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CAPITOLO 2: INARI ŌKAM

5. Conseguenze della femminilità: sessualità e fertilità

Ciò che è femminile è inevitabilmente associato alla sessualità, e non vale solo per la società giapponese shintoista. Per quanto riguarda il contesto giapponese, tuttavia, con “sessualità” non si intende il rapporto sessuale finalizzato alla riproduzione, che sarebbe un valore positivo. Come dimostrano Izanami e Izanagi, è l’uomo che crea, mentre la donna distrugge. L’erotismo legato alla donna è dunque condannabile perché sterile. Quello a cui mira una donna particolarmente sensuale, quando fa delle avances ad un uomo, è l’inganno. Dakini, sebbene di origini che nulla hanno a che vedere con la tradizione giapponese autoctona, non esula da questa considerazione. Ciò non deriva da una particolare associazione della donna con il desiderio sessuale. Secondo il buddhismo, l’impulso sessuale è un desiderio umano di completezza: il maschile tende a volersi completare unendosi con il femminile, e viceversa. Tuttavia, gran parte dei praticanti era di sesso maschile, così come la maggioranza degli autori delle testimonianze a cui facciamo riferimento. Quando si parla di donne e del loro ruolo nella società, dunque, non bisogna incorrere nell’errore di pensare che si possa dedurre una loro storia oggettiva. Ciò vale anche per la letteratura giapponese: nel momento in cui sono stati gli uomini i principali fornitori di informazioni sul passato, oggi vediamo quel passato dal loro punto di vista. Poiché ogni uomo ha scritto secondo la propria percezione delle donne, non è saggio pensare che la loro posizione fosse imparziale. Poiché trattavano di come si rapportavano al sesso femminile, è lecito pensare che la sensualità e l’erotismo attribuiti in particolar modo alle donne fosse una loro impressione più che un atteggiamento apertamente dimostrato137.

La negatività nell’erotismo non sta, per il buddhismo, nella semplice sterilità del rapporto. Ogni desiderio – quindi anche la passione –, di qualunque essere vivente, non fa che

137 Per ulteriori approfondimenti sulla percezione del genere femminile, si consiglia di fare riferimento al capitolo

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produrre sofferenza. Tuttavia, secondo il buddhismo tibetano, non è giusto pensare che tutti gli essere viventi provino il desiderio nella stessa forma: «gli umani hanno una propensione unica per il desiderio: sogniamo, fantastichiamo, desideriamo, e bramiamo per tutta la vita»138. Questo desiderio è inesauribile, poiché non cessa neanche quando soddisfatto. È per questo che l’unione sessuale non potrà mai essere appagante, ed è per questo che il praticante dovrà imparare a gestirla. Dakini ha proprio il ruolo di fungere da consorte per il praticante che intraprende la via della liberazione dalle passioni.

Ancora una volta, Inari eredita da Dakini questa propensione alla sessualità, non tanto nella sua figura quanto in quella del suo messaggero, la volpe, e degli altri elementi che lo circondano e rappresentano, come il gioiello che esaudisce i desideri. In particolar modo, il gioiello richiama i testicoli o i genitali femminili. La volpe, invece, in Cina assume le sembianze di una donna e induce un uomo a consumare un rapporto con lei. Attraverso questo rapporto, la volpe diventa immortale, perché assorbe l’essenza vitale dell’uomo139. Come è stato detto,

anche Dakini, per sopravvivere, deve consumare le vite degli uomini, strappando loro i cuori e cibandosene. Il motivo per cui la volpe ha necessità di fare ciò sta nello stesso concetto espresso nel paragrafo precedente: per completare la sua essenza, per raggiungere l’equilibrio, ha bisogno di un’energia opposta alla propria. Se la donna è lo yin, ha bisogno dello yang del seme maschile140. Tendenzialmente neanche in Giappone l’unione sessuale con la volpe ha esiti felici, perché l’idea della volpe come tentatrice deriva dalla tradizione cinese.

Non bisogna tuttavia dimenticare che Inari non è un’entità unilateralmente femminile, ma androgina. Questo significa che in sé contiene anche l’energia maschile, colei che, secondo il popolo giapponese, garantisce la fertilità. L’associazione con la fertilità non può mancare in una divinità legata alle risaie, e questa si manifesta, ancora una volta, attraverso l’immagine

138 SIMMER-BROWN, Dakini’s Warm Breath…, cit., p. 211. Mia la traduzione. 139 SMYERS, The Fox and the Jewel…, cit., p. 128.

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della volpe. Se molte delle statue delle volpi presenti ai santuari di Inari presentano un gioiello sotto la zampa, altre invece si presentano con un cucciolo di volpe. Per questo motivo, si crede che Inari sia capace di aiutare le donne che hanno difficoltà nel rimanere incinte o nel partorire. Ancora una volta, la fertilità non è una caratteristica che manca nemmeno a Dakini. In particolare, spesso nella letteratura ci si riferisce ad essa come alla “Grande Madre”, o come a «colei che dà vita per il mondo»141. Il ruolo di madre non è l’unico attribuito a Dakini, che può essere chiamata anche “sorella” o “servitrice”, ma è particolarmente centrale poiché nella pratica buddhista un ruolo centrale lo aveva anche la madre dei praticanti. Difatti, come spiega Simmer-Brown, le madri dei più grandiosi tra i praticanti «erano considerate dakini umane particolarmente importanti, perché come avrebbe potuto un essere straordinario come un lama incarnato o un praticante realizzato nascere da un essere inferiore? »142.

6. Il colore rosso

Un altro elemento che sembra legare Inari e Dakini (ma vedremo se è questo il caso) è il colore rosso, sebbene non sempre si espliciti nei testi che trattano di Dakini, che quest’ultima indossi qualche indumento o accessorio di colore rosso, o addirittura che sia essa stessa di colore rosso o lo rappresenti. Questo avviene forse perché è una Dakini in particolare ad essere legata a questo colore, colei che nel buddhismo tantrico tibetano è la regina di tutte le Dakini, ovvero Vajrayogini [fig. 8]. Essa è considerata a volte la regina del buddhismo Vajrayana, una sorta di

141 SIMMER-BROWN, Dakini’s Warm Breath…, cit., p. 199. Mia la traduzione. 142 Ibid.

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buddha al femminile143. Può essere rappresentata iconograficamente in tre modi diversi, di cui una risulta particolarmente interessante:

Nella seconda [posa] sta con le gambe divaricate, le ginocchia piegate, in una sorta di “posa da guerriera”

dello yoga, con un teschio usato come coppa alzato verso il cielo nella sua mano sinistra e un coltello

crescente di Dakini nella destra. Il teschio è pieno di strabordante sangue mestruale, che lei beve. Indossa

accessori d’ossa, incluse collane, ornamenti per il seno, e un grembiule, e una collana di teschi o teste umane.144

Il rosso qui emerge nel colore del sangue mestruale, uno degli elementi più spesso e più ovviamente associati a questo colore. In questo caso il sangue non è associato alla sterilità del rapporto sessuale ma al mezzo tramite cui le donne si trasmettono a vicenda la saggezza di Dakini. La cofondatrice del buddhismo tibetano Yeshe Tsogyal ha infatti affermato, nella sua autobiografia, di aver avuto una visione, durante la meditazione, di Vajrayogini, la Dakini rossa, che le ha fatto bere il proprio sangue mestruale, alimento per eccellenza, che l’ha resa una Dakini in forma umana145. Se in Giappone il significato del

143 Patricia MONAGHAN, Goddesses in World Culture. Volume 1: Asia and Africa, ABC-CLIO, Santa Barbara,

2011, p. 107. Mia la traduzione.

144 Ibid., pp. 107-108. 145 Ibid., p. 108.

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sangue è negativo perché impuro, mentre il seme maschile è puro e fertile, in Tibet entrambi questi fluidi corporei sono considerati positivamente, addirittura estetizzati. Forse per questo motivo il corpo stesso di Vajrayogini, nudo, è rosso: non c’è nessun collegamento tra il rosso e l’impurità. D’altronde, non viene condannato neanche l’orgasmo, che è anzi centrale nel tantrismo: non è necessario ai fini della procreazione, ma lo è nell’idea di liberare la mente del praticante, un fine verso cui le Dakini devono tendere, dato che il loro ruolo, siano esse divinità o esseri umani, è quello di accompagnare il praticante nel suo percorso verso l’illuminazione.

Questa concezione del sangue e del colore rosso ad esso associati non sono arrivati in Giappone, al culto di Inari, senza filtri. Lo shintoismo non può liberarsi dall’idea che il sangue è positivo finché scorre nelle vene e non fuoriesce, caso in cui, invece, diventa impuro come tutto ciò che lascia il corpo umano. L’approccio al colore rosso, quindi, sembra essere del tutto diverso: se in Giappone indica coloro che sono fuori dalla comunità, in Tibet non genera discriminazioni. Il rosso d’altronde è molto utilizzato in diverse tradizioni, con significati anche uguali ma interpretazioni diverse, forse perché è uno dei colori primari, uno dei primi che l’essere umano identifica e con cui, probabilmente, sente un legame.