Diluendo e smorzando l’effetto separatore delle identità si ottiene un assottigliamento delle barriere, reali e metaforiche, una maggiore permeabilità, una minore rigidità e anche, vista nell’ottica di Amselle, una minore possibilità di strumentalizzazione da parte della teoria politica. L’indefinitezza come matrice originaria, l’idea, cioè, che all’origine delle identità culturali ed etniche non ci siano delle differenze, ma un continuum di reciproche influenze, di prestiti e connessioni, è il tratto che accomuna le opere di Amselle e di Éduard Glissant, che, tuttavia, preservano delle differenze sostanziali. Per l’antropologo francese la teoria dell’indefinitezza originaria, che egli postula come teoria del meticciato, è funzionale allo screditamento di quella che è stata, prima e durante il periodo del colonialismo, <<[…]
l’opera congiunta degli amministratori coloniali, degli etnologi di professione e di coloro che riuniscono le due qualifiche>>87 e quella che, con la globalizzazione, risulta dall’insufficienza
del modello repubblicano francese. Per Amselle, la teoria del sincretismo originario, infatti, non è solo lo strumento per formulare le critiche ad un passato reo e ad una teoria politica che in quel passato ha costruito le sue fondamenta, ma è anche la risposta ad una visione lucida sui dilemmi dell’attualità, in cui <<fare scomparire le frontiere e le barriere tra i gruppi,
mescolandoli socialmente: sembra essere il solo modo di contrastare la razializzazione in atto nel quadro della globalizzazione>>88. Per l’autore martinicano, invece, il concetto
dell’indefinitezza originaria si arricchisce del valore positivo dell’ “imprevisto”89, dando vita
alla teoria sulla creolizzazione delle culture che più che un’analisi de facto sugli effetti costitutivi risultanti dall’incrocio di universi etnici e culturali diversi, diventa un esortazione pragmatica, un doveroso modus operandi, una prospettiva utile e coerente alla salvaguardia della natura stessa degli “uomini-agenti” nella dinamica della relazione. Édouard Glissant
87 J.-L. Amselle, op.cit. p. 56. 88
Ibid. p. 39.
nato nell’arcipelago antillano, precisamente in Martinica ha fatto della sua “antillanità” il fulcro di una complessa riflessione sulla relazione tra gli elementi culturali più lontani ed eterogenei che contraddistinguono la “totalità-mondo”, in cui l’imprevedibilità dei risultati è data anche dal fatto che le persone sanno ormai di essere dentro un processo continuo e dinamico non più come “esseri”, ma come “enti”90, o, per riprendere un verbo caro ad Appadurai, “agenti”, quindi protagonisti e responsabili delle trasformazioni. Anche rispetto all’imprevedibilità delle connessioni e dei flussi culturali, la creolizzazione, a differenza del
métissage, i cui risultati sono molto più certi e definiti, può essere da riferimento e da
esempio. Glissant, infatti, elabora la nozione di creolizzazione facendo esplicito riferimento alla realtà della lingua creola91, intesa come creazione tanto composita, quanto instabile e
imprevedibile perché dotata di una costitutiva apertura, di un movimento incessante che le permette di ricreare continuamente le proprie sintesi. Questi caratteri si devono alle particolari condizioni in cui la lingua creola è sorta nelle Antille francesi: condizioni geografiche92, ma anche condizioni storiche come la colonizzazione, la tratta degli schiavi, l’economia della piantagione, che hanno imposto, in modo violento e repentino, un’interazione tra culture radicalmente diverse, ma che hanno anche forgiato come una rigenerazione positiva, una tipologia identitaria detta “rizoma”93; un’identità, cioè, che si intreccia con le atre identità già a livello delle radici, e che diventa molto importante per la sua esemplarità nella dinamica della “relazione”. Per Édouard Glissant, infatti, sono proprio i Caraibi il luogo in cui la “relazione” si manifesta con più splendore. Il Mediterraneo è un “mare che concentra”94, un
mare interno, circondato dai continenti, dove l’antichità greco-latina ed ebraica, quindi
90 É. Glissant, 1998, op. cit. p.16.
91 Ibid. p. 17; la lingua creola è nata dal contatto tra una molteplicità di elementi linguistici del tutto eterogenei:
le parlate bretoni e normanne del Seicento, da una parte, e le sintassi delle lingue dell’Africa nera occidentale sub-sahariana, dall’altra.
92 Ibid. p. 19. 93 Ibid. p.45. 94 Ibid. p. 13.
l’espansione islamica, hanno generato il pensiero dell’ “Uno”95 e hanno dato origine a millenarie “comunità ataviche”96, che rivendicano la legittimità del possesso di una terra trasformata in territorio la cui identità, selezionata epicamente a discapito di altre, ruota cioè attorno ad una “radice unica”, ad “un incrollabile convincimento di universalismo”97 e alla pratica dell’esclusione; a questo proposito molto avvincente, anche nei suoi toni accusatori, è la descrizione dell’Occidente che propone Amselle nel suo lavoro del 1981:
<<L’occidente non è un luogo, è un progetto. Esso non rappresenta tanto una cultura in senso etimologico, quanto piuttosto il campo storico di un progetto di universalizzazione economico-politica che, già attivo nella prima fase di mondializzazione, rappresentata dalla colonizzazione, si esprime pienamente nell’odierna globalizzazione>>98
I Caraibi, all’opposto, sono luogo di incontro e di passaggio in <<[…] un mare che diffrange
e che favorisce l’emozione della diversità>>99, e che, attraverso la sua storia di tre secoli di
incontri e scontri di elementi culturali provenienti da universi assolutamente diversi, sono stati la fucina ottimale per la formazione dell’“identità-rizoma” che ha di fatto creolizzato le culture, che in questi luoghi, si sono rigenerate. La creolizzazione, proprio per la sua capacità generativa e per l’imprevedibilità dei suoi “frutti”, si propone come sintesi speculare del “caos-mondo”, in cui la mescolanza delle culture non si presenta pacifica e lineare, come un
melting-pot, e in cui anche i tempi delle trasformazioni e le modalità delle relazioni sono
cambiate nettamente rispetto al passato, diventando contratte, immediate e dagli effetti diasporici. Il modello creolo si propone anche come rimedio esemplare per affrontare, senza bypassare l’importanza dei luoghi, le fratture, i risultati omogeneizzanti, le incertezze
95 É. Glissant, 1998, op. cit. p.13. 96 Ibid. p. 28.
97 F. Remotti, 1996, Contro l’identità, Roma-Bari, ediz. La terza, p. 46. Remotti identifica le tre grandi religioni
monoteiste, l’Ebraismo, il Cristianesimo, e l’Islamismo, come le tre grandi configurazioni che hanno forgiato identità di tipo strutturali.
98 É. Glissant, 1981, Le discours antillais, Paris, Seuil, p 12. 99
identitarie e gli spaesamenti determinati dalla globalizzazione che trasforma la “totalità- mondo” proprio in quel “caos-mondo”, di cui parla benevolmente l’autore. Nella riflessione su tale caos, Glissant, si pone delle domande che lo collocano in una posizione sicuramente prospettica, emotivamente incline a discutere il futuro dell’umanità, molto più che a problematizzare freddamente le questioni sulla necessaria decostruzione dei concetti di cultura nell’era globalizzata. A questo proposito qualcuno ha affermato che quest’autore, a differenza di altri, non si è arenato <<[…] sulle comode secche del post-colonialismo
accademico>>100 e questo effettivo trasporto narrativo è quasi tangibile nel seguente
passaggio:
<<[…] proprio l’apertura indotta dall’incontro planetario fra le culture genera un diffuso sentimento di angoscia: ci sembra di non avere più punti di riferimento, di perdere il senso della nostra appartenenza, della nostra identità. Tutto ciò provoca l’insorgere di rivendicazioni identitarie, di fondamentalismi vecchi e nuovi e, talora, di opposizioni sanguinose. Come sfuggire a queste insidie Come pensare la totalità-mondo? come costruire uno spazio di condivisione dal quale emerga che la differenza non è una minaccia, che ogni cultura – per nascere, per crescere, per sopravvivere – ha bisogno di tutte le altre?>>101
Rispetto a queste domande, Glissant, in perfetto “stile creolo” potremmo quasi dire, prende spunto sia dalla poesia e dal suo potere evocativo e immaginifico, che dalla letteratura scientifica, dal suo potere reale e sintetico, per proporre un sistema di pensiero << […] più
intuitivo, più fragile, più minacciato, ma in accordo con il caos-mondo e i suoi imprevisti>>102. Glissant, infatti, propone di approcciarci al “caos-mondo”, abbandonando <<[…] l’idea di paragonarlo ad un ordine sovrano che riporti una volta per tutte la totalità- mondo ad un’unità riduttrice. […] Il caos è bello quando se ne concepiscono tutti gli elementi
100 Conversazioni tra Claudio Magris e Éduard Glissant, Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione,
in Corriere,it, 9 ottobre 2001. 101É. Glissant, 1998, op. cit. p. 54.
come ugualmente necessari>>103. E per riuscire a cogliere i vantaggi di tale “totalità caotica”,
è opportuno incarnarla, esercitando quello che secondo l’autore è il “diritto all’opacità”104, il diritto, cioè, a considerare se stessi trasparenti, in modo da rinunciare all’idea che una nostra presunta luminescenza possa oscurare l’“altro”; proprio come il principio di indeterminazione di Heisenberg105, secondo cui per vedere le particelle bisogna illuminarle e così facendo, però, se ne cambia la natura e sicuramente velocità e direzione. Per questo motivo diventa necessario accettare l’opacità della materia come un dato assoluto, come necessario diventa accogliere la trasformazione della “relazione” nella dimensione etica e poetica.
Per Francesco Remotti, in un lavoro sulla fenomenologia dell’identità e dell’alterità, il “diritto all’opacità” di Glissant, diventa l’“elogio alla precarietà”106, come unica alternativa possibile
per uscire dalla logica dell’identità, che altro non è che una costruzione, una finzione. Cito testualmente alcune frasi occorse nel passaggio conclusivo del suo lavoro perché particolarmente suggestive e perfettamente in linea con gli approcci decostruzionisti di una certa antropologia postmodernista:
<<[…] o si continua a credere pervicacemente nelle proprie forme identitarie (costi quel che costi) o si procede quanto meno ad alleggerirle, così da renderle più disponibili alla comunicazione e agli scambi, alle intese e ai suggerimenti, alle ibridazioni e ai mescolamenti. Non è detto che tale maggiore disponibilità sia la via che ci salva, ma è abbastanza certo che l’atteggiamento opposto […] è quello che ha prodotto, qui come altrove, le maggiori rovine>>107
103 É. Glissant, 1998, op. cit. p. 54. 104 Ibid.
105
Ibid.
106 F. Remotti, 1996, op. cit., p. 103. 107 Ibid. p. 104.