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Parte III La seconda fase dell’evoluzione del diritto del lavoro dell’Unione europea

1. La svolta del Trattato di Amsterdam e la costituzionalizzazione del trattamento preferenziale

Se in un primo momento, il modello europeo, così come voluto dai Padri fondatori della CEE, risultava essere strettamente legato all’integrazione economica, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e del Trattato di Amsterdam, l’Unione adottava un secondo modello fondato sulla costituzionalizzazione dei diritti sociali al fine di “ancorare ad un solido impianto di principi e di valori comuni l’azione di un’integrazione positiva dei sistemi sociali nazionali”, divenendo così garante sovranazionale dei diritti fondamentali (Giubboni, 2003).

In questo nuovo processo, volto a creare “un’Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, importante è stata la tappa segnata dal Trattato sull’Unione Europea, c.d. Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, ed entrato in vigore il 1 novembre 1993, in quanto a seguito della sua adozione, l’espressione Comunità economica europea (CEE) è stata sostituita con l’espressione Comunità/Unione europea (CE), prendendo, quindi, ulteriore distanza dall’originaria vocazione esclusivamente economica del Trattato (Trattato di Maastricht).

In particolare, con riferimento alla lotta contro le discriminazioni - oggetto dei lavori della Conferenza intergovernativa degli Stati membri - la svolta si è avuta con la firma del Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, entrato in vigore il 1 maggio 1999, che ha apportato modifiche al Trattato sull’Unione europea, ai Trattati istitutivi delle Comunità europee e ad alcuni atti connessi (Trattato di Amsterdam; Pollicino, 2005). Sempre nel Trattato di Amsterdam è stata coniata per la prima volta l’espressione “dimensione sociale europea” (Pollicino, 2005).

Tra i contenuti più innovativi introdotti con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, si annoverano le disposizioni degli artt. 13 e 141, comma 4 (Ronchetti, 1999; Fasano, Mancarelli, 2001), con la prima delle quali, si conferiva al Consiglio dell’Unione, previa proposta della Commissione e consultazione del Parlamento europeo, il potere di adottare in materia di occupazione e impiego, atti normativi “per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età e le tendenze sessuali”.

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In altre parole, l’art. 13 TCE riconosceva per la prima volta la formula “divieto di discriminazione”, tradizionalmente previsto per nazionalità e sesso, anche ad altri fattori di rischio e conferiva espressamente al Consiglio specifici poteri, al fine di assicurare l’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in merito alla retribuzione, alle condizioni di lavoro e all’occupazione.

Sempre esaminando l’impatto del Trattato di Amsterdam sulla definizione di un nuovo modello di politica antidiscriminatoria dell’Unione, assai rilevante è stata la riformulazione dell’art. 119 CEE nell’art. 141 TCE che ha trasformato il principio della parità di retribuzione in uno strumento incisivo per la rivendicazione della parità dei diritti delle lavoratrici e successivamente anche delle donne in generale (Chiti, 2000).

In particolare, l’art. 141 TCE ribadiva, nei paragrafi 1 e 2, il principio dell’uguaglianza retributiva tra i lavoratori di sesso maschile e femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, ove per lavoro di pari valore si intende quello svolto sulla base di una valutazione obiettiva dello stesso, indipendentemente dal sesso del lavoratore. Tale valutazione obiettiva trova il suo fondamento sulla quantità e sulla qualità del lavoro e sul tempo necessario impiegato nella prestazione di lavoro svolta.

A tale proposito, occorre considerare la Direttiva 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975, volta a perseguire il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile.

In particolare, tale Direttiva, sulla base di quanto previsto dall’art. 141 TCE, imponeva agli Stati membri di adeguare il proprio ordinamento al principio della parità retributiva entro un dato termine, non lasciando alcun margine di discrezionalità agli Stati e prevedendo conseguenze in caso di inadempimento.

Sempre a proposito dell’art. 141 TCE, i commi 3 e 4 prevedevano rispettivamente l’applicazione del principio delle pari opportunità e il principio della parità di trattamento, non solo con riferimento agli aspetti retributivi del rapporto di lavoro (ex art.119 CEE), ma anche in materia di occupazione e impiego(Pollicino, 2005).

Con riferimento al principio della parità di trattamento, il comma 4 stabiliva:

“Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedono vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”.

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La costituzionalizzazione, per la prima volta a livello comunitario, del principio del trattamento preferenziale (Pollicino, 2005), attraverso l’art. 141 TCE, ha rappresentato una tappa fondamentale del lungo e faticoso cammino per l’affermazione della parità di genere nel mercato del lavoro (Chiti, 2000). Fino a quel momento, infatti, l’unico riferimento normativo vincolante, nonché l’unico parametro della giurisprudenza comunitaria riguardante il principio del trattamento preferenziale, come già visto, era individuabile nell’art. 2, comma 4, della Direttiva 76/207/CEE.

Da un confronto tra il comma 4, dell’art. 141 TCE e il comma 4, dell’art. 2, della Direttiva 76/207/CEE, una prima differenza è individuabile nel significato che il legislatore comunitario attribuisce allo strumento delle misure preferenziali.

Lo strumento in esame, così come definito nella nuova formulazione dell’art. 141 TCE, prende le distanze da quello che era l’obiettivo iniziale della CEE, che si limitava solamente a garantire alle donne il raggiungimento dello stesso livello retributivo degli uomini, senza tenere conto di tutte quelle discriminazioni che per troppo tempo erano state perpetuate a danno delle donne in ambito lavorativo.

La svolta consiste, dunque, nell’attuazione del principio del trattamento preferenziale attraverso il riconoscimento, nell’esercizio dell’attività professionale, di vantaggi specifici in favore delle donne, al fine di assicurare e non di compromettere l’effettiva parità uomo-donna.

In secondo luogo, anche i destinatari sono individuati diversamente. Infatti, mentre il comma 4, dell’art. 2 della Direttiva 76/207/CEE individuava esclusivamente nella figura femminile il soggetto destinatario del trattamento preferenziale, il comma 4 dell’art. 141 TCE adottava una formulazione neutrale e indifferenziata, al fine di garantire, in ambito lavorativo, uguali posizioni tanto agli uomini quanto alle donne e prevedendo l’attribuzione di vantaggi diretti e specifici al gruppo che, di fatto, risultava oggettivamente svantaggiato (Pollicino, 2005).

2. Il contributo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

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