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L’etica del confronto

L’opzione per il nuovo realismo porta con sé il recupero del valore della ragione, che sta rischiando di rimanere vittima di un modo di pensare che, ossessionato dalla critica di ogni dogmatismo, finisce per proporre un dubbio iperbolico la cui vittima più illustre è costituita proprio dalla ragione umana, che viene ridotta ad una mera funzione decostruttiva volta a smascherare una costruzione sociale come azione libe- ratoria, ma incapace di fornire una ragione valida a favore del proprio sistema di ra- gionamento.

Inoltre, il dubbio iperbolico dei costruttivisti, come abbiamo visto, conduce di- ritto all’isolazionismo, che corrisponde ad una strana relazione con l’altro che pos- siamo definire di “mera emissione” del proprio punto di vista, senza attendersi né una replica e senza interessarsi dell’interlocutore e del suo punto di vista sull’oggetto della comunicazione. Si tratta di una posizione rilevante dal punto di vista filosofico, ma che corrisponde ad un atteggiamento molto diffuso tra le persone, riassumibile nell’espressione “io la penso così, tu la pensi cosà” e con questa affermazione il dia- logo si intende concluso. Possiamo solo passare a parlare d’altro. O meglio: la que- stione della prevalenza di una narrazione sull’altra non è affidata all’uso della ragio- ne, bensì a quello del consenso ed in definitiva del potere: nel gruppo che ascolta, prevarrà la posizione di chi riuscirà ad avere il migliore effetto emotivo e ad interpre- tare gli interessi della maggioranza, mentre le altre saranno neglette perché non so- stenute da un’enfasi abbastanza forte emotivamente oppure non intrecciano alleanze di potere tra gli astanti.

Avremo quindi la formazione di “comunità di opinione”, spesso di natura mediatica o che si avvalgono decisamente dei social media, costituite da coloro che condividono affinità emotive, bisogni e interesse, ma che presentano un debole fondamento razionale dei propri convincimenti.

Ciò pone l’importanza dell’etica del dialogo, che non indica unicamente la virtù della cortesia intesa come la degnazione nell’ascolto anche dell’opinione dell’altro, pur senza impegnarsi veramente, ma quella della disponibilità a mettersi in discussione in- tavolando un confronto aperto circa l’oggetto della discussione, i fatti cui ci si appella per motivare la propria posizione, i criteri (espliciti ed impliciti) dell’argomentazione. L’influenza decisiva dei media porta ad un tipo di emissione del proprio punto di vista che assume preferenzialmente la forma di una mera enunciazione che tende ad affermarsi non tramite confronti razionali, ma per mezzo della carica emotiva della comunicazione e della forza del consenso che sovrasta l’avversario: si veda

l’espressione “claque”, un termine onomatopeico che indica proprio il rumore del battere le mani, riferito ad un gruppo organizzato di spettatori che applaude o dissen- te non spontaneamente, ma dietro compenso economico o di altra natura. Sin dal- l’antica Roma, venivano organizzati per tempo gruppi di applauditori o di fischiatori in rapporto allo scopo che si voleva perseguire in uno spettacolo, appoggiandosi in genere ad un capo che possedeva l’autorevolezza per cominciare un applauso o una salva di fischi e successiva gazzarra, terrore di ogni impresario teatrale. Infatti, que- sto tipo di “servizio” veniva offerto a pagamento da gruppi di persone a impresari e artisti, allo scopo di sostenerne le fortune e tentare di demolire quelle dei loro avver- sari. Per questo «si definisce claque qualsiasi tipo di manifestazione di consenso o di dissenso, non spontanea, ma espressa in modo da sembrare tale e finalizzata a susci- tare o amplificare l’atteggiamento del resto del pubblico»20.

È qualcosa di simile, anche se meno carica emotivamente, alla cosiddetta “ragione dell’audience”, il conto del numero di ascoltatori che hanno seguito una certa trasmis- sione televisiva o radiofonica oppure un dato messaggio pubblicitario in una determi- nata fascia oraria. Gli imprenditori mediatici, ma non solo loro, attribuiscono un valore di verità allo share, che ovviamente è un indicatore di interesse, non di adesione ragio- nevole a quanto sostenuto. Come dire che ciò che conta non è ragionare, ma dramma- tizzare, suscitare sentimenti forti, anche di avversione. È questa la tragica deriva della figura del giornalista che persegue ciò che è eclatante, mentre ha smarrito le regole del- l’informazione e del servizio affinché i propri lettori formulino autonomamente ed in modo ponderato il loro giudizio. In questo forma di comunicazione, il giornalismo “si è profondamente smarrito e corrotto negli ultimi 25 anni” (Cohen, Lévy 2008); questa categoria, caduta da tempo nella trappola della spettacolarizzazione ad ogni costo della notizia, ha subito un tale processo di involuzione da mutare radicalmente la propria na- tura divenendo imbonitore, presentatore di tesi preconfezionate che si impongono per ripetizione ossessiva e cancellazione di quelle contrastanti.

Un’altra forma di consenso emotivo ed interessato, decisamente di parte e non attento al dialogo aperto e sincero, è quella dei social network tanto da coniare l’espres- sione followership, ad indicare la supremazia del follower rispetto al proprio leader, che viene pressato, sollecitato, indirizzato in una certa direzione, normalmente in modo ac- centuato e tendenzialmente radicale. Da ciò si deduce che la cosiddetta “democrazia dei media” rovescia il rapporto tra leader e sostenitore: il primo non esprime più una fun- zione di indirizzo e di guida, ma viene lui stesso indirizzato dalla parte più radicale dei propri sostenitori, quella che preferenzialmente gli invia messaggi, partecipa alle dis- cussioni, prende posizione sulle questioni. La sociologia della politica mostra invece che il successo del leader non sta nell’assecondare coloro che già aderiscono al suo messaggio, ma nell’ampliare la cerchia dei sostenitori operando sui confini del proprio

ambito di riferimento e sottraendolo agli altri. Solitamente, per chi già condivide un punto di vista servono messaggi forti, mentre per chi è estraneo alla comunità dei so- stenitori servono ragioni plausibili (Dardo, Magnone, Tartaglia 2011).

Occorre considerare che l’individuo del nostro tempo è subissato – assediato – da una congerie di forme di comunicazione che, spesso agendo su fattori emotivi e solle- citando i sensi, hanno lo scopo di attirare la sua attenzione su un messaggio, un avveni- mento, una posizione predefinita. L’aggiunta a questa emissione pressante di una sorta di partecipazione militante da parte dei sostenitori più accaniti e radicali, genera un mo- do di concepire la comunicazione come lotta per il consenso che si persegue tenden- zialmente senza limiti etici. In questo modo, i giovani vengono condizionati a ripetere i messaggi forti senza considerare la ragionevolezza della loro posizione; chi aderisce in questo modo alle tribù mediatiche vive tendenzialmente con fastidio l’interlocuzione con chi la pensa in modo differente, il confronto pacato, la ricerca di un punto di intesa che non sia la semplice supremazia di una parte sull’altra. Si apre di conseguenza una questione di etica del dialogo e ciò qualifica decisamente il ruolo della scuola come luo- go del confronto e dell’argomentazione ragionevole.

È una questione di libertà autentica e di civiltà della convivenza, contro il dogma- tismo mediatico e populista. La qualità propria di una società civile, la socievolezza, in- dica le virtù dell’apertura, dell’umiltà e della ricerca di uno spazio comune che si ap- poggiano su uno stile ragionevole ed argomentato di approccio alla conoscenza.

Per questo, risulta molto convincente la proposta di Romano Guardini che fonda la vera conoscenza sull’opposizione polare che parte dalla consapevolezza della frammentarietà del reale e del rischio sempre incombente della lacerazione che però viene superata dalla visione dell’unità di ogni realtà vivente. Questa si costituisce in momenti che mai si confondono né si fondono ma che, rimanendo se stessi, rendono vera l’esistenza.

Per Guardini: «Gli opposti non sono contraddittori. Bene e male sono contraddi- zioni; così vuoto e pieno; chiaro e oscuro; sì e no. Voler congiungere coppie di tale genere sarebbe impurità spirituale» (Guardini 1997, p. 152). La stessa idea di divino e quella di demoniaco, così malintese, verrebbero ad essere identificate in termini di op- posizione polare anziché in quelli di contraddizione. Come precisa l’autore italo-tede- sco, invece: «Questa è l’opposizione: che due momenti, ciascuno dei quali sta in se stesso inconfondibile, inderivabile, inamovibile, sono tuttavia indissolubilmente legati l’un l’altro; si possono anzi pensare solo l’uno per mezzo dell’altro» (Ivi).

Da qui l’importanza dell’idea degli opposti, che risiede non nell’unificazione dei punti di vista che compongono il contrasto, bensì nella possibilità insita in esso in quan- to dischiude l’ontologia del concreto vivente, permette all’uomo di poter “guardare” il mondo in cui egli stesso vive in una prospettiva nuova, limpida e chiara, in un modo appunto: «Suo proprio: come “mondo”, voglio dire in un’interezza in sé conclusa» (Ibi- dem, p. 199). Egli non utilizza il termine “dialettica”, perché questo rinchiuderebbe il pensiero entro uno schema teoretico generale, inglobante (e pretenzioso), ma si limita al fenomeno della vita umana perché in tal modo può muoversi sul terreno dell’esperien-

za e su questo far muovere anche il lettore il quale può verificare il rapporto tra gli op- posti nella vita che, a differenza dello schema, non si presentano nettamente separati ma si avvicinano reciprocamente. Allo stato puro, gli opposti non hanno in sé più nulla di vivo: il costo dell’unilateralità dello schema è la vita. Di contro, nel trattare della vi- ta umana, occorre conservare il ritmo determinante della vita stessa, quella pulsazione che si muove nella successione tra gli opposti: lo squilibrio è l’elemento normale, la cri- si è dimostrazione di vita.

Con Guardini, dobbiamo considerare il valore del dialogo non già come accosta- mento dei diversi punti di vista o ricerca di un punto comune concentrato sui fattori condivisi escludendo ciò che invece differenzia le parti in gioco, ma come un vero e proprio superamento della posizione del contrasto che consiste nella capacità di dare vita ad un: «Movimento conoscitivo orientato, in un modo del tutto speciale, alla totali- tà delle cose, a ciò che “ha carattere di mondo” (Das Welthafte) nella realtà data... esso riguarda in modo particolare la concreta, irripetibile unicità di questo mondo, un atteg- giarsi definito di fronte alla realtà che sta intorno a noi» (Guardini 1994, p. 67).

Secondo questa impostazione, il dialogo si fonda sulla capacità umana di una va- lorizzazione e nel contempo di un superamento dell’opposizione polare; tuttavia «un tale superamento sarebbe possibile soltanto da una posizione che stia al di sopra del mondo, sopra tutto ciò che in qualche modo può essere naturalmente dato... come se un qualcosa di assolutamente sovramondano si elevasse all’interno dell’ambito delle real- tà date» (Ibidem, p. 69). Si necessita, cioè, di un qualcosa che poggi se stesso “fuori” del mondo pur volgendosi al mondo; e nonostante questo, tale extra-mondanità occorre che in qualche maniera sia correlativa all’ambito dell’osservatore umano, poiché: «Altrimenti io, che appartengo al mondo, non potrei avere rapporto alcuno verso questa realtà totalmente estranea» (Ibidem, p. 76).

La capacità di dialogo regge l’autentica conoscenza, non si tratta di una semplice “compassione” verso l’altro, tesa a valorizzarlo richiamando parte di ciò che afferma, ma della disponibilità del proprio intero essere alla verità che non riposa affatto sul consenso dei molti, bensì sulla capacità di cogliere nei contrasti del reale le aperture che conducono ad un’unità capace di soddisfare l’esigenza profonda di un sapere che incrementa la capacità di visione e di vita.

Il valore dell’intuizione originaria del reale

Ma il dialogo trae origine dal riconoscimento comune della capacità di cogliere il reale nella sua consistenza oggettiva, in modo ragionevole. Se un insegnante non partisse da questo presupposto, non potrebbe letteralmente insegnare. La conoscenza non si fonda sulla sostituzione del punto di vista del soggetto, ma nella proposta di un cammino su “come stanno le cose” che si appella al desidero di sapere, ma anche su una serie di regole intuitive circa la possibilità di dire “come stanno le cose”.

dall’opinione umana e che siamo in grado di arrivare a credere come stanno le cose in modo oggettivamente ragionevole, valevole per chiunque sia in grado di apprezzarne l’evidenza a favore indipendentemente dalla prospettiva sociale o culturale» (Boghossian 2006, p. 15).

Non basta dire che il soggetto umano e la realtà entrano in relazione, perché può fare difetto lo sguardo sulla realtà, come accade nel “relazionalista immaginario”, una posi- zione in definitiva scettica, pur se ammantata da intenzioni eticamente apprezzabili come il rifiuto del dogmatismo ed il riconoscimento della pluralità dei punti di vista. Infatti, se ogni affermazione circa un fatto ha eguale validità, il discorso finisce lì, non c’è più né dialogo né crescita reciproca.

La realtà oggettiva è invece accessibile ed anche persuasiva, essa si presenta al sogget- to umano come portatrice di valori convincenti, corrispondenti alla disposizione dell’ani- mo e sostenuti da “buone ragioni” (Perelman; Olbrechts-Tyteca 2001) che possono essere scoperte e fatte proprie, oltre che argomentate in modo persuasivo. Va detto che questi va- lori – etici, politici e religiosi – sono le cose che più contano per le persone umane: esse ri- guardano più da vicino l’esistenza quotidiana e ne costituiscono i riferimenti di fondo.

Il cammino della scoperta origina da una certezza: la realtà che compare ai miei sensi è reale, non rappresenta il prodotto del mia mente, non è il riflesso del mio mon- di interiore, ma sussiste indipendentemente dal fatto che io la percepisca. Il fatto che il mondo al di fuori di me esista è consolante perché attesta che anch’io esisto; ne è la prova il limite del mio mondo soggettivo, il fatto che la realtà non si chiude nello spa- zio dei miei sensi, non promana da essi. La consistenza del reale è la condizione del- la consistenza dell’identità individuale, poiché rende possibile il camino di una co- noscenza autentica. Il soggetto umano non si limita però ad attestare l’esistenza del mondo tramite le funzioni cognitive che, associative a quelle sensitive, mobilitano le facoltà della rispondenza e della corrispondenza, vale a dire il modo in cui la mente prende coscienza del modo in cui stanno le cose. La scoperta della realtà, prima che attivare i processi epistemici, provoca stupore ed anche consolazione: lo stupore con- siste in un empito dell’animo che coinvolge tutto l’essere umano e giunge alla co- scienza come consapevolezza di esistere intrisa nell’esultanza dello stare al mondo, in una realtà vissuta come un prodigio. È la stessa esperienza che si prova quando si riceve un dono inatteso, non dovuto, e sproporzionato e pertanto non creato ponendo in gioco le risorse a disposizione dell’uomo. Ma anche non ripagabile, il cui valore non può essere compensato neppure con tutto ciò che si può fare nell’intera propria esistenza. È lo stesso sentimento che accompagna la festa, un’esperienza fondamen- tale per comprendere il mistero dell’esistenza umana, quella che giustamente Nietz- sche pone in una relazione, poiché: «L’abilità non sta tanto nell’organizzare una festa, ma piuttosto nel trovare coloro che si rallegrino in essa»21. Questa esperienza non

21Citato da J

viene cancellata né negata dal fatto che, magari, nella gran parte dei casi non provia- mo gioia nel dono ricevuto (com’è difficile fare un regalo rivelativo del nostro modo di sentire la personalità del destinatario, e soprattutto non scontato!) e ci annoiamo alle feste, magari preferendo con Leopardi la sua attesa piuttosto che essere amareg- giati dall’avvertirne la prossima conclusione.

Ma il rallegrarsi non è esaurito dall’oggetto o dall’esperienza che ci coinvolge; è necessaria quella particolare libertà che fa sì che l’elemento di contemplazione giun- ga al centro della nostra anima, così che il nostro essere esulti – è ancora Nietzsche ad affermarlo – si deve approvare tutto. Il termine dello stupore dell’anima è dato dalla totalità delle cose, non solo da quelle che procurano piacere, ma anche ciò che rivela l’abisso intricato del cuore umano. Come l’esperienza del dolore che stravolge la vi- ta di Oscar Wilde, gli spezza il cuore ma non lo impietrisce, anzi lo porta ad una com- prensione più piena della sua vita: «Vidi allora che la sola cosa da fare era di accetta- re ogni cosa» (Wilde 2010, pp. 82-83) per poter così essere all’altezza della vocazio- ne riposta nella sua anima, quella che lo attendeva come un amico anche quando si era perso, perché «anche l’altra metà del giardino mi riserbava i suoi segreti» (Ibi- dem, p. 77). Ed è il rovesciamento della posizione di Nietzsche: invece di fare del senso dell’abisso il motivo dell’esaltazione orgogliosa e terribile della condizione umana, Wilde propone il cammino della riconciliazione con la propria anima, che porta a comprendere che l’amore è il segreto che il mondo ha perduto e di cui i sa- pienti sono perennemente alla ricerca.

Nel rapporto naturale con le cose la persona avverte la consistenza propria del reale, afferra il senso stesso della verità come entità distinta dalla nostra mutevole soggettività e nel contempo attribuisce consistenza al nostro esistere. Da qui giunge la consolazione che scaturisce dalla fiducia nei confronti del reale: è la consapevo- lezza che la realtà riposa su un punto di riferimento saldo e consistente, non inganne- vole (fallace), così che possiamo scegliere di appartenere al luogo ed al tempo in cui si svolge la nostra esistenza, sia alle piccole cose che stimolano i nostri sensi sia alle grandi forze che smuovono il mondo, come pure a ciò che non conosciamo ancora poiché è velato dall’oscurità che ricopre i tempi futuri. La tensione al sapere che vive in ogni persona presuppone la possibilità che le cose siano così come sono e che pos- sano essere conosciute come verità e non mere rappresentazioni linguistiche, tecni- che o estetiche fatalmente destinate alla dissoluzione. La certezza del reale, la ragio- nevolezza del bene quando sono esperienze condivise entro una comunità, suscitano la disposizione della persona umana alla vita buona.

Così, il centro dell’educazione consiste nel sollecitare una metodologia della co- noscenza centrata sulla capacità di mettere in relazione il rapporto naturale ed imme- diato con le cose che ogni persona vive e sperimenta, con le grandi opere del genio umano che hanno costellato il cammino della civiltà. In questo modo il sapere, più dell’arida descrizione funzionale dei fenomeni, risulta un’esperienza capace di pro- fondità e di accesso alla verità del nostro essere al mondo (Fumaroli 2011, p. 712).

Il potere della ragione

Indubbiamente la possibilità di conoscenza pone in luce il valore della ragione co- me peculiare facoltà umana tramite la quale il reale diviene intelligibile sia nei suoi aspetti evidenti, sia in quelli nascosti connessi alla dinamica dei processi scientifico ma- tematici sottesi ai fattori percepibili immediatamente tramite i sensi, sia infine quelli che si possono comprendere per consonanza ed affezione.

La mente è innanzitutto in grado di nominare un fatto, ed in tal modo compie quel- l’azione che connota l’uomo in quanto uomo e che consiste nell’esercizio del linguag- gio. Inoltre, la mente possiede la capacità di dare giustificazione ad una credenza, ed al suo contenuto proposizionale, riferendola sia a dei fatti, così da poterla considerare vera, vale a dire giustificata e razionale rispetto ai fatti, sia a delle argomentazioni appropriate, in modo da poterla ritenere valida sul piano logico e pertanto condivisibile, e quindi ra- zionale rispetto ai significati.

Questi processi della mente sono resi possibili dal ricorso a concetti e a regole epi-