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I fondamenti del metodo della Formazione Professionale

Le riflessioni proposte da Vygotskij e Bruner, arricchite dall’approfondimento circa la triplice valenza del sapere (logico-cognitiva, affettiva e relazionale, concre- ta), costituiscono le premesse ed il materiale per delineare il modo di accesso al sapere culturale in riferimento all’utenza della Formazione Professionale, special- mente gli adolescenti ed i giovani che frequentano i corsi di Istruzione e Formazio- ne Professionale e gli apprendisti coinvolti nel contratto per la qualifica ed i diplomi.

Le teorie dei due autori si riferiscono, ovviamente, ad alunni del primo ciclo de- gli studi. Ciò impone, innanzitutto, un adattamento delle teorie e delle conseguenti so- luzioni metodologiche emergenti all’utenza tipica di questi corsi. Essa, come abbia- mo già rilevato, presenta una caratteristica di fondo: si trova in una duplice impasse culturale, ma accanto a questa segnala anche, con la partecipazione ad azioni forma- tive connesse al lavoro, una propensione se non proprio una decisione orientata ad una formazione che le consenta l’inserimento in tempi contenuti nel mondo del lavoro im- parando ad assumere un ruolo riconosciuto. Chiamiamo questo fattore il possibile attivatore esplicito di un accesso alla cultura che la vede nella funzione servente il pro- getto di professionalizzazione degli allievi; ma sullo sfondo, entro un altro ambito del vissuto esistenziale dell’allievo, possiamo individuare un ulteriore attivatore, questa volta implicito nel senso di non pienamente consapevole nella sua coscienza, con- nesso alla potenzialità motivante che la cultura ha in sé in quanto capace di suscita- re curiosità, interesse, gusto ed arricchimento per la persona dell’allievo e per il grup- po in formazione, nella triplice relazione con i formatori, i protagonisti della tradi- zione culturale e gli attori dell’alleanza educativa allargata. Ciò corrisponde alla di- mensione affettiva e relazionale della cultura, presentata in precedenza. Naturalmen- te, la possibilità di suscitare questo attivatore implicito è legata alla capacità di aggi- ramento dell’ostacolo fondamentale costituito dalla mancanza di motivazione che giunge anche fino alla chiusura verso ogni esperienza di didattica “teorica”, che si ma- nifesta tramite un mix di critica esplicita (“a cosa serve?”, una domanda che, quan- do viene posta, non si attende una risposta, ma si propone già come una sentenza de- finitiva) e di senso di inefficacia personale (“sono io che non ci arrivo, me l’hanno già detto in tanti”).

È entro questo quadro, certamente problematico ma non privo di occasioni e di leve d’azione promettenti, che dobbiamo individuare gli elementi della proposta: i fondamenti del metodo che consente di definire dei sentieri di accesso di questi gio- vani alla cultura, ma nel contempo, per non limitarci alle soluzioni procedurali di na-

tura didattica, la focalizzazione del quadro dei valori, degli atteggiamenti e delle al- leanze educative che caratterizzano una comunità di formatori che intenda persegui- re con successo il proprio compito.

La duplice impasse culturale

La Formazione Professionale svolge il suo compito entro una variante più com- plessa della “zona di sviluppo prossimale”, poiché la categoria di giovani cui si rivolge presenta, come abbiamo visto, una condizione caratterizzata da una duplice impasse: – la prima coincide con quella proposta da Vygotskij riguardante lo spazio posto tra

il livello della soluzione dei compiti svolti sotto la guida o con l’aiuto dei formato- ri e quelli che possono essere svolti da soli da parte degli allievi, nel quadro del lo- ro ambito di riferimento. La particolarità della condizione degli allievi dei corsi pro- fessionali risiede nell’ampiezza di questo spazio, a causa del fatto che la formativi- tà della loro esperienza di vita autonoma risulta impoverita dalla limitata padro- nanza culturale e dall’appartenenza ad un mondo che propone scarsi stimoli orien- tati alla loro crescita umana. Di contro, è notevole la potenzialità dell’intervento dei loro formatori che di conseguenza rappresentano per i loro allievi la chiave per una svolta significativa della loro vita. Per questi allievi, la possibilità di frequentare “con profitto” i corsi di Formazione Professionale rappresenta un’occasione deci- samente preziosa di crescita personale e di inserimento sociale, ciò che viene co- munemente espresso con il termine “fortuna”; il capitale formativo acquisibile per questa via è pertanto molto elevato rispetto sia a quello di partenza sia al valore del- le esperienze tipiche delle cerchie entro cui si svolge perlopiù la loro esistenza. Ciò accresce la responsabilità dei formatori ed il valore sociale del loro lavoro. – La seconda riguarda lo iato esistente tra le potenzialità cognitive degli allievi della

FP e la loro percezione circa la possibilità di raggiungere davvero i traguardi che vengono loro proposti. Considerato che, così come per le scuole, il sapere proposto dai corsi di Formazione Professionale risulta accessibile alla quasi totalità degli al- lievi, che cioè non esistono nella grande maggioranza dei casi patologie della men- te che inficino la loro capacità di apprendere, occorre però considerare il peso co- stituito dall’accumulo di esperienze scolastiche di insuccesso e dalla cristallizza- zione nel tempo di un sentimento di inefficacia personale difronte alla cultura. L’ap- prendimento formale procede come per l’ostacolista che, arrivando corto sul primo elemento vede aumentare esponenzialmente il rischio di non riuscire ad affrontare quello successivo e quindi di cadere; se ciò si ripete più volte, ne deriva l’elabora- zione di una identità negativa rispetto alla capacità di approccio al sapere generan- do un effetto di stigmatizzazione e di auto inefficacia che non raramente confina con subculture devianti. Lo studente che accumula insuccessi vive un conflitto tra for- me di processi mentali antagonisti, quelli “reali” acquisibili nella cerchia sociale di appartenenza e quelli “non spontanei” che si apprendono in gran parte a scuola.

Mentre per il bambino si tratta di avvicinare il mondo entro una prospettiva cultu- rale, vale a dire trovando i significati delle cose, delle esperienze e delle categorie della mente, e ciò avviene per la prima volta, tracciando un percorso inedito nella sua mente, l’allievo della Formazione Professionale si trova in un territorio intermedio in cui le due modalità di conoscenza sono poste in forte contrasto, poiché l’esperienza scolastica pre- cedente, generalmente fallimentare, lo ha convinto di non essere in grado di procedere nel campo dei concetti artificiali, ragione per cui presenta una decisa avversione verso il sa- pere formale ed un più deciso attaccamento al modo spontaneo di conoscere il mondo.

È certo che, di fronte ad una gioventù deprivata culturalmente, la posizione stig- matizzante delle neuroscienze, evidenziata dalla crescita esponenziale delle certifica- zioni relative ai disturbi specifici di apprendimento risulta essere una soluzione non so- lo inefficace, ma anche erronea perché riduce gli stimoli educativi e cultuali invece che sollecitarli e renderli personali. L’idea diffusa nell’ambito educativo da esperti specia- lizzati nel campo neuroscientifico, fondata sull’assunzione – in definitiva non dimostra- ta – che i disturbi mentali trovino origine primariamente nell’ambito biologico del sin- golo individuo, rischia di essere decisamente sovrastimata, a spese di altri importanti fattori di mutamento sociale e culturale come l’offerta di occasioni formative veramen- te qualificanti. Il disapprendimento, invece che stimolare le capacità degli insegnanti, vie- ne medicalizzato e delegato agli esperti. I quali, peraltro, emergono per capacità di dia- gnosi e per un profluvio di “principi di precauzione”, risultando decisamente poveri di indicazioni formative positive, mentre lo stato di disagio della gioventù di fronte alla cul- tura non arretra significativamente a seguito della sorprendente campagna di certifica- zione manifestatasi negli ultimi anni. in tal modo questi, sulla base di una certificazione come esito della immancabile diagnosi, sottraggono l’allievo alla responsabilità dei suoi insegnanti.

È sospetto il fatto che ciò accada soprattutto nelle zone popolari ed in classi etnica- mente “variegate”: forse la diagnosi di ADHD (sindrome di iperattività e deficit dell’at- tenzione) è il nuovo sostituto, più dolce, delle classi differenziali del passato?

Naturalmente, non si intende discutere di pratiche mediche fondate, quelle ri- guardanti patologie effettivamente riscontrate con diagnosi conformi a protocolli scientifici rigorosi, ma indicare la pericolosità di una tendenza che concorre alla con- fusione dei linguaggi e ad indebolire la figura dell’insegnante oltre che il valore dell’educazione.

Il punto di crisi che indica il pericolo di scollinamento dal versante scientifico a quello dell’arbitrarietà ci viene dagli Stati Uniti, dove l’Associazione Psichiatrica Americana (APA) spinge per una modifica della linea guida del settore per le malat- tie mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Decisamente, ta- le ampliamento, se accettato nella versione ufficiale, provocherà un aumento del nu- mero di casi di pazienti trattati con farmaci. Allen Frances, uno psichiatra che ha con- tribuito a scrivere le linee guida in uso, professore emerito presso la Duke University, afferma a questo proposito che: «Eccentricità, sofferenze e delusioni di tutti i giorni sono ridefinite come disturbi psichiatrici che potrebbero portare a un trattamento

farmacologico... Questo sta allargando i confini della psichiatria: in molti casi, infatti, i me- dici di famiglia utilizzano le nuove definizioni per curare i pazienti»33.

Questa tendenza, definita “medicalizzazione della normalità”, riguarda poi diretta- mente la sindrome ADHD: se nel manuale oggi in vigore una diagnosi di tal genere richiede sei sintomi per essere identificata negli adulti, includendone alcuni presenti prima dell’e- tà di 7 anni, il nuovo manuale ne richiede solo quattro per essere identificato e non è più necessario che il disturbo si presenti durante l’infanzia. Questo spostamento verso il bas- so dell’asticella provoca evidentemente un’invasione dell’ambito della normalità che, lo vogliamo ricordare, non è caratterizzata da soggetti perfetti, esenti da qualsivoglia segna- le di tipo problematico. Una popolazione che non ha potuto usufruire positivamente del- le occasioni rappresentate dall’istruzione formale, se stigmatizzata mediante questa ten- denza alla medicalizzazione del disapprendimento subisce un’ulteriore ingiustizia di esclu- sione dalle opportunità formative che si somma all’inefficacia dei programmi precedenti.

Di fronte a questa consistente impasse culturale, occorre inoltre evitare di intraprendere la strada di interventi che perseguono la strategia del “recupero” culturale e sociale, come se si dovesse ritornare indietro al punto in cui la catena delle acquisizioni concettuali della mente si è interrotta. Se l’insegnamento diretto dei concetti proposti nell’età canonica non ha portato a risultati positivi, e se l’alunno non ha potuto neppure beneficiare della capaci- tà di ripetizione meccanica delle parole simulando la conoscenza dei concetti corrispon- denti, un didattica “recuperante” che si proponesse banalmente il ritorno nel punto della crisi per riproporre esattamente la stessa sequenza di stimoli per un allievo di qualche anno più grande verrebbe vista da quest’ultimo come una richiesta di infantilizzazione inaccet- tabile (“sono uscito dalla scuola media, sia pure con una promozione forzata, ed ora mi vo- gliono riportare nella stessa situazione!”), a cui reagire con il rifiuto del sapere proposto.

Il programma “recuperante” discende direttamente dalla teoria dell’istruzione, sia quella più “volgare” che concepisce l’apprendimento come un riempimento progressivo del- la testa dello studente con il materiale culturale introdotto a mo’ di imbuto dall’insegnan- te34, sia quella più elaborata proposta dalla psicologia cognitiva che considera la socializ-

33E. L

OPATTO, Bloomberg News, 27 Gennaio 2012. http://www.informazione.it/c/9AF236BC-9B9F-

4775-9A17-88F2752E05F8/Malattie-mentali-proteste-per-le-definizioni-Rischio-di-medicalizzare-la-norma- lita. Ultimo accesso: 14 marzo 2015.

34Questa espressione è utilizzata da Michel de Montaigne nel famoso brano del 1588 in cui parla della

“testa bene fatta” del precettore. Egli scriveva che: «Per un figlio di buona famiglia... se si desidera farne un uomo avveduto piuttosto che un dotto, vorrei anche che si avesse cura di scegliergli un precettore che avesse piuttosto la testa ben fatta che ben piena... Non si smette mai di blaterare nei nostri orecchi come si versa in un imbuto, e il nostro compito è soltanto ridire quello che ci è stato detto. Vorrei che egli correggesse questo pun- to e che fin dal principio, secondo le possibilità dell’animo che gli è affidato, cominciasse a metterlo alla pro- va, facendogli gustare le cose, sceglierle e discernerle da solo; a volte aprendogli la strada, a volte lasciando a lui di aprirla. Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta ... È bene che egli se lo faccia trottar davanti per giudicar la sua andatura, e giudicare fino a che punto debba abbassarsi per adattarsi alle sue possibilità. Se manca questa proporzione, guastiamo tutto, e saperla trovare, e regolarsi di conseguenza con giusta misura, è uno dei più ardui compiti che io conosca... Non gli chieda conto soltanto delle parole della sua lezione, ma del senso e della sostanza, e giudichi del profitto che ne avrà tratto non dalle prove della sua memoria, ma da quelle della sua vita» (MONTAIGNE2005, II, XXVI, 196-8).

zazione culturale del giovane alla stregua di una progressiva cancellazione della “men- te naif” del bambino e di una assimilazione della stessa al mondo del pensiero astratto.

La prima metafora considera il recupero come il ritorno su un’operazione che in un primo tempo è malriuscita: “chissà che la seconda volta non venga bene!” è la fra- se scritta all’ingresso delle aule pomeridiane di recupero, un’espressione che mette bene in luce l’atteggiamento magico-fatalistico che sottostà a molti programmi di- dattici. Ma il giovane legge un’altra scritta sulla porta dei corsi di recupero: “se en- tri qui, vuol dire che non hai le capacità per capire”, è un rito di stigmatizzazione che conferma le difficoltà di apprendimento piuttosto che superarle.

La seconda metafora prende atto di un primo tentativo fallito, ma si propone di modificare solo alcune condizioni per così dire “interne” al setting della classe che hanno portato all’inefficacia della prima versione dell’azione didattica, da applicare agli interventi per gli studenti in recupero. Si propone infatti di operare su un gruppo più piccolo, senza un’eccessiva enfasi posta sulla valutazione, con un rapporto più confidenziale con l’insegnante e preferibilmente lavorando con il metodo dei pari.

Si consolida in tal modo un atteggiamento avverso all’esito positivo del recupe- ro, vera e propria “classe degli asini” che asini rimarranno, perché la loro stessa esi- stenza non smentisce, bensì conferma la bontà del modello dell’istruzione per riem- pimento, impersonale e inerte, di contenuti isolati che richiedono di essere assimila- ti come se non si vivesse una vita reale.

Per comprendere la grave inefficacia di un programma “recuperante” facciamo rife- rimento ancora al pensiero di Bruner, quando afferma che: «L’apprendimento non è mo- dellato su una centralina di comando in cui gli stimoli in entrata sono collegati con le ri- sposte in uscita. Somiglia invece assai di più ad una stanza dove si elaborano delle mappe: è qui che la conoscenza viene elaborata e delineata perché la si possa utilizzare in vista del raggiungimento di determinati scopi. La conoscenza è basata sull’esperienza accumulata, il comportamento è basato sulla conoscenza. L’esperienza accumulata non ha un effetto di- retto sull’azione, ma viene rielaborata... A me interessava capire cosa c’era ‘al di là del- l’informazione data’ come attività funzionalmente motivata» (Bruner 1983, p. 121).

La risposta corretta alle esigenze di questi ragazzi non consiste in un meno, ma in un più di formazione che non abbia un carattere regressivo di tipo recuperante, ma progressivo di tipo valorizzante. Si tratta di una linea di intervento dalle chiare ca- ratteristiche educative e sociali che punta a colmare la zona prossimale dei giovani al- lievi della FP mediante un assetto in grado di sollecitare sia l’attivatore esplicito sia quello implicito, capaci di mobilitare le risorse proprie di questi giovani.

L’attivatore esplicito ed il “format lavoro”

Il centro del metodo della Formazione Professionale è costituito dalla motiva- zione degli allievi ad apprendere l’esercizio di uno specifico lavoro, in modo da po- tersi inserire nella realtà sapendo svolgere un ruolo sociale riconosciuto ed apprezzato.

La propensione dei giovani allievi verso l’acquisizione di una formazione lavo- rativa indica un “attivatore” in grado di agire positivamente nell’ambito dei saperi e delle competenze degli assi culturali, visti in questa prospettiva come ingredienti po- sti al servizio del progetto di professionalizzazione degli allievi.

Per comprendere la densità del legame che intercorre tra apprendimento di un la- voro e cultura formale, occorre fare riferimento alla “teoria dell’attività” che, specie nell’elaborazione di Vasilij Vasil’evič Davydov risulta decisamente interessante e pertinente rispetto al nostro fine visto che non indica solo uno scopo (l’attrattore) ma anche un metodo (l’attivatore) proprio dell’approccio centrato sul principio della “in- telligenza nelle mani” (Nicoli 2014).

Questo autore afferma che: «‘Attività’ è la forma storico sociale specifica del- l’essere delle persone, consistente nella trasformazione finalizzata, da parte loro, del- la natura e dell’attività sociale. Diversamente da quanto accade per le leggi della na- tura, le leggi della società si riscontrano soltanto nell’ambito dell’attività umana, che genera nuove forme e proprietà della realtà, trasforma un qualche materiale di par- tenza in prodotto. Qualsivoglia attività effettuata da un corrispettivo soggetto com- prende uno scopo, uno strumento, il processo appropriato alla sua trasformazione e il suo risultato.

Lo scopo dell’attività si presenta (voznikaet) nell’uomo come l’immagine del prevedibile risultato della sua effettuazione.

Il carattere trasformativo e finalizzato dell’attività rende possibile al suo sog- getto di evadere dalla cornice di qualsiasi situazione e di superare la determinazione che le è posta, iscrivendola nel contesto più ampio dell’essere storico-sociale e di ri- trovare, proprio in questo modo, lo strumento che supera i limiti delle possibilità di una determinazione data. L’attività supera costantemente e illimitatamente i ‘pro- grammi’ che la fondano, per cui non è possibile delimitarla alla trasformazione del- la realtà esistente in quanto definita dalle norme culturali già accettate. In questo si rivela l’apertura e l’universalità dell’attività, che è necessario intendere come la for- ma della creatività storico-culturale» (Davydov 1998, p. 104).

In primo luogo, l’attività indica il modo in cui l’essere umano si dispone nei con- fronti del reale, in quanto soggetto che procede da un’intenzione trasformatrice orien- tata ad uno specifico scopo, rivolta sia alla natura sia alla stessa vita sociale. Tale scopo consiste in una trasformazione – ma anche in una preservazione – dello stato delle cose, mediante un’opera di rinnovamento secondo un ordine pensato in prece- denza (progetto) e perseguito razionalmente.

L’essere umano è attratto verso l’azione ed in questo movimento esprime non so- lo la sua tensione verso uno scopo cui è attribuito un valore, ma anche la cura volta all’utilizzo ed al perfezionamento degli strumenti e dei metodi ritenuti più confacen- ti al risultato atteso. Egli, operando, impara ad operare sempre meglio, traendo dal- l’esperienza non solo il frutto rappresentato del risultato, ma anche quello della conoscenza e del perfezionamento della visione delle cose. Come pure di se stesso, come vedremo.

L’uomo possiede la straordinaria facoltà di immaginare dentro di sé quell’esito verso cui orienta la propria opera, prima ancora di definirne precisamente i contorni e le condizioni reali che assumerà; egli si pone all’opera nel perseguimento di una me- ta la cui configurazione reale si svelerà soltanto al termine dell’intrapresa sotto for- ma di risultato concreto. In ciò consiste precisamente il concetto di “attività” che non va confuso con le operazioni poste in atto, ma deve essere compreso nel legame che