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Il contributo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) nell’individuazione dei confini del trattamento preferenziale

Parte III La seconda fase dell’evoluzione del diritto del lavoro dell’Unione europea

2. Il contributo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) nell’individuazione dei confini del trattamento preferenziale

In seguito alla revisione del Trattato di Amsterdam, l’Unione europea, nell’ottica di consolidare un approccio coerente e integrato nei confronti della lotta alla discriminazione, nel dicembre del 2000, a Nizza, adottava la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, composta da un preambolo e 54 articoli, riconoscendole il valore giuridico di fonte primaria del diritto dell’Unione Europea. Tale Carta ha rappresentato un importante passo in avanti nel rafforzamento del processo di democratizzazione intrapreso dall’Unione Europea e ha modificato gli obiettivi originari di carattere solo

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strettamente economico, propri della Comunità europea, dando avvio ad una nuova stagione attraverso l’individuazione di un preciso catalogo di diritti fondamentali basato sui seguenti valori di riferimento: dignità (artt. 1-5),

libertà (artt. 6-9), uguaglianza (artt. 20-25), solidarietà (artt. 26-30), cittadinanza (artt. 39-46) e giustizia (artt. 47-50) (Trione, 2004; Blanke, 2009; Barbera, 2019). Così facendo, ha contribuito alla realizzazione del processo di integrazione europea, attraverso la sua azione di bilanciamento tra gli originari interessi economici, propri della CEE, e il riconoscimento della universalità dei diritti sociali, quali diritti fondamentali che spettano a tutti gli esseri umani. Per la prima volta, i diritti fondamentali dell’UE (civili, politici, economici e sociali), quali principi generali dell’ordinamento comunitario, trovavano collocazione in un unico documento (Troisi, 2012; Mengozzi, 2003). La novità del documento in esame consisteva, quindi, non tanto nel suo contenuto – essendo più che altro una codificazione dell’esistente – quanto piuttosto nelle modalità di catalogazione e sistemazione delle differenti categorie di diritti, dal momento che non li separava ma, al contrario, li univa fino a formare un’indivisibilità tra diritti civili, politici, economici e sociali (Pollicino, 2005).

Focalizzando l’attenzione sulla struttura della Carta, si nota come accanto ai tradizionali diritti fondamentali incentrati sulla libertà e sull’uguaglianza, quali il diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto alla libertà di

espressione e di informazione (art. 11), il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10), il diritto di non discriminazione (art. 21), il diritto di parità tra uomo e donna (art. 23), il diritto di uguaglianza davanti alla legge (art. 20), il diritto alla libertà di riunione e di associazione (art.

12), si pongono anche diritti fondamentali c.d. “nuovi”, fortemente connotati da un carattere sociale ed economico quali il diritto alla vita (art. 2), il diritto

alla privacy e alla protezione dei dati personali (artt. 7-9), il diritto alla tutela dell’ambiente (art. 37), il diritto all’obiezione di coscienza (art. 10), il diritto alla protezione dei consumatori (art. 38), il diritto di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30), il diritto di negoziazione e di azione collettiva dei lavoratori (art. 28), il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 27), il diritto alla protezione della proprietà intellettuale (art. 17), il diritto a una buona amministrazione (art. 41), il diritto all’accesso ai servizi di interesse economico generale (art. 36).

Inoltre, come affermato nel preambolo, la Carta, avendo ad oggetto diritti il cui godimento “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”, prevedeva anche una serie di norme intese a proteggere categorie di soggetti deboli, quali minori (art. 24), anziani (art. 25) e disabili (art. 26), nell’ottica di una tutela dell’uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale (artt. 24-26) (La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).

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Con riferimento specifico al trattamento preferenziale, la Carta di Nizza ha dato grande rilievo al principio di uguaglianza, a cui dedica il terzo titolo (artt. 20-26) a tenore del quale: tutte le persone sono uguali davanti alla legge (art. 20), cui segue è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in

particolare sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica e sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (art. 21), il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica (art. 22), l’uguaglianza di trattamento tra uomo e donna in tutti i campi (art. 23, n. 1), e accompagnata dall’esigenza di realizzare una parità sostanziale tra i due sessi, con la previsione della possibilità di adottare misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato

(art. 23, n. 2).

Le disposizioni richiamate fanno emergere una stretta correlazione tra il principio della parità di trattamento, sancito dall’articolo 20 della Carta – principio generale del diritto dell’Unione – e quello di non discriminazione enunciato all’articolo 21, comma 1, del medesimo documento. I due principi, dotati ognuno di una propria autonoma funzione, appaiono interscambiabili e ciò in virtù della considerazione secondo cui, nel diritto, a un uguale trattamento corrisponde necessariamente il diritto a non essere discriminati.

Dunque, il principio di non discriminazione, enunciato nell’art. 21, comma 1, diviene, sulla base del valore conferitogli dalla Carta, un principio generale del diritto dell’Unione, che offre non soltanto una tutela effettiva alle tradizionali discriminazioni basate su sesso, razza, religione ed etnia, ma si estende anche a nuove forme di discriminazione che trovano origine in convinzioni personali, handicap, età e tendenze sessuali, con riferimento alle opportunità di accesso, ai trattamenti economici e normativi, al grado di copertura rispetto ai rischi nascenti dal rapporto di lavoro, alla segmentazione dei mercati del lavoro e al grado di esposizione al rischio di povertà.

Nella direzione appena tracciata, si è mosso anche il diritto secondario con le Direttive di seconda generazione, così denominate in quanto appartenevano alla seconda fase temporale dell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio, aprendo una nuova stagione che avrebbe comportato l’estensione del raggio d’azione del principio di non discriminazione anche all’ambito dell’accesso e della fornitura di beni e servizi, quali istruzione, sanità, alloggi, trasporto, servizi assicurativi, public utilities.

A tale proposito, la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, emanate sulla base giuridica dell’art. 13 TFUE, hanno definitivamente regolato e dato attuazione al principio di non discriminazione.

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In particolare, la Direttiva 2000/43/CE ha esteso il campo di applicazione del divieto di discriminazione, in un primo momento circoscritto all’esclusivo settore del lavoro, anche all’accesso e alla fornitura di beni e servizi, mentre la Direttiva 2000/78/CE ha conservato il campo di applicazione tradizionale dell’occupazione e delle condizioni di lavoro.

L’ulteriore novità introdotta dalle Direttive di seconda generazione riguarda, inoltre, l’attribuzione del valore di bene protetto alla dignità della persona, inserendo, così, il divieto di discriminazione nella sfera dei diritti umani (Favilli, Guarriello, 2017).

In questo modo, il principio di parità di trattamento ha acquistato il valore di tutela della personalità umana e ha posto l’attenzione sull’individuo in quanto tale, senza distinzione di sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, handicap, età e tendenze sessuali (Tria, 2017).

Tornando all’analisi della CDFUE, sempre con stretto riferimento all’oggetto della presente trattazione, l’art. 23, ricalcando in larga parte le previsioni appena menzionate, al primo comma asserisce che:

“La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”.

In primo luogo, occorre notare l’inversione dell’ordine delle parole in quanto non si parla più di “parità tra uomini e donne”, bensì di “parità tra donne e uomini” e ciò in virtù della maggiore frequenza di atti discriminatori perpetuati nei confronti delle persone di sesso femminile. Invero, il divieto di discriminazione non tutela soltanto le donne, ma anche gli uomini, da tutte quelle normative o prassi che, pur se in ipotesi meno frequenti, risultano, però, essere comunque, discriminatorie in quanto fondate sulla distinzione del sesso (vedi, per esempio, Corte Giust., 13 novembre 2008, Commissione c. Italia, C-46/07 che riguarda la normativa italiana, la quale riconosceva ai dipendenti pubblici il diritto di percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, rispettivamente sessantacinque anni, se uomini, e sessant’anni se donne. Discriminazioni di questo tipo, c.d. a rovescio, ritenute ingiustificate o sproporzionate dalla Corte di Giustizia, sono state talvolta riconducibili proprio ad azioni positive in favore delle donne).

In secondo luogo, il medesimo comma assicura la parità “in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”, non limitandosi a perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza solo con riferimento all’ambito del lavoro, conformemente a quanto previsto originariamente dalla CEE, ma, pur rimanendo quello prevalente, lo estende in tutti gli ambiti.

Alla luce di quanto detto, quindi, il primo comma dell’art. 23 CDFUE ribadisce il principio della parità tra i sessi, insito nella regola generale di uguaglianza prevista dall’art. 20 CDFUE e nel divieto generale di

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discriminazione – comprese quelle fondate sul sesso – stabilito dall’art. 21 CDFUE.

L’art. 23 CDFUE compie inoltre un ulteriore sforzo rispetto al perseguimento della sola politica antidiscriminatoria, individuando specificatamente le misure di diritto diseguale nel principio stesso di parità di trattamento (Spitaleri, Vallauri, 2017).

A tal fine, il secondo comma stabilisce:

“Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”.

Tale comma, che riprende, a sua volta, l’articolo 157 TFUE, comma 4, secondo cui:

“il principio della parità di trattamento non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato o a prevenire o compensare determinati svantaggi nella carriera professionale”, riconosce piena legittimità all’adozione di vantaggi specifici in favore del sesso sottorappresentato in un determinato ambito sociale o lavorativo, ossia alle misure preferenziali funzionali alla rimozione delle condizioni di svantaggio presenti in un determinato ambito sociale o lavorativo, al fine di garantire una coesistenza armoniosa e una partecipazione equilibrata all’interno della società tanto alle donne quanto agli uomini.

In concreto, attuare tali misure significa realizzare il principio di uguaglianza sostanziale, attraverso la rimozione di tutti quegli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza non soltanto del singolo individuo ma dei cittadini in generale, impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Si tratta perciò di misure capaci di contrastare, in particolare, le discriminazioni indirette, cioè quelle in grado di produrre, attraverso atti o comportamenti apparentemente neutri, effetti svantaggiosi per chi appartiene a un determinato gruppo. Ciò è ulteriormente confermato dal riferimento presente nel secondo comma dell’art. 23 CDFUE al “sesso sottorappresentato”, il quale colloca la questione in una dimensione collettiva, per cui le misure preferenziali sono legittime se giustificate dalla necessità di rimediare non alla condizione di discriminazione individuale, bensì a una condizione di segregazione che riguardi un gruppo. Tale riferimento assume inoltre un significato bidirezionale, utilizzabile nel caso di un’eventuale condizione di sottorappresentazione, a favore di entrambi i sessi (Spitaleri, Vallauri, 2017).

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L’art. 23 CDFUE denota, quindi, una presa di coscienza circa l’entità del principio della parità di trattamento tra i generi, il cui raggiungimento diventa possibile, considerando tanto la dimensione negativa, concernente il divieto di discriminazione (tutela statica/difensiva), quanto la dimensione positiva delle misure preferenziali (tutela attiva/correttiva).

In altre parole, l’individuazione di specifiche misure, con cui attuare il trattamento preferenziale, da parte della CDFUE ha comportato da un lato il riconoscimento di un nucleo di diritti legati alla persona della lavoratrice e dall’altro ha definito i confini del principio del trattamento preferenziale al fine di ovviare all’eventuale rischio di incappare in forme discriminatorie in sfavore dell’altro sesso.

3. Il ruolo determinante della Corte di Giustizia in tema di trattamento

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