• Non ci sono risultati.

Parte IV: Il diritto del lavoro dell’Unione europea nella nuova fase della dimensione sociale europea: il Pilastro europeo dei diritti sociali e la

3. Il congedo parentale

In Italia quando si affronta la questione delle politiche per la famiglia non si può non considerare il fenomeno delle “culle vuote” (Donati, Prandini, 2010).

Nel 2018 il persistente calo della natalità ha avuto ricadute soprattutto sui primi figli, registrando 204.883,79 nascite in meno rispetto al 2008 (Istat, 2019), mentre nel 2019 è stato registrato il ricambio naturale minore degli ultimi centodue anni - 435 mila nati vivi contro 647 mila decessi -.

Tale situazione rischia di subire un aggravamento nel periodo post-COVID in cui una recente simulazione dell’Istat ha previsto che la riduzione del tasso di natalità, influenzato anche dal clima di incertezza e paura associato alla pandemia, evidenzierà un suo primo effetto sulla riduzione delle nascite nell’immediato futuro; un calo che dovrebbe mantenersi nell’ordine di poco meno di 10 mila unità, ripartite per un terzo nel 2020 e due terzi nel 2021, con un calo della natalità dello 0,84% nel 2020, rispetto al 2019, e un ulteriore calo dell’1,3% nel 2021 (Istat, Rapporto annuale 2020. Criticità strutturali come possibili leve della ripresa: ambiente, conoscenza, permanente, bassa fecondità in https://www.istat.it/storage/rapporto- annuale/2020/capitolo5.pdf).

Inoltre, il numero medio di figli per donna è di 1,29 mentre è di 32,1 anni l’età media del primo parto (https://www.istat.it/it/files//2020/02/Indicatori- demografici 2019.pdf); sempre da recenti studi il numero di figli desiderato

95

resta fermo a due: il 46,0% degli italiani desidera avere due figli, il 21,9% tre o più, il 5,5% ne desidera uno, il 25,4% esprime un desiderio di maternità o paternità senza sapere indicare il numero di figli desiderato (Istat, Rapporto annuale 2020. Criticità strutturali come possibili leve della ripresa: ambiente, conoscenza, permanente, bassa fecondità in https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2020/capitolo5.pdf).

Alla luce di questi dati si evince che ogni coppia non ha un numero sufficiente di figli per il mantenimento generazionale e che le donne si avvicinano alla maternità in età avanzata.

Questo allarme è stato avvertito solo recentemente, ma la contrazione dei tassi di fecondità si può far risalire già alla fine dell’Ottocento in seguito al cambiamento culturale (Donati, Prandini, 2019) e riguarda sia le relazioni interne alla famiglia che quelle che intercorrono tra famiglia e società.

Per invertire questa tendenza sarebbe opportuno mettere le coppie in condizione di rispondere agevolmente ai bisogni di cura dei figli e far si che le scelte di lavoro delle donne non influenzino negativamente l’avvicinamento alla maternità.

A riguardo, George J. Borjas mostra la teoria del reverendo Thomas Malthus che risale al famoso Essay on the Priciple of Population del 1798 che afferma che sulla natalità impatta il reddito familiare (effetto reddito: con l’aumento del reddito della famiglia aumenta la domanda di figli); tuttavia tale teoria non è stata pienamente confermata dalle moderne analisi economiche che sostengono che la decisione di natalità dipende anche dal costo dei figli (ad esempio, come il costo del latte e dei pannolini, dell’istruzione universitaria o del salario del genitore responsabile delle attività di cura del bambino) che ne riduce la domanda, dimostrando come il rapporto tra partecipazione delle donne e natalità da negativo sia diventato positivo a partire dal 1985 grazie alla predisposizione di adeguati strumenti di conciliazione (Borjas, 2015) che hanno inevitabilmente inciso sulle relazioni familiari.

Il punto di partenza è quindi indubbiamente la famiglia.

Parlare oggi di famiglia significa comprendere più nozioni della stessa, a seconda delle finalità perseguite dal legislatore: da quella nucleare fondata sul matrimonio ex art. 29 Cost., in cui è centrale il rapporto genitore/figlio, alla famiglia allargata, in cui vengono contemplate anche altre relazioni comprendenti soggetti particolarmente fragili, bisognosi di assistenza, coniugi separati (Spallarossa, 2007).

Dal 2016, la Legge Cirinnà rubricata “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, comprende nel concetto di famiglia anche i conviventi sia eterosessuali che omosessuali, cioè le coppie di fatto, riconoscendo loro gran parte dei diritti delle coppie sposate.

Occorre partire da questa riflessione sulla morfogenesi della famiglia per ripensare ad una politica familiare che possa ovviare alle criticità fin qui

96

illustrate (Donati, 2012), (contrazione delle nascite, fuoriuscita delle madri dal mercato del lavoro) e conseguire una maggiore armonizzazione tra i tempi di lavoro e i tempi di cura.

Attualmente le politiche per la famiglia, che rientrano nell’alveo delle politiche sociali, si riferiscono al complesso di specifici provvedimenti economici, previdenziali, normativi riguardanti non più solamente la figura femminile ma la famiglia nel suo complesso intesa come valore e bene di interesse pubblico (Addabbo, Maiani, 2005). In particolare, tali politiche si intendono volte a favorire la conciliazione dei tempi familiari e quelli di lavoro e a garantire benessere alle famiglie, rendendo ciascun componente autonomo e libero di scegliere.

Per il conseguimento di tale obiettivo si necessita di una politica che tenga conto di una buona gestione del tempo, in considerazione delle attività professionali, familiari, formative e sociali nelle diverse fasi di vita dell’individuo, di infrastrutture e strumenti adeguati, come asili nidi, centri diurni o congedi, e di supporto economico, sotto forma di aiuti finanziari (Spartaco, Marazzi, Vaucher de la Croix, 2013), nella prospettiva di realizzare un’organizzazione aziendale a sostegno della famiglia.

Le politiche familiari dovrebbero quindi essere sinergiche e sviluppare un quadro organico, esplicito e coerente, non solo al loro interno ma anche con le politiche dirette a incentivare l’occupazione femminile e le pari opportunità nel mercato del lavoro, c.d strategia di Lisbona o gender mainstreaming (Donati, 2010).

In questo modo, la combinazione di politiche familiari e di politiche di pari opportunità non apporterebbe solamente miglioramenti nel contesto fami- liare, dando nuovo spessore alla figura maschile attraverso il superamento del modello del male breadwinner1, in cui la figura paterna viene limitata al so-

stegno economico, e l’introduzione del modello dual earner2 con conse-

guente bilanciamento della distribuzione dei carichi di cura tra i partner, ma contribuirebbe anche al contemperamento degli interessi cui l’azienda do- vrebbe mirare con conseguente suo incremento di produttività ed efficienza. Ampliare la prospettiva di intervento dalla sola condizione lavorativa della donna ai limiti maschili nella gestione delle attività di cura, attraverso un pa- rallelo sviluppo di politiche familiari e di pari opportunità, in grado di con- templare tanto i bisogni familiari dei singoli lavoratori quanto le esigenze di

1 Modello male breadwinner: modello familiare basato sulla divisione sessuale del lavoro;

nell’ambito di questo modello spetta all’uomo provvedere al sostentamento economico della famiglia, mentre alla donna è riservato il lavoro di cura (Gaiaschi, 2014).

2 Modello dual earner: modello familiare che riconosce gli effetti emancipatori del lavoro retribuito

alla luce dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Questo modello mira alla realizzazione della conciliazione condivisa tra i partner e quindi ad un equo bilanciamento tra impegni lavorativi e familiari (Gaiaschi, 2014).

97

produttività ed efficienza dell’azienda, permetterebbe una maggiore e mi- gliore occupazione femminile nel mercato del lavoro e allo stesso tempo una più equilibrata condivisione tra i partner dei carichi di cura con conseguenti bilanciamento delle relazioni all’interno della famiglia e risvolti positivi nella crescita economica del Paese.

In Italia, questa integrazione non sembra ancora essere completamente realizzata, anche se per permettere l’entrata e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro si necessita di proseguire nella pianificazione a sostegno della famiglia di politiche che siano da un lato tali da poter essere realizzate concretamente, dall’altro sostenibili economicamente e dal punto di vista strutturale da parte delle aziende.

Tra gli strumenti previsti dal diritto del lavoro italiano per favorire la cura genitoriale, è presente il congedo parentale che prevede una astensione facoltativa dal lavoro fruibile dai genitori in seguito al periodo di astensione obbligatoria. È questo un diritto potestativo quindi il datore di lavoro non può negarlo né stabilire diverse modalità di utilizzo; dati i limiti stabiliti dalla legge e dal contratto collettivo è il titolare del diritto che decide quando usufruirne.

La Corte di Cassazione con la sentenza del 11 gennaio 2018, n. 509 ha inteso il congedo parentale come un diritto riconosciuto in capo a entrambi i genitori di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino, inquadrandolo come diritto potestativo e ha conferito al lavoratore un “potere diretto a creare, modificare, estinguere situazioni giuridiche con una manifestazione unilaterale di volontà, senza la partecipazione del soggetto che deve subirne gli effetti” (v. Cass. nn. 6586/2012 e 17984/2010). Quindi, usufruendo di tale diritto “il titolare realizza da solo l’interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell’altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà”, ma ha l’onere di rispettare un tempo di preavviso “sia nei confronti del datore di lavoro, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell’ente previdenziale, nell’ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere l’indennità” (v. Cass. n. 2803/2015).

L’obiettivo di questo strumento consiste non solo nel favorire la parteci- pazione e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro, ma anche nell’incrementare il coinvolgimento degli uomini alla vita familiare (Renga, 2009) nonché a rispondere alle esigenze di benessere dei lavoratori sul luogo di lavoro nell’ottica di bilanciare equamente il tempo di lavoro con il tempo da dedicare alla cura.

Si comprende quindi come il congedo costituisca un’importante forma di sostegno alle famiglie mirante a favorire una maggiore corresponsabilizza- zione ed equiparazione della figura paterna a quella materna, obiettivo perse- guibile rendendo maggiormente duttile il congedo, ad esempio permettendo

98

al lavoratore di scegliere come adeguare l’orario di lavoro alle esigenze della vita privata, direzione intrapresa, come si vedrà nel prosieguo, dalla Riforma del Jobs Act.

Sempre al fine di promuovere l’utilizzo di questo strumento da parte dei padri, il congedo dovrebbe inoltre essere non trasferibile nella sua totalità al partner (use it or lose it) e retribuito almeno all’80% se non completamente (Villa, 2020). In mancanza di un incremento dell’indennità prevista per la fruizione del congedo, i contratti collettivi nazionali potrebbero introdurre la possibilità di usufruire più volte dell’anticipazione del Tfr, nel rispetto dei tetti massimi individuali, e potrebbero creare un canale preferenziale per le richieste motivate dalla fruizione dei congedi parentali (Costantini, 2009).

Sul punto, è ancora aperto il dibattito su come rendere più fruibile il con- gedo per la famiglia nell’ottica di una conciliazione condivisa e a riguardo non si è ancora definita una linea univoca (Vogliotti, Vattai, 2015); ciò di- pende dal fatto che la disponibilità dei lavoratori padri a fruire dei congedi è ancora fortemente condizionata dal contesto culturale che individua nella fi- gura femminile, nonostante la morfogenesi della famiglia, il maggior respon- sabile del lavoro di cura non retribuito. A ciò si aggiunge, inoltre, una cultura aziendale, che tendenzialmente scoraggia l’utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri lavoratori (Musumeci, Santero 2018), cultura presente persino all’interno delle stesse imprese sensibili alle politiche di sostegno alle fami- glie, le quali potrebbero prevedere misure di conciliazione aziendale senza però diffonderne l’esistenza o incentivarne la fruizione, rischiando così di la- sciare tali misure scarsamente utilizzate e con mera connotazione pubblicita- ria dell’azienda.

A questo punto, al fine di analizzare l’utilizzo del congedo parentale da parte di entrambi i partner, si rende necessario indagare la portata innovativa del quadro normativo.

99

Documenti correlati