• Non ci sono risultati.

Il cammino di maturazione umana come inveramento dei talenti e delle capacità della persona

Come si può configurare il cammino di maturazione umana del giovane nell’e- poca odierna caratterizzata dall’intreccio tra storia sospesa e umanità distratta ed im- pedita? Attraverso l’inveramento o la “liberazione” dei talenti e delle capacità del soggetto umano, inserito in una comunità culturale viva, attivamente aperta al reale.

Tali capacità consistono soprattutto nell’intuizione, il “sesto senso”56che ci con-

sente di percepire il sentimento dello stare al mondo e la forza originaria dell’indivi- dualità che esige una corrispondenza sensibile della propria esistenza da parte di un pubblico consonante, sia quello in presenza (fisico) sia quello in memoria (storico); è ancora grazie all’intuito che l’individuo avverte la realtà (l’essere-reale dei filoso- fi) come entità dotata di una propria consistenza ed indipendente dall’io pensante, e che sente verso di essa un richiamo per la propria realizzazione. Dall’intuizione di- pende in gran parte la capacità di connettere il mondo esterno al mondo interno, di co- gliere la differenza esistente tra il fondamento dell’apparenza e l’apparenza, ciò che consente l’accesso ai desideri autentici che provengono dall’io individuale, mentre una sua limitazione oppure la mancanza di fiducia nelle sensazioni intuitive del pen- siero produce una debolezza dell’io che comporta la disposizione a lasciarsi ingan- nare da desideri inautentici indotti dall’esterno.

La coscienza dell’essere umano è ricca inoltre di immaginazione, la facoltà me- diante la quale egli trascende la percezione dei sensi, così da poter cogliere il potere delle forme e dei simboli come porta d’accesso alla dimensione invisibile del reale, come pure a ciò che è stato prima della propria esistenza individuale, oltre a ciò che non è ancora accaduto e che potrebbe accadere. La mancata alimentazione del senso estetico tramite il vastissimo spazio del bello – composto dalle opere umane come dal- le opere di natura – oppure l’abitudine ad immagini cattive, prosaiche, provocatorie, intristisce la visione con la monotona, uniforme ed onnipresente bruttezza delle co- se, impedendogli di cogliere la straordinaria varietà e ricchezza del reale, ed in essa, della propria stessa essenza individuale.

La ragione costituisce la facoltà propria dell’intelletto che opera mediante paro- le, concetti, metafore, concatenati in articolazioni di pensiero dotate di logica. La fa-

56Tommaso D’Aquino parla del sensus communis come di un senso interiore che opera come la

radice e il principio comuni dei sensi esteriori (Summa Teologica, parte 1, quaestio 78, 4 ad 1, citato in ARENDT2009, p. 134).

coltà del raziocinio possiede un’enorme potenzialità: essa riflette sia il mondo visi- bile sia quello invisibile, ma soprattutto tende a fornire plausibilità al sentimento del mondo che il soggetto prova o alla visione della realtà fornitagli in modo spesso in- consapevole dall’ambiente in cui vive. L’esercizio della ragione possiede un suo sti- le che si fonda essenzialmente sul principio della consonanza del pensiero riflessivo rispetto alle esigenze del sé, così come vengono suggerite dai cinque sensi oltre che dal senso comune, ed inoltre dell’anima che esprime l’affezione nei confronti della sua stessa vita e della realtà che lo circonda.

La ragione può quindi essere in dissonanza con la realtà del soggetto: si pensi al- l’indifferenza per il proprio corpo tipica di una certa posizione filosofica, ma si con- sideri anche le conseguenze del credo ideologico sulla personalità: la fissazione dog- matica, la certezza di essere nel giusto e l’elaborazione del nemico verso cui viene ali- mentato un odio costante, per certi versi irremovibile. Ma si pensi alla difficoltà di esprimere con le parole ed i concetti l’esperienza mistica, il senso di smarrimento nei confronti del cosmo infinito, l’impeto improvviso di gioia ed il desiderio di rin- graziamento che persino un ateo può avvertire nella sua anima, pur negandone intel- lettualmente l’esistenza. Nel caso di evidente – e spesso dolorosa – dissonanza, la ret- ta ragione, qualità precipua del saggio, ricerca ed elabora una nuova prospettiva, in grado di spiegare i dati dell’esistenza così come il soggetto li avverte.

Ma vi è il caso, oggi piuttosto frequente, in cui gli stimoli che giungono all’in- telletto provengono da una fonte artefatta, da una parvenza di mondo, da desideri inautentici che inquinano la capacità di sentire dell’individuo; questa particolare espe- rienza può condurre a ragionamenti di natura ibrida che rendono problematico il la- voro della ricerca di risposte plausibili agli interrogativi che sorgono dalla sua esi- stenza, specie quando il soggetto avverte una frattura tra l’immagine di sé così come gli proviene dagli altri ed il sentimento dell’esistenza che avverte dentro di sé e che stride con quella: quel senso di estraniazione che mi impedisce di essere soddisfatto del modo stereotipato in cui gli altri mi percepiscono è un’intuizione sana oppure un difetto della personalità? E ancora: il modo in cui trascorro il mio tempo, le relazio- ni che intreccio con gli altri e le attività in cui mi ingaggio, sono quelle adeguate all’espressione del mio io autentico?

Di fronte a questi interrogativi, è posta in gioco la capacità di giudizio circa ciò che è nel giusto e ciò che invece è nel torto, un’altra componente del dominio della ragione il cui esercizio diviene difficile se il prezzo che si rischia di pagare consiste nel trovarsi non accettato dagli stessi presso cui si rivendica il riconoscimento di un’immagine di sé più autentica. Troviamo qui un elemento decisivo circa la possi- bilità della vera educazione: il modo in cui la persona (normale) giunge a formulare un giudizio circa la correttezza di una certa impostazione di vita non avviene nell’a- stratto “pensiero” che pensa se stesso, ma entro un contesto reale, per cui il rischio di distacco dal mondo è più grave di una qualsiasi apparente implicazione perché que- st’ultima garantirebbe perlomeno un legame sociale che la prima invece nega.

stenziale perché la presa di distanza dal mondo, non mi consente di ritrarmi nello spazio intimo della liberta del “puro pensiero”, ma semplicemente smetto di vivere57.

La scuola non può proporre all’allievo un modo di pensare derivato dai filosofi e dal- l’inganno metafisico secondo cui il soggetto è più libero se sospende il legame con il mondo, perché così facendo darebbe origine al dubbio sulla realtà del mondo tra- scinando nel medesimo destino lo stesso soggetto che pensa. È l’errore intellettuali- stico, la fallacia metafisica di chi ritiene possibile che il soggetto pensi se stesso co- me puro pensiero senza corpo, senza ambiente, senza affezione. È il cuore filosofico della cultura inerte, che si immagina di accompagnare gli studenti nel deserto dell’“Idea di ragione”, come se questa abitasse fuori dal tempo e tuttavia in noi. Quel- la dimensione della coscienza degli insegnanti che partecipa al “mondo intellettuale” concepisce il carattere scettico della cultura come presa di distanza dal mondo; l’i- deale di cittadinanza che propone riecheggia molto da vicino la condizione di stra- niero del filosofo, il suo essere apolide, parte di una ristretta cerchia dei “pochissimi” (sophoi) dediti alla: «“Vita di pensiero” che non conosce gioia né dolore, la condi- zione più divina poiché il pensiero (nous) è il «“Re del cielo e della terra”» (Arendt p. 130). Non si può chiedere all’alunno di prendere le distanze dal mondo, di rinun- ciare alle gratificazioni di una vita vissuta perché significherebbe consegnarlo ad una condizione di solitudine inumana, ma sarebbe credibile solo se accompagnato da una forma di intersoggettività più espressiva, ad uno spazio pubblico più autentico e quin- di persuasivo circa la propria vera identità. Si trova qui, in questo dato di buon sen- so che non si può sospendere, il punto decisivo dell’autorinnovamento della scuola che esige di valicare il passo che conduce dall’inerzia alla cultura viva.

Il principio di esternalizzazione

Un passo decisivo di tale rinnovamento consiste nel mobilitare la capacità ope- rativa degli allievi, il “principio di esternalizzazione” proposto da Bruner il quale, ri- chiamandosi a Ignace Meyerson, sostiene che la funzione principale di ogni attività culturale consiste nel produrre opere, non solo quelle artistiche e scientifiche, ma an- che quelle minori perché in grado di sollecitare l’orgoglio, l’identità ed il senso di con- tinuità a coloro che vi partecipano (Bruner 2009, p. 36). Si tratta di una dimensione troppo a lungo sottovalutata nell’educazione, pur essendo dotata di un potere rile- vante in questo campo: fare opere crea modi di pensare comuni e negoziabili, vale a

57Come invece riteneva Cartesio con il suo paradossale “cogito ergo sum”: se la realtà è dedotta

dal mio stesso pensarla, neppure l’io avrebbe consistenza. Ma anche come in parte ripropone Kant secondo cui la “cosa in sé”, separata dalle mere apparenze, coincide con l’io che pensa. Arendt spiega che questo banale, ma persistente, errore logico ha nutrito la filosofia moderna, da Hegel in poi, della «strana illusione che l’uomo, a differenza degli altri esseri, ha creato se stesso» (ARENDT2009, p. 119).

dire una vera e propria mentalità, produce una testimonianza dei nostri sforzi menta- li posta al di fuori e non entro la nostra memoria, così da rendere i nostri pensieri più accessibili alla riflessione, consente di influire in modo più duraturo sugli altri, am- plia l’esperienza del reale. Il valore dell’imparare tramite opere si coglie in tre aspet- ti, molto significativi rispetto alle necessità dell’odierna gioventù: lavorare con e per gli altri, scoprire se stessi, migliorare il mondo.

La cooperazione è un antidoto potente all’isolamento scolastico accentuato da una sorta di individualismo metodologico imperante e che per molti ragazzi – spes- so figli unici – costituisce una delle più significative esperienze di comunità tra pari per fronteggiare problemi e portare a termine compiti non scontati. Ma la relazione di gran lunga più rilevante riguarda gli interlocutori: lavorare per gli altri comporta l’uscita dal solipsismo del proprio io per assumere come punto di riferimento l’altro con i suoi bisogni, le sue necessità e l’attesa di risposta che rivolge allo studente stes- so. Lavorare con gli altri significa quindi uscire dal confine della propria individua- lità isolata ed entrare in una relazione fondata sulla collaborazione, dove i fattori di fiducia e lavoro cooperativo costituiscono spesso il vero valore aggiunto dell’opera- re umano. In una relazione concreta di servizio rivolto ad un altro, il soggetto operante scopre se stesso proiettandosi verso uno scopo esterno da sé. Egli si rende consape- vole dei propri talenti non in astratto, o in un modo unicamente introspettivo, ma nella dinamica concreta dell’azione che comporta la mobilitazione delle proprie prerogative umane.

Agendo, i fattori umani – tratti, saperi, competenze – vengono sollecitati ed in- corporati nel prodotto/servizio, così che ciò che ne emerge non rappresenta soltanto qualcosa di funzionale ad uno scopo, ma riceve anche l’impronta del facitore: ope- rando, si immette qualcosa della propria anima – l’impronta originaria del nome per- sonale – nell’oggetto del proprio operare. Hannah Arendt spiega in modo molto effi- cace questo carattere personalizzante dell’azione, ed anche la sua natura politica, chiarendo nel contempo dove tragga origine l’innovazione: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» (Arendt 1999, p. 129).

Studiare facendo opere rivolte prioritariamente ad altri che ne possano usufrui- re – relazioni, manufatti, dossier, presentazioni, servizi di cura, progetti, eventi – e non finalizzate unicamente al voto, amplifica in modo straordinario il campo educativo e le energie poste in gioco e sollecita decisamente la motivazione dei ragazzi, general- mente molto ben disposti ad imparare facendo. È un’esperienza pubblica, perché con- sente di migliorare il mondo, impegnandosi in relazioni ricche di prossimità centra- te sulla concretezza, inoltre accrescendo le occasioni di accomunamento di un popo- lo che vive sullo stesso territorio e che mette a disposizione le proprie risorse per uno scopo educativo. Si tratta di una forma di educazione morale che rende la persona pro- tagonista di un’opera di umanizzazione: si pensi all’impegno, così rilevante nell’epoca

attuale, volto alla preservazione del creato sapendo armonizzare l’ambiente naturale e quello antropico.

Aristotele ha espresso bene il legame tra le mani e la mente: «Anassagora affer- ma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ra- gionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente... A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. ... La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tem- po stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti» (Aristotele 1990, p. 127). È decisivo, per l’autoriforma della scuola, superare l’astrattezza degli inse- gnamenti e la passività della didattica liberando le capacità degli allievi tramite il metterli all’opera – in modo ragionevole, mirato, essenziale – così che la loro presa sul mondo diventi più salda, significativa, utile oltre che personale, rivelativa della loro originalità.

Uno spazio di educazione alle virtù pubbliche

La scuola ed il CFP, se ritengono di poter fornire un messaggio dotato di valore, non possono che essere un’esperienza di vita in cui è possibile esperire sensibilmen- te ciò che intende sostenere. La sfida si trova essenzialmente nella plausibilità della loro proposta in riferimento all’intera personalità del discente: mente, anima, corpo, (sensi e intuito), volontà. La sfida consiste nell’essere uno spazio pubblico adeguato alla formazione di personalità equilibrate, consapevoli di esistere, capaci di indipen- denza e di segnare di sé, utilmente, il mondo, amanti della vita ed esse stesse appor- tatrici di vita. Questo spazio pubblico è ciò che racchiude le qualità generative secondarie (culturali) dell’uomo: l’educazione, lo studio, il lavoro, la politica, l’ozio formativo, la mimesi, la preghiera. La scuola viva può essere la levatrice del mondo pubblico post-consumistico perché può dare vita ad una comunicazione ragionevole e commovente tra adulti e giovani capace di eventi di novità. Chi sta con i giovani coglie la loro formidabile ed irriducibile ansia di distinzione, di un riconoscimento degli altri in quanto persone dotate di unicità, di un valore di cui il mondo ha bisogno per essere umano. La scuola è il luogo e la fase dell’esistenza che insegna a vivere la distinzione in uno spazio pubblico generativo.

Imparare dai giovani, nel dialogo attivo con loro, l’arte di vivere autenticamen- te a favore del bene comune di tutti, in una comunità in cui i singoli emergono con la loro indispensabile peculiarità. In questo sta il mistero della sfera umana dell’esi- stenza (la “mano invisibile” benintesa): la polifonia delle individualità che si armo- nizzano in un canto corale ineffabile, capace di dire l’amore per la vita e di elevarsi al cielo e ringraziare (il coro degli antichi filosofi, ricordato da Seneca: «Non vedi quante sono le voci che compongono un coro? Eppure da tutte queste risulta un suo- no unitario» – Lettere morali a Lucilio, 84, 8, p. 571. Il coro medioevale di Bene-

detto XVI nel suo magistrale discorso al Collège des Bernardins di Parigi, in cui parla del canto dei monaci come culto dell’essere, per: «Corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza» (Leuzzi 2011, p. 72).

Ciò avviene non in un’armonia appiccicosa dei “valori comuni” (neppure quel- li politicamente corretti delle organizzazioni internazionali e delle onlus caritatevo- li), ma nella varietà, o meglio nella tensione tra le varietà degli apporti individuali, con i suoi inevitabili conflitti. Basta con l’epica della società, con le sue forze anonime livellatrici, con la sua pretesa di uniformare il mondo sulla base della falsa credenza dell’interesse comune. Basta con la pretesa della scienza di ricreare l’umano con l’ar- tificio58. Questa è la vera iperrealtà, un umano “automatico” che abbia in sé la perfe-

zione del meccanismo senza l’oscena umanità. In altri termini: anche le moderne neuroscienze e l’ingegneria genetica stanno partecipando al gioco delle scienze del comportamento, vale a dire rendere l’apprendimento un fatto automatico. In questo modo, i giovani si perdono nel disapprendimento, nella dispersione perché partendo da un paradigma frutto della mera speculazione intellettuale, parziale e riduttivo, ba- sato sull’idea del comportamento umano come funzionamento e non della vita come tensione ed imprevisto, finiscono per scandalizzarsi dell’uomo concreto (vergognan- dosi dell’umanità tutta), e proporsi l’insano proposito (la traccia di fondo che ha ali- mentato le grandi carneficine del secolo scorso) di cambiare l’uomo, di forgiare l’uo- mo nuovo. Non capendo l’umano, vedono solo il negativo e si impegnano ad intri- stire il mondo con il loro sguardo patologico. Meno male che esistono le persone con i loro problemi e la loro vitale inquietudine, così possono emergere le forze vive!

È il concorso – concorrenza, tensione – delle unicità individuali che rende viva l’umanità, e questo richiede un ethos vale a dire un posto da vivere in comune, viva- ce e disciplinato (un’altra coppia tensionale, ovvero vitale), in cui le persone ed i gruppi possano prendere la parola offrendo la propria particolarità, cooperare realiz- zando opere di valore per tutti, ove si possa apprendere come contrastare il confor- mismo sociale (anche quello mediatico) per affermare l’individuo e la comunità. Il compito storico della scuola consiste nel dare inizio – riprendendolo dalla storia, rin- novato per il tempo d’oggi – ad uno spazio comune, pubblico, libero e interessante, dedicato a far emergere il valore peculiare delle persone nel confronto con i grandi della civiltà e le loro opere, e nella cooperazione – attraverso l’incontro con la storia culturale, vale a dire quella dei grandi, dei maestri, che hanno aggiunto all’amore per la vita qualcosa di particolare, il dialogo che richiede la presa di parola esigente ed

58All’idea di rifondazione della natura umana, di derivazione illuministica, Albert Camus nel

discorso per il conferimento del premio Nobel per la Letteratura nel 1957 ha contrapposto un progetto radicalmente diverso: «Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga» (CAMUS1988, p. 124).

espressiva dell’originalità di ciascuno, l’azione tesa ad assumere compiti e sfide do- tate di valore, quindi la relazione con il mondo per rigenerarlo nell’incontro con la fre- schezza giovanile – ad un modo di vita, di essere vivi, un areté pubblico, un modo di intendere la vita come concorso impegnativo e commovente verso l’eccellenza di tutti, fatto di pensiero, opere, conversazione, arte, natura.

È l’ideale della vita virtuosa, ciò in cui consiste il valore dell’uomo, di tutti gli uomini. Tale ideale prende l’avvio non da un paradigma teorico frutto della specula- zione intellettuale, ma da un assunto assiomatico, a tutti evidente, rappresentato dal- l’amore per la vita, ed in special modo la vita attiva, che spinge gli uomini all’azio- ne non solo l’interazione con gli altri, l’uscire fuori di sé, (gli altri contemporanei, gli altri delle epoche precedenti). La scuola è luogo educativo in quanto rende possibile