri.

      

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Con la progressiva identificazione del Cristianesimo con tutto l’Occidente, questa parola, come sostiene F. Dei nel suo lavoro del 2012, indicherà in modo dispregiativo tutti i popoli non occidentali e bisognerà aspettare la fine del XVIII secolo per conoscerne un uso relativamente neutrale2.

Infatti, proprio nel XVIII secolo, le scoperte geografiche, il crescente sviluppo delle politiche coloniali dei paesi Europei verso l’America, l’Oceania, l’Africa e la possibilità di creare un ramo del sapere che descrivesse le vicende e le espressioni umane nella loro diversità, così come la fisica aveva fatto per la natura inanimata, spinse molti intellettuali del tempo (viaggiatori, politologi e filosofi), a idealizzare e collocare le origini dell’uomo, traendo spunto dai primi resoconti etnografici, lungo un percorso evolutivo che concettualmente poneva l’uomo tribale e selvaggio sullo stesso piano dell’uomo primitivo. Una volta scongiurate le ipotesi creazioniste, secondo le stesse dissertazioni filosofiche, l’uomo dallo

stato naturale, grazie alle sue capacità raziocinanti e di adattamento alle condizioni materiali,

che gli avrebbero consentito di inventare un numero sempre maggiore di istituzioni, costumi e processi di sussistenza efficienti, avrebbe intrapreso gradualmente il percorso verso la civilizzazione, incarnato dagli ordinamenti sociali, politici e istituzionali degli stati europei. Non pochi sono gli studiosi che confermano che per tutto il XIX secolo, il parallelismo tra Europei “preistorici” e “selvaggi esotici”, fosse l’assunto centrale di tutto il pensiero dell’antropologia evoluzionista3. In quest’ottica i racconti etnografici, gradualmente sempre più specialistici grazie alle indicazioni di metodo in merito alla raccolta dei dati, redatte dagli antropologi delle varie Società etnografiche, assolvevano alla funzione di coadiuvante empirico nella costruzione dell’impianto teorico evoluzionista, mettendo a punto un sistema di riferimento, il metodo comparativo, che avrebbe reso maggiormente plausibili e scientifici i risultati dei confronti tra popoli Europei e “ gruppi di selvaggi extra-Europei”. Rispetto a

      

2 F. Dei, 2012, Antropologia culturale, Bologna, Soc ed. Il Mulino, p. 35.  3 U. Fabietti, 2001, Storia dell’antropologia, Zanichelli ed., p. 14 

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quest’ultimi, evidentemente, dalla fine del XVIII e per tutto il XIX secolo, non si parlava ancora di comunità etnicamente definite, contraddistinte da un patrimonio culturale comune ed autonomo, nonostante qualche pioneristica opera etnografica4, perché mancavano quei sistemi concettuali di riferimento che, solo un secolo dopo, avrebbero permesso di associare alle realtà etniche, i concetti di evoluzione multi-lineare, di approccio storicistico, di esaustività e dignità culturale, di limiti dell’etnocentrismo.

Per gran parte del XIX secolo, dunque, se da una parte mancava ancora un paradigma teorico di riferimento per l’attribuzione alle società elementari, che erano rientrate nello “sguardo” del sapere dell’occidente e nel suo progetto di espansione territoriale, di una propria autonomia culturale ed etnica, dall’altra, la speculazione filosofica relativa all’identità dello stato-nazione e alla determinazione della volontà collettiva del popolo/volk finivano per posizionare aprioristicamente, ad uno stadio germinale del percorso evolutivo, tutte quelle formazioni umane e sociali che non rientravano o che non aspiravano a tali paradigmi teorici e statutari. In quest’ottica, tutte quelle società tribali e comunità apolitiche, razzialmente definite, venivano osservate dalla società dominante, dalla civiltà occidentale, come comunità di uomini selvaggi senza storia e senza relazioni, sezionate come delle cavie scientifiche e quindi giudicate in base a criteri e riferimenti gnoseologici occidentali. Esse restavano delle “nazioni per difetto”5, oppure delle comunità di “individui che aspiravano a diventare

nazione”6, non avendo ancora costruito, secondo gli osservatori Europei, quegli assiomi identitari e postulati fondativi necessari ad assurgere alla dignità e all’identità di popolo. Anche Francesco Pompeo in un suo recente lavoro di analisi e revisione dei concetti classici

      

4 Il riferimento va all’opera antesignana di Adam Ferguson, An Essay on the history of civil society, 1767, in cui

l’autore preconizza il pericolo di deformazioni etnocentriche nel descrivere i popoli “esotici”. A questo proposito egli scrive: <<Il nostro metodo[…] consiste troppo spesso nel far poggiare la totalità sulla

congettura; nell’attribuire ogni vantaggio della nostra natura a quelle arti che noi stessi possediamo; e  nell’immaginare  che  una  pura  e  semplice  negazione  di  tutte le nostre virtù sia una descrizione sufficiente dell’uomo nel suo stato originario. Noi poniamo noi stessi a modello di civiltà e di cortesia, e dove, non compaiono le nostre caratteristiche, giudichiamo che non ci sia nulla che valga la pena di conoscere. […]>>. 

5 U. Fabietti, 2002, L’Identità etnica, Roma, ed. Carocci, p. 29  6 Ibid.  

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dell’antropologia, nel ripercorrere l’impianto teorico del concetto di etnia, in particolare alla fine del XVIII secolo, ne parla come una “[…] sorta di nazione diminuita e incompiuta, che

cerca la sua legittimazione nell’esistenza del popolo quale cardine di un progetto ideologico di realizzazione statuale”7. Questa definizione naturalmente rifletteva e ricapitolava le concezioni di una società, quella europea, che era in procinto di costruire e rinsaldare le proprie istituzioni nazionali, la propria legittimità identitaria legata ad un progetto statuale collettivo e quindi una visione comune dell’alterità; una visione che attrezzatasi di scrittura e di costruzioni epiche con obiettivi divulgativi, ha continuato nel tempo a penetrare il pensiero dell’uomo comune e a forgiare la considerazione dell’altro diverso con accezioni negative, sinonimo di “primordialità”, di “bestialità, di “minorità. È proprio nel XIX sec. che si comincia a profilare un approccio scientifico all’identità etnica, da un lato, e uno “non scientifico”, dall’altro8. Diversamente, infatti, dagli sviluppi degli assunti antropologici, che nel primo scorcio del XX sec., identificheranno nei gruppi etnici, forme di comunità coese, legate ad un’origine unitaria, reale o presunta, e dotate di un patrimonio culturale e sociale autonomo ed esaustivo, il concetto di etnia ha continuato a conservare nel linguaggio comune un’accezione e una connotazione negativa che dalla “nazione incompiuta” del XIX secolo, è giunta fino ai nostri giorni, sotto la veste di “minoranza”, possibilmente non occidentale. E’ molto più probabile che i tamil, siano considerati un gruppo etnico della regione del Tamil del sud-est dell’India, come d’altronde è confermato dalle informazioni generiche che circolano sul web relativamente a questo gruppo, e non che lo siano i tedeschi o gli italiani o i francesi. Su questa convergenza che da semantica diventa ontologica, [….] almeno negli scritti non

specialistici, concorda anche Fabio Dei che, nel suo lavoro sopra citato, scrive: […] Noi usiamo sempre l’aggettivo etnico per gli altri, e in specie di riferimento a realtà minoritarie all’interno di un singolo stato-nazione, o a realtà che storicamente si collocano al di fuori di chiare identità nazionali e statali. Noi non       

7 F. Pompeo, 2002, Il mondo è poco, Meltemi edizioni, p. 80  8 V. Bitti, 1995, Ancora sull’etnicità, in Ossimori, n.6, p.25. 

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siamo mai “etnici”, non lo è la grande cultura, quella dominante. Etnici sono gli altri, i più arretrati, i più poveri, le minoranze.9

L’evoluzione del discorso “non scientifico” del concetto di etnia e soprattutto del suo utilizzo fortemente referenziale nel linguaggio comune segue, in modo molto più speculare, rispetto ai tempi a noi più vicini, le inclinazioni, a volte anche sconcertanti, dell’indagine socio-antropologica ai suoi primissimi esordi.

Tra la fine del XVIII e il XIX secolo, in funzione della spinta esplorativa lanciata dai stati europei e investigativa sulle origini dell’uomo, come parte integrante di una comunità coesa e biologicamente perpetuata, vengono realizzati i primi tentativi sistematici di classificazione dei gruppi umani. Vengono compilate le prime opere a carattere etnografico e archeologico, che tendono, con un registro moralistico e polemico, ad accentuare il carattere razziale, non ancora etnico, delle caratteristiche fisiche riscontrate nell’osservazione di “queste orde di uomini selvaggi”, la dimensione tribale delle loro organizzazioni sociali e il carattere amorale e licenzioso dei loro costumi. Il concetto di etnia è ancora in questo secolo equivalente al concetto di razza, nella sua valenza semantica e nel suo utilizzo come parametro classificatorio; esso non subisce sostanziali variazioni rispetto ai secoli precedenti, se non quello di diventare una categoria oppositiva e una contrappeso funzionale al progresso e alla civiltà occidentale che proprio su questo cardine ontologico costruisce la propria superiorità e legittimità.

      

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1.1 LA COSTRUZIONE EPISTEMOLOGICA DEL SAPERE ETNOGRAFICO.

Le esplorazioni geografiche, i racconti e resoconti dei viaggi da parte di funzionari coloniali, missionari e scienziati, stimolano la necessità di sistematizzare , di uniformare gli strumenti di raccolta-dati; necessità che, se nella sua fase embrionale, è caratterizzata da isolati, goffi e polemici tentativi di ricognizione da parte di studiosi particolarmente alacri, si trasforma progressivamente nella costruzione di sistemi di classificazione e di novero. Tali sistemi, erogati da strutture di ricerca a carattere nazionale, come furono le prime società etnologiche, provvidero a fornire espedienti utili, da cui attingere per rendere maggiormente esaustivi i racconti etnografici funzionalmente sia alla speculazione antropologica “da tavolino”, sia alle necessità amministrative. E’ questo il caso, secondo U. Fabietti, della “cosiddetta antropologia scientifica”10, che si propone di “costruire gli oggetti di riflessione tipici del sapere

antropologico: le società e le culture umane”.11 In Europa, infatti, a partire dalla fine del Settecento, la riflessione sull’uomo, propensa ad assurgere a scienza dell’uomo, punta a “trasferire, in questo settore d’indagine, le procedure analitiche delle scienze naturali”12. Tra i primi tentativi di raccolta di dati etnografici, va sicuramente citata l’opera di Joseph François Lafitau ( 1681-1746), missionario gesuita in Canada che nel 1724 pubblicò uno dei primi studi comparati sulla religione: Moeurs des sauvages Amériquains, comparées aux

moeurs des premiers temps. In quest’opera, al fine di dimostrare che presso tutti i popoli è presente l’idea di un essere supremo, Lafitau utilizza il metodo comparativo come strumento di indagine, che gli consente di fare una classifica delle istituzioni in voga presso gli Irochesi e gli Uroni, della zona dei Grandi Laghi Nordamericani, mettendole a confronto con quelle della antiche popolazioni Greche. È proprio la selezione degli elementi comparativi, più che le considerazioni desunte dal confronto, che ha un valore nell’inquadramento sulle conoscenze

      

10 U. Fabietti, 2002, L’identità etnica, storia e critica di un concetto equivoco Roma, ed. Carocci, p. 25  11 Ibid.  

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della teoria sociale del tempo, e che coerentemente ai propri cardini gnoseologici, rappresenta un modello antesignano di ricostruzione etnografica13 molto evocativo.

Categorie di Lafitau

Religione Governo politico Matrimonio e educazione Occupazione degli uomini

Occupazione delle donne

Guerra Commercio Giochi Morte, sepoltura e lutto Malattie e medicina

Lingua

Un altro grande etnografo del XVIII sec., caduto più volte nell’oblio e più volte riabilitato da antropologi nei secoli successivi, fu Jean Nicolas Deumeunier che, pur non avendo compiuto personalmente dei viaggi esplorativi, si dedicò, oltre alla sua intensa attività politica a sostegno della causa rivoluzionaria francese, alla traduzione di resoconti di viaggi compiuti in diverse zone della Terra. Nel 1776 Deumeunier pubblicò L’esprit des usages et des coutumes

des différents peuples, in cui le categorie etnografiche14, quindi i termini di paragone, rispetto a quelle di Lafitau, non solo aumentano di numero, ma si specializzano e si diversificano maggiormente, confermando, per antitesi, l’assenza di una categoria concettuale e metodologica unificante, come quella di cultura che verrà introdotta solo un secolo dopo da Edward B. Tylor. Possiamo qui accennare il dato per cui grazie alla definizione di Tylor, e soprattutto grazie al suo utilizzo nelle prime speculazioni etno-antropologiche, verrà, da un lato, semplificato il processo di raccolta-dati e di accostamento dei termini di confronto corrispondenti a dettagliati elementi della vita sociale, familiare, politica o rituale,

      

13 Questa schematizzazione è citata in M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico,1971, Bologna soc.

ed. Il mulino, p. 25. 

14 Le categorie etnografiche di Demeunier, includevano: il cibo e la cucina, le donne, il matrimonio, la nascita e

l’educazione dei bambini, i capi e i governanti, i modelli di bellezza, la nobiltà, la guerra, la servitù e la schiavitù, le differenze di rango, la modestia, l’ornamento e lo sfiguramento del corpo, l’astrologia, la magia, la società, ecc. ( la lista ne include tanti di più); non è presente la religione. Testo citato in M. Harris, 1971,

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permettendo l’assembramento degli stessi in un’unica cornice e adeguandoli ad uno stesso livello di trattazione e, dall’altro, verrà contemporaneamente determinato uno spostamento ontologico della trattazione della varietà dei gruppi umani, da tipologie zoomorfologiche a comunità di uomini, non più preistorici e preculturali, ma con peculiari identità etniche e culturali acquisite. Prima di arrivare all’impiego del concetto di cultura come paradigma

etno-differenziatore15 centrale, tuttavia, altri tentativi vengono fatti; dal confronto sempre più sistematico con altre “forme” di umanità, emerge la necessità a cavallo tra il XVIII e il XIX sec., funzionale alle esigenze di classificazione e di censimento delle amministrazioni coloniali, di avere dei cardini teorici ed empirici in grado di riunire e organizzare le varie rendicontazioni sulle principali differenze riscontrate nelle comunità tribali osservate, soprattutto rispetto alle medesime categorie degli uomini civilizzati dei rispettivi ordinamenti statuali.

È in questo quadro che si colloca Alexandre de Chavannes, teologo e antropologo Svizzero, autore nel 1788 di una monumentale opera “Antropologia o scienza generale dell’uomo come

introduzione allo studio della filosofia e delle lingue e come piano di formazione intellettuale” in cui, precisamente nel terzo volume, introduce il temine “etnologia”, definita

come <<la scienza dell'uomo considerato come appartenente ad una specie molto diffusa sul

globo e divisa in diversi settori delle società, o in nazioni, occupata a soddisfare i propri bisogni e gusti, più o meno civilizzata>>16. Questa definizione seminale, che rifletteva la

speculazione universalistica del Secolo dei Lumi sull’uomo e sul suo cammino verso la civiltà/civilizzazione, sarebbe diventata un punto di riferimento per le scienze etno-antropologiche, prima ancora, appunto, dell’invenzione etno-semantica del concetto di

Cultura. Con essa sostanzialmente si riconosceva con ufficialità il ruolo dell’etnologia come       

15 J. V. Bromlej, 1973, Etnos e etnografia, Ed. Riuniti 

16 A. de Chavannes, 1788, Anthropologie ou science générale de l’homme, pour servir d’introduction à l’étude

de la Philosophie et des langues, et de guide dans le plan d’éducation intellectuelle, Losanna, stampa Isaac

Hignou, p. 57; Vol. 3. Ethnologie ou Science de l'homme consideré comme appartenant a une espece

repandue sur le globe et divisée en divers corps de societés, ou nations, occupées a pourvoir a leurs besoins ou a leurs gouts, et plus ou moins civilisées; testo originale presente su www.jstor.org.  

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la nuova scienza che avrebbe studiato la storia dei popoli in cammino verso la civilizzazione. L’etnologia e il metodo comparativo soprattutto consentivano per la prima volta di riconoscere comunità non ancora civilizzate ma coese, accomunate soprattutto da tratti fisici, da usi, costumi, rituali, ordinamenti politici e civili e dalla lingua; in base a questi elementi, oltre a ricavarne preziose e dettagliate descrizioni etnografiche, a volte al limite della fantasia, si costruiva progressivamente il cardine ontologico del sapere e della civiltà occidentale: il binomio ego civicus/alter ethnicus.

Nell’analisi postuma dell’evoluzione dell’antropologia classica e dei suoi cardini metodologici, è particolarmente calzante la sintesi proposta da U. Fabietti, secondo cui:

<<Il progetto comparativo è chiamato a restituire un senso alla Storia dell’Umanità disponendo su una scala evolutiva le società umane, chiamate a testimoniare, mediante la loro differenza, del progressivo sviluppo culminante nella società industriale del XIX sec.>>. 17

Nella temperie culturale del XIX sec., la nascita delle prime società etnologiche a carattere nazionale non è casuale; essa rappresenta il primo tentativo di uniformare il sapere etnografico secondo precise linee-guida metodologiche a cui attenersi per produrre resoconti etnografici plausibili, e rappresenta, altresì, la necessità di raccogliere, catalogare e conservare reperti archeologici e a carattere etnografico; attività questa che darà vita al settore museale dell’etnografia.

Nel 1839 a Parigi nasceva la prima Società etnologica, che, sorta per sistematizzare la raccolta dei dati etnografici, pubblicava con questo preciso intento L’instruction générale aux

voyageurs (istruzioni generali per i viaggiatori); lo stesso fece l’Ethnological Society di

Londra (1843), che nel 1874 con i medesimi intenti, pubblicò Notes and Queries on

anthropology .18

      

17 U. Fabietti, 2002, op. cit. p. 32  18 M. Harris, 1971, op. cit.

(20)

 

Con tutti i limiti possibili, forieri di una scienza ancora agli esordi, l’etnologia ha edificato il concetto di etnia e lo ha introdotto nella riflessione scientifica sull’uomo, come categoria descrittiva delle diversità del genere umano, avvalendosi del metodo più idoneo a posizionare le società tribali secondo una “gerarchia evolutiva”19: il metodo comparativo e ricorrendo alle stesse procedure analitiche delle scienze naturali. Considerati anche i grandi interessi economici e commerciali che facevano da background alla divulgazione dei resoconti etnografici e soprattutto delle dettagliate descrizioni dei prodotti e delle risorse dei biosistemi locali, anche il discorso “non scientifico” dei ceti medio-alti si arricchiva di una dimensione della diversità del genere umano secondo una gerarchia evolutiva che vedeva in cima l’uomo civilizzato europeo, tanto pervasiva e funzionale da entrare a pieno titolo nella liturgia del discorso politico nazionalistico. In questo modo i neo-stati-nazionali potevano contare su uno stato di diritto per promuovere politiche di espansione territoriale e per finanziare le spedizioni delle prime compagnie commerciali.

Rispetto ai cardini pre-antropologici20, un primo importante paradigma teorico in grado di disgregare progressivamente le lacune metodologiche delle conclusioni evoluzionistiche derivanti dall’osservazione delle società tribali, fu messo in pratica, come accennato sopra, dalle applicazioni del concetto di cultura, la cui definizione, pubblicata nel 1871 in Primitive

Culture ad opera di Edward B. Tylor (1832-1919), registrò una forza innovatrice senza eguali

soprattutto per il suo ruolo illustrativo dell’esistenza di “tante culture quante erano le società umane”21. La definizione di Tylor di cultura come <<[..]insieme complesso che include la

conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e

      

19 U. Fabietti, 2002, op. cit. p. 54.  

20 Ho voluto definire i primi cardini dell’antropologia, pre-antropologici, per riferirmi agli sviluppi della

disciplina prima del 1871, anno in cui, con l’opera di E. Tylor, l’antropologia viene ufficializzata come disciplina nelle accademie. Il metodo comparativo e le considerazioni evoluzionistiche , tuttavia non cesseranno nel 1871 ma continueranno a caratterizzare l’antropologia classica fino ai suoi sviluppi novecenteschi.

(21)

 

abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società>>22 ebbe il merito di allontanare per sempre lo spettro dell’ereditarietà biologica dei tratti culturali, partecipando alla lenta trasformazione del concetto biologico di razza in quello culturale di etnia. Sebbene, il processo, anche all’interno del “discorso scientifico”, fu veramente lento, a causa della difficoltà di revisionare quel cardine fondativo secondo cui la superiorità culturale, sociale, politica ed economica epicamente costruita nei discorsi identitari degli stati nazionali europei con una forte vocazione universalistica, era assolutamente legittima e incontestabile. Le prime riflessioni antropologiche con i primi timidi tentativi di scalfire le concezioni a carattere universalistico e razziologico, non entrarono subito nei discorsi sull’uomo e sulla diversità del genere umano, né in quelli scientifici, né tanto meno in quelli comuni; come scrive Fabio Dei <<[…] l’antropologia Ottocentesca non rinuncia(va) all’idea di gerarchizzazione delle

culture>>23.

Le prime critiche più sistematiche al modello evoluzionistico, per ovvie ragioni di tipo storico e fenomenologico, vennero elaborate nel “nuovo continente”, nel contesto degli sviluppi dell’antropologia americana. Il paradigma teorico e metodologico centrale che infatti, consentì di avviare una perseverante critica all’antropologia evoluzionistica, venne rivelato dalle teorie idiografiche e storicistiche della Scuola Americana di Franz Boas. Questo antropologo, per aver scelto di collocare singoli aspetti delle culture native nel loro significato e nella loro costruzione storica, contribuì a segnare l’inizio di un nuovo capitolo nella metodologia etnografica, a partire dal superamento del metodo comparativo e della sua prospettiva olistica, e, nella teoria antropologica, per aver stabilito l’incommensurabilità della dimensione culturale, storicamente e socialmente determinata.

      

22 E. B. Tylor, 1871, Primitive culture: Researches into the development of Mythology, Philosophy, religion,

language, art and custom; testo intero tradotto in italiano in (a cura di) L. Bonin, A. Marazzi, Antropologia culturale, 1970, Milano, U. Hoepli ed. 

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1.2 LA SCUOLA AMERICANA: L’APPROCCIO IDIOGRAFICO E LA MATRICE

ASSIMILAZIONISTICA

Negli Stati Uniti d’America dell’ultimo scorcio del XIX secolo, furono i programmi di ricerca promossi dalla società etnologica Americana, Bureau of American Ethnology, fondata nel 1879 a stimolare la ricerca etnografica, avendo a disposizione come riferimento metodologico non società tribali scoperte negli angoli più remoti della terra, ma le etnie Amerindie del Nord, che, ormai assoggettate al controllo del territorio deciso dai coloni bianchi, si offrivano come laboratori di ricerca a portata di mano degli studiosi Americani. La diversa genealogia delle formazioni storiche, politiche e sociali degli Stati Uniti, rispetto a quelle europee, condizionarono in modo significativo gli orientamenti della ricerca etno-antropologica, sebbene, il motivo soggiacente e propulsore, in entrambe le realtà, restasse sempre la velleità di controllare economicamente e politicamente i territori d’oltre frontiera.

La scuola antropologica Statunitense nasceva grazie alle idee e al percorso accademico di proselitismo di Franz Boas (1856-1942), che operò a cavallo tra il XIX e il XX secolo. I suoi lavori contribuirono in modo decisamente nuovo ad uscire dalle strettoie concettuali e metodologiche dell’Evoluzionismo Ottocentesco e del Darwinismo sociale. Il suo merito principale, infatti, fu quello di rifiutare l’organizzazione sistematica delle culture tribali seguendo il filo evoluzionistico, che tendeva a classificarle in base al loro grado di progresso, avendo come metro di misura l’uomo civilizzato europeo. Un tale orientamento

comparativistico e generalizzante, definito nomotetico, aveva ostacolato, secondo Boas, lo

studio delle singole culture; limite a cui l’antropologo americano, che aveva osservato direttamente alcune culture native Kwakiutl del Pacifico Nord Americano, rispose in controtendenza, proponendo l’idea di concepire il lavoro etnografico come studio delle singole dimensioni di singole culture, <<[…] condizione preliminare di ogni progetto

(23)

 

comparativo>>24, scegliendo di collocarle nel loro contesto culturale nativo e ricercandone anche l’evoluzione storica.

Tracce di questo nuovo approccio allo studio delle culture native, teso a comprenderne l’esaustività interna, prima ancora di poterle paragonare a qualcos’altro, sono contenute nelle seguenti parole scritte da F. Boas:

<<Uno studio dettagliato dei costumi nella loro relazione con la cultura complessiva della tribù che li pratica, in correlazione con una ricerca della loro distribuzione geografica fra le tribù limitrofe, ci offre quasi sempre un mezzo per determinare con considerevole accuratezza le cause storiche le quali hanno portato alla formazione dei costumi in questione, ed ai processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo>>.25

 

L’approccio idiografico di Boas verso lo studio di singoli “fenomeni etnici”26, come lui attribuì, a titolo di esempio, ai disegni geometrici nell’arte primitiva, oppure al costume di usare le maschere, o ancora, alle modalità per accendere il fuoco27, a partire dai rispettivi

processi storici di formazione e di diffusione, contribuì a superare i limiti induttivi del

determinismo e a tracciare i principi costitutivi del metodo, successivamente definito, del

“particolarismo storico”28. Boas, alla ricerca delle singolarità culturali dei gruppi etnici, non tardò a manifestare, principalmente nell’opera “I Limiti del metodo comparativo” (1896), la sua

profonda avversione ad ogni tipo di generalizzazione argomentativa. Egli prese anche le distanze dalla metodologia induttiva degli antropologi evoluzionisti, preferendo ai resoconti di missionari o di agenti coloniali, destinati in un secondo momento all’interpretazione e alle deduzioni degli studiosi, la raccolta organica, sistematica e documentata dei dati sul campo.

      

24 U. Fabietti, 2001, Storia dell’Antropologia, Bologna, ed. Zanichelli, p. 44. 

25 F.Boas, 1940, Race, language and culture, New York, McMillan Co. , in I limiti del metodo comparativo in

antropologia, traduz. It., in Bonin, Marrazzi (a cura di) Antroplogia culturale, 1970, Milano,Hoepli ed.,

pp.127-135. 

26 Ibid. 27 Ibid. 28 Ibid.

(24)

 

Alfred Kroeber (1876-1960), antropologo, allievo diretto di Boas, scriveva di lui:

<< […] Boas fu un positivista costruttivo, per quanto riguarda i dati; egli raccolse instancabilmente i dati da culture e linguaggi sconosciuti, nella sua ricerca di una migliore comprensione dei processi. Per realizzare questa comprensione egli insistette, in contrasto con i suoi predecessori troppo speculativi, sulla necessità di situare nel contesto ogni fatto di cui si usa nel discorso; esso non deve essere strappato dalla sua matrice [….]”29.

Francesco Pompeo in suo recente lavoro30, propone un’interessante excursus sull’evoluzione dei mutamenti epistemologici e metodologici dei concetti di identità etnica, cultura e intercultura, partendo proprio dall’opera rivoluzionaria di Franz Boas, Anthropology and

Modern life del 1928 e confermandone il ruolo innovatore. Per quest’autore, l’opera Boasiana, durante la prima metà del’900 negli Stati Uniti, è la prima riflessione antropologica

che prende le distanze dal “determinismo razziale Ottocentesco”31 e dal “metodo comparativo

dell’antropologia32”. Nelle riflessioni postume sull’opera di Boas, c’è una sorta di unanimità

accademica, un consenso generale, nel considerala fortemente innovatrice, per il suo carattere anti-evolutivo e anti-speculativo, nella motivazione e nella metodologia; un’unanimità restituita anche dalle affermazioni inequivocabili dello stesso Boas che scriveva:

<<[…] tutti i tentativi ingegnosi di costruire un vasto sistema dell’evoluzione della società hanno un valore molto dubbio, […]>>33.

Boas e gli allievi della sua scuola, tra cui Alfred Kroeber, Robert Lowie, Melville Herskowitz, attraverso indagini idiografiche di tipo storicistico, studiavano i processi per la formazione e la trasmissione dei fatti culturali all’interno dei gruppi etnici, riconoscendo il ruolo determinante del contesto socio-culturale e della relativa processualità storica. In questo

      

29A. L. Kroeber, The nature of culture, 1952, Chicago, Chicago university press, citato e tradotto da C. T. Altan,

Manuale di antropologia culturale, Storia e metodo, 1975, Milano, Ed. Bompiani, p. 93. 

30 F. Pompeo, 2002, Il mondo è poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Roma, Meltemi ed., p 21.  31 Ibid.  

32 La critica di F. Boas al metodo comparativo è presente in F. Boas, I limiti del metodo comparativo in

antropologia, traduz. It., in Bonin, Marrazzi (a cura di) Antropologia culturale, 1970, Milano,Hoepli ed. 

(25)

 

modo, essi prendendo le distanze dalla tradizione evoluzionistica e dal metodo comparativo funzionale alla gerarchizzazione delle culture, aprirono la strada alla prospettiva culturalista, che contraddistinguerà la matrice degli studi antropologici americani per tutto il XX secolo, ispirando anche l’impianto multiculturalista della teoria politica statunitense.

Il paradigma etno-scientifico della Scuola Americana, proponendosi di entrare nel merito delle singolarità dei gruppi etnici nativi, ripercorrendo i processi genealogici relativi alla formazione e soprattutto alle trasformazioni dei tratti culturali distintivi dei singoli gruppi non poté non imbattersi nel ruolo costitutivo che i risultati delle relazioni con gli altri gruppi nativi e con la società bianca americana, avevano nella composizione dei medesimi tratti. Tale spostamento di prospettiva di indagine, d’altronde, era connaturato alla storia della società dei coloni del continente americano, che aveva avuto alle spalle l’incontro/scontro con le civiltà precolombiane, l’incontro/scontro con le comunità native amerindie e che viveva nel periodo storico contemporaneo allo sviluppo dell’antropologia culturalista il fenomeno delle prime grandi migrazioni di massa: tra il 1850 e il 1914 più di 40 milioni di persone lasciavano l’Europa per gli Stati Uniti.34 Queste premesse demografiche crearono il clima culturale ideale

per approfondire i processi di trasmissione culturale, a partire dal riconoscimento della teoria dei prestiti nelle configurazioni identitarie e nelle relazioni etniche, “race relations”, presenti sul territorio, e in cui grande parte ebbero proprio le elaborazioni degli allievi di Boas.

Gli effetti dei processi di scambio culturale tra i gruppi etnici nelle configurazioni identitarie, si coagularono nel concetto di Acculturazione, termine coniato dall’antropologo J.P. Powell nel 1880 per definire i processi di trasformazione nei modi di vita vissuti dagli immigrati a contatto con la società Statunitense. Secondo la definizione classica, fornita dai teorici dell’approccio culturalista, l’Acculturazione <<[…] comprende tutti i fenomeni che si

producono quando gruppi di individui con culture diverse si trovano in diretto e continuo       

34 J. P. Poussou, L’uomo Europeo:aspetti demografici, in ( a cura di)P. Bairoch, E. J. Hobsbawn, Storia

(26)

 

contatto, e implica i mutamenti che a causa di tali contatti si producono nei modelli culturali dell’uno o dell’altro di questi gruppi, o di entrambi>>35. Le riflessioni sulle modalità di trasformazione tra gruppi etnici distinti a diretto contatto, ma soprattutto le riflessioni sui processi identitari derivanti dal contatto con la società bianca dominante avrebbero contraddistinto la matrice assimilazionistica della politica americana. Questa modalità politica, sebbene molto attiva nel riconoscimento dell’esaustività culturale, ma non sempre civile, dei vari gruppi etnici presenti sul territorio, operò in modo da garantire una certa convivenza pacifica, ma lo fece normando le modalità di interazione sociale in modo da salvaguardare sempre e comunque l’egemonia della cultura americana bianca rispetto agli altri gruppi che dovevano conformarvisi, pur non godendo dei diritti civili. Fu proprio questa contraddizione statutaria che avrebbe sancito la fine della politica assimilazionistica americana nel Novecento; sotto la pressione dei movimenti per il riconoscimento dei diritti civili e delle autonomie identitarie da parte dei vari gruppi che proprio grazie al modello americano di democrazia multiculturalista, si erano appropriati di una certa coscienza collettiva e avevano compreso l’utilità della strumentalizzazione dell’argomento etnico come principale motore per le rivendicazioni identitarie.

Nel 1935 negli Stati Uniti per definire un sistema di riferimento metodologico in grado di mettere ordine tra le ricerche sui differenti percorsi inerenti al fenomeno delle relazioni interetniche, venne nominato un comitato scientifico, composto da R. Redfield, M. Herskowitz e Linton, che pubblicò nel 1936 su American Anthropologist, il “Memorandum per lo studio dell’acculturazione”. Nella quinta sezione di questo documento, particolarmente interessanti sono le definizioni dei risultati dell’acculturazione che si condensano nell’

Accettazione, come prima modalità, che si verifica quando una delle due culture in contatto

assume con quiescenza i modelli di comportamento e i valori dell’altra; nell’Adattamento, che si verifica quando le due culture in contatto si fondono in un complesso unico, diventando

      

(27)

 

un’unità dotata di significato per le persone alle quali si riferisce; nella Reazione, che si realizza quando una delle due culture non accetta di seguire i processi assimilazionistici, e in contrapposizione, porta avanti i propri modelli di riferimento36. Queste modalità di interazione interetnica, se pur elaborate nella prima metà del‘900, resteranno alla base delle teorie politiche di molte democrazie moderne e rispetto a cui la ricerca antropologica americana prenderà gradualmente le distanze, proprio in virtù di un distacco epistemico graduale dalle motivazioni delle analisi pretese dalla teoria politica e scegliendo di approfondire il discorso etnico, come strumento di produzione e di rivendicazione identitaria e come segno manifesto degli equilibri tra gruppi egemoni e gruppi subalterni.

La teorizzazione culturalista dell’Acculturazione, sebbene abbia prodotto una vasta letteratura descrittiva a testimonianza delle diverse identità culturali co-presenti sul territorio americano e abbia ispirato il modus operandi della democrazia americana rispetto alle politiche

multiculturaliste e di accoglienza, è rimasta un enunciato teorico con il vizio di un eccessivo

meccanicismo, finalizzato alla legittimazione di una certa economia politica. Un enunciato che, sebbene sia stato pensato ed elaborato da antropologi mossi dalla motivazione di comprendere i contenuti culturali e le relazioni tra le configurazioni etniche native, quelle approdate in un contesto di emigrazione e la società bianca dominante, non è riuscito poi a disgiungersi dalle finalità della teoria politica, arrivando a delle speculazioni antropologiche

etnocentriche che di certo non restituivano il giusto riconoscimento agli insegnamenti di

Franz Boas.

      

36 Redfield, R., Linton, R., Herskovits, M.J., Outline for the study of acculturation, in "American

anthropologist", 1936, XXXVIII; citato e tradotto in Memorandum per lo studio dell'acculturazione, in L. Bonin, A. Marrazzi, Antropologia culturale, 1970, pp. 177-182. 

(28)

 

1.3 LA RIVOLUZIONE ETNOGRAFICA EUROPEA

Dall’altra parte dell’oceano, in Europa, le riflessioni e le teorizzazioni delle race relations avvengono al netto della differente situazione geo-politica del vecchio continente; qui, gli antropologi sono più portati a privilegiare l’osservazione di quelle società semplici dall’ organizzazione tribale che restano al di fuori del quadro unificante rappresentato dalla civiltà tecnica e scientifica dell’Occidente moderno. In Europa, in particolare, tra la fine del XIX secolo e gli anni Trenta, la crescita esponenziale dei possedimenti coloniali in Oceania, in Africa, in India, e dei relativi effetti sulle economie di mercato, in termini di sviluppo e concorrenza, avevano reso indispensabile nuove dinamiche di controllo indiretto del territorio, realizzabili attraverso delle prassi esplorative approfondite delle comunità native, delle loro strutture culturali, economiche e sociali. La dialettica tra gli interessi economici e politici delle amministrazioni coloniali e lo “sguardo scientifico”37 degli ambienti accademici, aveva, per questi motivi, promosso nuovi postulati, come una nuova prassi di ricerca sul campo, finalizzata ad una maggiore comprensione delle realtà etniche e conoscenza del territorio e, naturalmente, prodotto nuovi risultati di indagine sull’entità delle società osservate. La ricerca etnografica, nella sua “veste ufficiale”, ampliamente sponsorizzata dai governi centrali, divenne più specialistica e, soprattutto, più legata alla figura accademica e al contesto teorico e culturale dell’antropologo. La nuova prassi di ricerca sul campo, che vedeva operare i “men

on the spot”, cioè “uomini sul posto”38, condizionò metodologicamente l’osservazione delle

società indigene, accelerando quel processo di cambiamento, che vedeva la tipica raccolta dei dati secondo modelli naturalistici con la produzione di surveys (ricognizioni), cedere il passo alle monografie etnografiche. Queste redazioni molto complesse e dettagliate si presentavano come una raffigurazione olistica della società osservata di cui, con un metodo induttivo,

      

37 U. Fabietti, 2002, op. Cit., p. 34.  38 U. Fabietti, 2001, op. cit. , p. 87 

(29)

 

venivano descritte le caratteristiche e le funzioni dei tratti culturali maggiormente distintivi: l’ambiente fisico, il sistema di parentela, i rituali, le consuetudini commerciali, l’organizzazione politica, la cultura materiale. In queste descrizioni abbastanza evidente era la ricerca dell’oggettività, resa attraverso una metodologia di scrittura impersonale e distaccata, dietro a cui si nascondeva il ricercatore che non compariva mai nella sua soggettività. I risultati di una tale scelta metodologica seppur indicativi di un’importante rivoluzione etnografica resa tale anche dalla comparsa nelle ricerche dell’antropologo di professione, sono state nella storia della critica del pensiero antropologico motivo di opinioni sfavorevoli molto incidenti sulla relativa attendibilità.

Anche Ugo Fabietti, nella sua incisiva analisi dell’identità etnica lungo l’evoluzione del pensiero antropologico, offre molti spunti di critica, verso le teorie dell’antropologia sociale britannica, persuaso com’è delle nefaste conseguenze di quell’“intelletto etnologico”39 che proprio dal modello etnografico inglese aveva ricevuto maggiore impulso. Tale modello ha, secondo quest’autore, prodotto fenomeni irreversibili nella “fenomenologia etnica”, avendo innescato, arbitrariamente e funzionalmente ai meccanismi descrittivi, processi di

etnicizzazione forzata di intere aree geografiche e delle rispettive comunità appartenenti, oltre

ad aver, sempre con lo stesso artificio metodologico, creato degli “isolati etnici”40, “congelati” in un tempo preciso, quello necessario alla durata dell’osservazione. Le opinioni critiche di Fabietti verso le modalità etnografiche accreditate da quell’antropologia patrocinata dalle politiche di espansione coloniale, sono dirette a quel“processo di produzione etnica”41, che,

per motivi di sistematicità di metodo, ha contribuito ad una elaborazione statica, idiosincratica e artificialmente omogenea delle identità culturali come unità chiuse e paralizzate nel tempo. Tale produzione42, da un lato ha soddisfatto l’esigenza di configurare e limitare i confini

territoriali che avrebbero rappresentato le ripartizioni amministrative dei governi coloniali,

      

39 U. Fabietti, 2002, op .cit. , p.27.   40 U. Fabietti, 2002, op .cit, p. 34.   41 Ibid., p. 21 

(30)

 

dall’altro ha prodotto un’approssimativa “geografia etnica”, enfatizzando le differenze (linguistiche, culturali, religiose) riscontrate tra i vari gruppi osservati, con il fine ultimo di “prevenire qualunque eventuale progetto di unità delle popolazioni dominate”43; un’enfasi arbitrale che ha tuttavia acquistato una legittimità scientifica attraverso la forza divulgativa e conservativa della “tradizione scritturale”44 in dotazione alle culture colonizzatrici, rispetto alla vulnerabilità delle tradizioni orali delle società elementari45 assoggettate.

Anche Fabio Dei, nella sua ricostruzione sincronica dei cardini epistemologici e delle teorie antropologiche, conferma questa riflessione critica, attribuendo all’antropologia e all’etnografia scientifica la responsabilità di aver mistificato dei concetti che non avevano niente di “naturale”, anzi tutt’altro:

<<[…] con un paradosso, l’antropologia ha naturalizzato le culture, ci ha abituati a pensarle come cose che esistono prima e indipendentemente dai processi storici, da un lato, e dall’altro dagli individui che ne fanno parte, i quali sarebbero quasi imprigionati al loro interno>>.46

In sostanza il sapere etno-antropologico europeo dei primi decenni successivi alla prima guerra mondiale, in un momento storico contraddistinto dal consolidamento delle strutture nazionali, da un lato, e da una forte spinta all’espansione territoriale e commerciale, dall’altro, volendo superare l’evoluzionismo ottocentesco e il metodo comparativo, ha imposto la sua

ragione etnologica, essenzializzando e reificando le culture, <<[…] riproducendo modelli

falsamente oggettivi quali quelli connessi alle nozioni di identità etnica e culturale, fondate sulla frammentazione artificiale di una realtà diversamente dinamica>>47. Il concetto di

etnia, in questo clima ideologico e orientamento antropologico è stato contemporaneamente       

43 U. Fabietti, 2002, op. cit., p.34.  44 Ibid. , p.40 

45 C.Lévi Strauss parla esplicitamente di società dalle strutture elementari con un sistema di parentela che

tuttavia rientra nelle strutture complesse in Le strutture elementari della parentela, 2003(traduz. it),ediz. Feltrinelli, p.166.

46 F. Dei, Antopologia culturale, 2012, p. 36 

(31)

 

soggetto attivo e oggetto passivo della produzione di un equivoco epistemico molto importante sia nello sviluppo del pensiero antropologico, che per la storia dei popoli e delle culture entrate forzosamente nella spirale della modernità occidentale. Un equivoco che Fabietti, in modo molto incisivo, descrive nel seguente modo:

<<[…] nel momento in cui serve a disegnare dei gruppi fittiziamente dotati di un’irriducibile identità linguistico-storico-culturale, esso “frantuma” la complessità del fenomeno umano e lo “cristallizza” in una serie di isolati discontinui che si prestano ad essere classificati, comparati ed intellettualmente – oltre che politicamente – dominati>>.48

La cultura occidentale ha, inoltre, attraverso la scrittura, prodotto una riscontrabilità scientifica dell’etnia che si è mantenuta inalterato a lungo pur avendo un valore arbitrario, anacronistico, chiuso e falsamente uniforme, e che tuttavia nel tempo ha assunto una “consistenza molto concreta”49.

Gli equivoci prodotti dall’antropologia scientifica, sono stati analizzati e necessariamente disgregati dalle teorie etno-antropologiche solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, quando storicamente si sono susseguiti i processi di decolonizzazione e quando epistemologicamente l’antropologia ha iniziato la procedura di “assunzione di responsabilità”, ripercorrendo tutti le occasioni di errore e riconoscendo in primis il ruolo mistificatorio di quella che Jean-Loup Amselle definisce criticamente la “ragione etnologica”50. Quest’enunciato che Fabietti ridefinisce “intelletto etnologico”51, diventa un punto di riferimento per quelle riflessioni critiche post-coloniali intente a risanare il quadro teorico dell’antropologia, partendo appunto dagli equivoci innescati dall’etnografia e dall’antropologia coloniale nell’utilizzo improprio di cardini referenziali come quelli di etnia e cultura.

      

48 U. Fabietti, 2002, op. cit., p. 59.  49 Ibid. p. 22 

50 J.L.Amselle, 1999, Logiche meticce, Antropologia dell’identità in africa e altrove, Bollati Boringhieri ed.   51 U. Fabietti, 2002, op, cit. p. 27 

(32)

 

Alla ricerca di peculiarità caratterizzanti, o di morfologie soggiacienti52, gli etnografi e gli

antropologi del primo Novecento, hanno immobilizzato i gruppi etnici studiati, in un presente

etnografico53, non avendo ancora in dotazione, le strutture epistemologiche per studiarli e

collocarli nel loro rispettiva progressione storica e relazionale.

1.4 LO SVILUPPO DEL CONTATTO CULTURALE NELL’ANTROPOLOGIA SOCIALE BRITANNICA.

Abbiamo visto come le dissertazioni degli antropologi europei nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, rispetto alla diversità culturale e all’identificazione etnica delle

società tribali, furono indotte da una modalità di osservazione immersiva e partecipante alla

quotidianità delle comunità da parte dell’etnografo-antropologo. Il permanere dell’antropologo e del suo entourage presso le comunità diventava sempre più lungo e protratto, tanto che, nel momento di massimo sviluppo delle spedizioni coloniali, esso consentì di elaborare delle riflessioni germinali, sulle trasformazioni endogene ed esogene che si innescavano nel reciproco contatto prolungato sia tra i nativi e i gruppi degli studiosi occidentali che tra i diversi gruppi locali, considerato che le aree di interesse coloniale diventavano sempre più vaste. Questa trasformazione ulteriore nella metodologia etnografica è efficacemente descritta da Carla Bianco, di cui cito testualmente un passaggio, riproposto da Francesco Pompeo:

<<Visto il permanere di forti diversità dei gruppi, l’obiettivo divenne quello di studiarli, sia singolarmente, come micro culture autonome e da prospettive di tipo funzionalistico, e sia nel gioco dei loro contatti reciproci (gli inter-ethnic       

52 F. Pompeo, 2007, op cit., p. 83.  53 U. Fabietti, 2001, op. cit., p.103 

(33)

 

contacts), donde l’articolato filone di studi sui modelli e sulle identità delle varie “comunità”>>.54

Il contestuale riconoscimento dell’unità culturale delle società tradizionali, della loro

esaustività funzionale e coerenza strutturale, si apriva, per la prima volta, anche

all’interpretazione degli effetti derivanti dal contatto culturale tra i gruppi locali e i coloni bianchi, anche al netto anche di una iniziale “crisi di certezze”55, da parte della stessa cultura egemone, determinata dal tramonto delle teorie evoluzionistiche. A questo proposito è esemplificativo quanto scrive Fabietti nella sua storia dell’Antropologia:

<<L’antropologia, nella quale il pensiero positivista ed evoluzionista aveva visto un mezzo di conoscenza della mente primitiva, riconosceva ora tracce di primitività nello stesso pensiero occidentale, razionale e positivo>>.56

L’oggettività etnografica data dalla dimensione relazionale delle identità culturali, che anche allo sguardo dell’osservatore non apparivano più come isolati etnici e culturali, cominciava a riflettere la necessità epistemica di superare la logica della superiorità culturale dell’occidente con le sue assunzioni teoriche derivanti da uno sguardo dall’alto delle altre formazioni culturali, immobilizzandole in un’oggettività funzionale a se stessa, pre-sociale e fuori-tempo. Bronislaw Malinowski, che proprio di tale oggettività funzionale fu il massimo portavoce, dopo aver pubblicato “Argonauti nel Pacifico occidentale” nel 1922, cominciò ad interessarsi anche allo studio delle dinamiche del cambiamento culturale nei contesti interetnici; interesse che maturò nella seconda metà degli anni Trenta, dopo aver compiuto un viaggio nel continente Africano (1934) e dopo aver fatto la conoscenza di Fernando Ortiz (1881-1969), studioso innovatore del contesto Afrocubano. Il sodalizio intellettuale tra questi due autori si materializzò in un volume pubblicato postumo, nel 1945: “The dynamics of cultural change:

an inquiry into race relations in Africa”, edito da Phyllis M. Kaberry, un antropologo che       

54 C. Bianco, 1980, Etnicismo e culturologia, l’identità culturale dei gruppi regionali e immigrati, in “la Critica

Sociologica”, n.54; citato da F. Pompeo, 2002, op cit. p. 54. 

55 U. Fabietti, 2002, op.cit. , p. 87  56 Ibid., p. 87 

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