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5. Considerazioni conclusive

Dalla letteratura sulla crescita regionale in Italia emerge che non vi è stata convergenza e non si è interrotto il profilo dualistico del processo di sviluppo regionale. Il fatto principale collegato al dualismo tra le regioni del Centro-Nord e le regioni del Sud è stato l’aumento nel tempo della dispersione dei tassi di disoccupazione regionali e la persistenza dei divari formatisi. L’evoluzione dei mercati del lavoro regionali è stato il filo conduttore di queste pagine.

Secondo un’opinione largamente diffusa, il mercato del lavoro in Italia non ha raggiunto ancora un grado sufficiente di flessibilità, nonostante le importanti riforme nell’ultimo decennio, volte a liberalizzare i rapporti di lavoro. Siamo ancora “in mezzo al guado”, anche se abbiamo definitivamente abbandonato la sponda della “rigidità” e ci siamo avvicinati all’altra riva, quella della “flessibilità”149.

La situazione complessiva del mercato del lavoro italiano appare, almeno dal punto di vista statistico, decisamente migliorata negli ultimi anni.150 Rimangono elementi critici

(elevata incidenza della disoccupazione di lunga durata, basso tasso di partecipazione e occupazione, soprattutto femminile, disoccupazione giovanile, lavoro sommerso)151, ma

esiste, per così dire, un ‹‹super-problema››: il divario Nord-Sud, il dualismo tra le due macroaree del paese, con il Mezzogiorno che registra un tasso di disoccupazione medio tre volte superiore al tasso del Centro-Nord, tant’è che si dovrebbe parlare dell’Italia come dell’unione di due aree, una delle quali vive costantemente una situazione di piena occupazione ed è anzi carente di manodopera, e l’altra area che non riesce ad uscire da una

149 Sono termini mutuati dal contributo di Bertola e Ichino (1995), nel quale si commentava la situazione alla

metà degli anni ’90, alla luce delle prime misure di liberalizzazione dei rapporti di lavoro varati nel decennio precedente. A distanza di dieci anni la situazione è radicalmente cambiata.

150 L’evoluzione del mercato del lavoro italiano non si discosta molto dalla media europea, tranne che per la

quota di disoccupati di lungo termine, la quota di disoccupati in cerca di prima occupazione e le disparità territoriali (tutti e tre gli aspetti elevano l’Italia sopra la media europea), cfr. Salituro e Scorcu (2001). Negli ultimi anni si sono avuti miglioramenti: la disoccupazione italiana è scesa per la prima volta sotto la media dell’UE-15 (8% contro l’8,1% (nel 2002 se si considera l’UE-25); dopo il picco massimo del ’97-’98 (11,3%), il tasso di disoccupazione diminuisce anno dopo anno, mentre la disoccupazione sale in Germania (9,5% nel 2004) e in Francia (9,6% nel 2004). Fonte: EUROSTAT, Regional Statistics (REGIO).

151 Per fare un esempio, la disoccupazione femminile registra un tasso del 10,1% nel 2005, appena sopra la

media UE-25 (9,8%) e nettamente sopra la media UE-15 (8,9%). È comunque inferiore ai tassi di disoccupazione femminile in Germania e in Francia. Il tasso di disoccupazione resta sensibilmente inferiore alla media europea (57,6% nel 2005 contro il 65,2% della media UE-15). Il divario si allarga rispetto al tasso di occupazione femminile (45,3% contro il 57,4%). Fonte: EUROSTAT, Regional Statistics (REGIO).

situazione di emergenza occupazionale. Parimenti gli altri problemi sopra citati appartengono ad entrambe le aree, ma in misura sensibilmente diversa. Così, è nel Mezzogiorno che la disoccupazione e la scarsa partecipazione femminile, la disoccupazione di lungo termine, quella giovanile e il lavoro sommerso assumono caratteri di patologica intensità. Probabilmente è dovuto proprio ai dati del Mezzogiorno se questi aspetti deteriori del mercato del lavoro spiccano come specificità italiane nel contesto europeo.

I risultati teorici ed empirici dei precedenti capitoli presentano ambiguità e lacune, ma si può dire che l'ipotesi liberista, largamente vincente nel dibattito, legata principalmente alle rigidità salariali, al meccanismo asimmetrico di determinazione dei salari e in generale ai vincoli e alle imperfezioni di natura esogena e istituzionale che hanno impedito il corretto funzionamento dei mercati del lavoro regionali, non riesce a spiegare completamente la mancata convergenza regionale in Italia, nei tassi di disoccupazione e nel prodotto pro capite.

Abbiamo visto (nel Capitolo 1) che i mercati regionali del lavoro, in Italia, hanno vissuto esperienze divergenti nei passati decenni, in termini di tassi di disoccupazione, a partire dalla metà degli anni sessanta. Il trend divergente accelera dalla metà degli anni ottanta e prosegue per tutti gli anni novanta, con un'ulteriore spinta nel 1993. Ciò è quanto suggeriscono i grafici sull'evoluzione dei divari Nord-Sud nel tasso di disoccupazione, le analisi empiriche in letteratura e lo studio nel discreto della dinamica della distribuzione condotto in questa tesi (Capitolo 2). È stata presentata in seguito una rassegna dei contributi sul tema dei differenziali regionali di disoccupazione, evidenziando i fatti e le interpretazioni sull'andamento dei differenziali. Si è cercato di sintetizzare le spiegazioni proposte in due scenari ipotetici differenti. Si è visto che i due scenari sono legati da un filo conduttore: in entrambi ciò che rileva principalmente ai fini della spiegazione del divario crescente Nord-Sud è la dinamica dell'occupazione e in generale della capacità di creare posti di lavoro nel Mezzogiorno, gravemente insoddisfacente. La dinamica insufficiente della domanda di lavoro deriva dal volume inadeguato di investimenti attivati nell'area, a causa della ridotta competitività dell'economia meridionale, descritta da un alto costo del lavoro per unità di prodotto. A questo punto le ipotesi esplicative si dividono, costruite come sono su modelli teorici alternativi. Da una parte il problema della scarsa competitività è stato ricondotto alla povertà tecnologica e istituzionale dell'area, che si traduce in una produttività fattoriale troppo bassa. In un ottica certamente più vicina al paradigma keynesiano è stato evidenziato l'impatto degli shock petroliferi e del productivity slowdown sull'economia del Mezzogiorno, nonché degli shock dal lato della domanda. La sconfitta «storica» (ma non teorica) del keynesismo negli

anni '80 e '90 ad opera dell'economia neoliberista ha fatto emergere un'altra ipotesi, largamente vincente nel periodo recente, più vicina all'ortodossia neoclassica. In questa nuova ipotesi si è passati a considerare il problema della competitività del lavoro meridionale dal lato esclusivo del suo costo. È salita in primo piano la dinamica salariale e, con essa, le rigidità e imperfezioni di natura istituzionale ed esogena che hanno impedito un corretto funzionamento del mercato del lavoro e dei suoi meccanismi di aggiustamento (in linea con il dibattito sulla disoccupazione in Europa). È stato evidenziato l'impatto dell'abolizione delle gabbie salariali e il ruolo del sistema di contrattazione, centralizzato ed asimmetrico, sulla capacità dei mercati del lavoro meridionali di rispondere con adeguati movimenti del salario a shock esogeni negativi. Si è preso in considerazione l'intervento pubblico (in particolare le prestazioni sociali di varia natura) e se ne è affermato l'effetto distorsivo sui meccanismi di riequilibrio dal lato dell'offerta del mercato del lavoro. Questa tesi, dominante in letteratura, poggia su solide basi teoriche, mentre le conferme empiriche sono parziali e insoddisfacenti, soprattutto dal punto di vista cronologico.

Parallelamente al dibattito sui differenziali regionali di disoccupazione si è aperto il dibattito sulla mancata convergenza regionale in Italia rispetto al prodotto pro capite ed alla produttività. I due dibattiti si sono fin da subito intrecciati tra loro, dal momento che i divari regionali di disoccupazione erano riconducibili principalmente alla dinamica regionale dell'occupazione (il tasso di occupazione è una delle componenti algebriche del prodotto pro capite, insieme alla produttività). È stato notato che i problemi occupazionali del Mezzogiorno, legati, come abbiamo visto ad un insufficiente dinamica della domanda di lavoro, potevano essere inseriti nel più generale contesto del processo di sviluppo dualistico del paese, caratterizzato dal mancato catching up delle regioni meridionali nei confronti delle regioni del Centro-Nord.

Gli schemi ipotetici definiti rispetto alla disoccupazione regionale sono stati aggiornati ed estesi, e le due visioni tendono a riproporsi. Come spiegare l'insufficiente volume di investimenti nel Mezzogiorno ed i ritardi nel processo di accumulazione del capitale che ne sono derivati?

Si è visto che l'approccio liberista (Capitolo 3) ha cercato di collegare, del tutto o in parte, l'arresto del processo di convergenza negli anni settanta alle rigidità istituzionali del mercato del lavoro (contrattazione centralizzata, azione dei sindacati) e al fenomeno di riduzione dei differenziali salariali ad esse collegato. Anche qui si è considerato il ruolo della spesa pubblica e dei suoi effetti distorsivi sulla struttura degli incentivi di mercato; in sintesi i

motivi per cui il Mezzogiorno non ha colmato il divario di sviluppo che lo separa dal Centro- Nord sono gli stessi che hanno ridotto la crescita dell'occupazione nelle economie meridionali: contrattazione salariale centralizzata e indifferenziata, espansione del pubblico impiego e delle prestazioni sociali della spesa pubblica dagli anni '80 in poi, in generale tutti i tipi di imperfezioni e vincoli al corretto funzionamento dei mercati (soprattutto quello del lavoro). Tutto ciò si risolve nella “incapacità del sistema di prezzi relativi di riflettere correttamente le scarsità relative dei fattori”152, e nella conseguente alterazione del processo di

accumulazione del capitale secondo le previsioni della teoria neoclassica della convergenza. Se il fallimento del mercato è provocato dalle imperfezioni di natura esogena nei meccanismi che lo governano, diventa possibile mantenere la validità del principio stesso della convergenza, del modello soloviano standard (Solow, 1956) e delle tecniche econometriche di verifica da esso dedotte. È così che i contributi che fanno parte di questo approccio utilizzano strumenti propri del modello neoclassico di crescita à la Solow (come la funzione di produzione lineare e il concetto econometrico di β-convergenza). Le stime non parametriche eseguite in questo lavoro (Capitolo 4) suggeriscono invece che il sentiero di crescita del prodotto pro capite e (in maniera meno evidente) della produttività è tutt'altro che lineare e monotonicamente decrescente, come previsto dal modello di Solow nella sua versione standard. Il sentiero di crescita stimato è piuttosto compatibile con la presenza di rendimenti di scala crescenti, con l'esistenza (possibile) di trappole della povertà e di equilibri multipli e con l'ipotesi legata agli shock negativi degli anni settanta.

In questo nuovo quadro riprende campo la visione basata sui vincoli endogeni alla crescita dell'economia meridionale, sulla povertà tecnologica e istituzionale che si risolve in una più bassa produttività totale dei fattori, sull'impatto degli shock economici negativi (dal lato dell'offerta e dal lato della domanda).

È naturale che anche il dibattito sui differenziali di disoccupazione si riapra. Si va verso una spiegazione più complessa del dualismo Nord-Sud nei mercati del lavoro: istituzioni del mercato del lavoro e shock esogeni negativi interagiscono tra loro in questo nuovo e promettente approccio condiviso, in cui fattori come la dinamica salariale, le distorsioni create dalla spesa pubblica, la dinamica della produttività e i gap strutturali in termini di dotazione di capitale sociale ricoprono nella spiegazione ruoli complementari e non mutuamente esclusivi.

Alla luce dei risultati presentati vediamo alcune considerazioni conclusive sulle politiche da seguire per superare il dualismo Nord-Sud. Un punto di partenza per qualsiasi orientamento di policy è il fine di rimuovere i vincoli che hanno impedito alle regioni meridionali di colmare il divario con le regioni del Centro-Nord, sia dal punto di vista del prodotto pro capite e della produttività che dal punto di vista delle performance del mercato del lavoro.

Croci Angelini e Farina (2002) individuano due tipologie di vincoli:

● “vincoli istituzionali alla crescita”, legati alle rigidità del mercato del lavoro e alla

«generosità» del Welfare: ne risultano un salario reale rigido e uniforme, non in linea con le condizioni locali del mercato del lavoro (livelli di produttività, disoccupazione, e, per certi versi, del costo della vita), un salario di riserva troppo elevato, bassi incentivi alla mobilità della forza lavoro all’interno dei confini nazionali, in generale un costo del lavoro incompatibile con la redditività degli investimenti produttivi.

● “vincoli alla crescita endogena”: la mancata convergenza e le cattive performance del

mercato del lavoro dipendono dalla stagnazione del progresso tecnologico (alla base della crescita della produttività fattoriale nei modelli di crescita endogena), che si protrae in Europa dagli anni ’70 (il cosiddetto slowdown della produttività). Tale fenomeno ha colpito in modo asimmetrico, sfavorendo tra le regioni quelle più arretrate e tra i lavoratori quelli unskilled.

Se l’interpretazione dell’evidenza prodotta non sempre permette di distinguere chiaramente tra le due diagnosi (il confine tra convergenza condizionata e equilibri multipli è, nei fatti, piuttosto labile153), i due approcci prendono strade diverse quando si apprestano a

prescrivere la cura: da una parte abbiamo il classico “meno Stato più mercato”, con eliminazione dei vincoli che impediscono ai mercati di funzionare correttamente (nel caso specifico ai salari di muoversi in linea con la produttività, assicurando un equilibrio di piena occupazione nel mercato del lavoro), in modo da ripristinare i naturali meccanismi di aggiustamento dei mercati. Le soluzioni di policy guardano ad un incremento della flessibilità del sistema, in un’ottica tipicamente liberista o neoliberista: abbandono della contrattazione collettiva centralizzata e/o dell’uniformità della dinamica salariale in vista di una maggiore differenziazione salariale intersettoriale e interregionale; sostituzione della legislazione a protezione dell’impiego con un sistema più snello e efficace di ammortizzatori sociali;

passaggio a sistemi pensionistici e sanitari privati per alleggerire il Welfare.154 Dall’altra parte

diventano necessarie politiche pubbliche a sostegno delle regioni penalizzate da condizioni di partenza svantaggiate. Insomma, se gli ultimi sono condannati a restare ultimi, è accettabile l’idea di un intervento pubblico correttivo. Da una parte avremmo dunque flessibilità salariale, assicurata attraverso riforme delle istituzioni che influenzano il funzionamento del mercato del lavoro (decentralizzazione della contrattazione salariale, riduzione del cuneo fiscale e contributivo, flessibilità nelle tipologie contrattuali e nell’orario di lavoro, misure di sostegno contro la disoccupazione compatibili con un salario di riserva non superiore al salario di domanda, sostituzione della legislazione a protezione dell’impiego con un sistema di ammortizzatori sociali, ecc.), dall’altra investimenti pubblici in capitale umano, in infrastrutture, in R&S, redistribuzione fiscale e trasferimenti interregionali, ecc.

Consideriamo con più attenzione le opzioni di policy praticabili. Innanzi tutto si consideri la strategia della differenziazione salariale (da raggiungere principalmente attraverso un decentramento della contrattazione) suggerita dai fautori dell’ipotesi liberista legata agli

overdrawn wages.155 Una struttura salariale in linea con i divari interregionali di produttività

consentirebbe un riassorbimento degli squilibri nei mercati del lavoro delle regioni meridionali e una caduta dei loro tassi di disoccupazione, favorendo così un processo di convergenza nei tassi di disoccupazione regionali in Italia (si vedano i termini del dibattito nell’Appendice B). Accettando questa spiegazione, che riceve in letteratura conferme teoriche ed empiriche, una riforma della contrattazione in Italia che permetta al Mezzogiorno di avere salari relativi ‹‹adeguati›› e flessibili appare auspicabile. Ma ciò non prescinde dal valutare la strategia dei differenziali salariali non solo sul piano della convenienza economica ma anche su quello della fattibilità ‹‹etica››. In altre parole ci dobbiamo chiedere se “è ‹‹giusto›› pagare

154 Si pensi, ad esempio, alle proposte contenute in Boeri et al. (2000), e riprese da Brunello et al. (2001): una

riforma degli orientamenti in materia di sostegno alla partecipazione alla forza lavoro (troppo spesso volti nel passato a favorire l'uscita dall'offerta di lavoro in nome del principio “young in, old out” attraverso i noti schemi si prepensionamenti e pensioni di invalidità), e un'ulteriore effettiva decentralizzazione della contrattazione salariale in vista di un meccanismo di determinazione dei salari che tenga conto dei differenziali regionali di produttività.

155 Se vale lo scenario delle rigidità e delle imperfezioni del mercato del lavoro, come emerge dal punto di vista

teorico ed empirico in Carmeci e Mauro (2002), ad esempio, le opzioni di policy da adottare per porre fine alla natura dualistica del processo di sviluppo regionale in Italia, sia per quanto riguarda il mercato del lavoro che per quanto riguarda il tasso di crescita, comprendono sicuramente una riforma del sistema di contrattazione che assicuri un’adeguata flessibilità territoriale dei salari (come propongono, seppur in varia forma, molti degli autori passati in rassegna nell’Appendice B).

Ma le stesse stime effettuate da Carmeci e Mauro non escludono che il processo di accumulazione del capitale, fisico e umano, ricoprano un ruolo importante nella spiegazione degli squilibri regionali, così come risulta dallo scenario alternativo (trappola di povertà per le regioni meridionali).

diversamente due lavoratori, di pari capacità e che svolgono compiti simili, solo perché sono diverse le condizioni del contesto economico in cui operano”, oppure se è ‹‹ingiusto›› non farlo e continuare a “pagare lo stesso salario a due lavoratori che operano in contesti caratterizzati da una diversa produttività complessiva, finanziando questo divario di produttività con trasferimenti fiscali di varia natura”.156 Abbiamo visto nel Paragrafo 3.3 che

alcuni autori collegano l’insufficiente flessibilità salariale legata al sistema di contrattazione vigente anche alla mancata convergenza regionale nel prodotto pro capite. Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno è ricondotto in questo approccio alla scarsa competitività dell’economia del Mezzogiorno dovuta al suo alto costo relativo del lavoro. Aldilà delle considerazioni etiche, nel campo della convergenza regionale non è detto che sia efficace la stessa ricetta che potrebbe funzionare per ricomporre i divari regionali di disoccupazione. Nel Capitolo 4 si è visto che il processo di crescita regionale in Italia è caratterizzato da un’evidente non linearità e dalla (probabile) emersione di una trappola della povertà per le regioni del Mezzogiorno a seguito degli shock dal lato dell’offerta degli anni settanta. La presenza della trappola sarebbe tuttavia un caso limite: anche se così non fosse la non linearità del sentiero di crescita giustifica l’aumento del divario tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud e invalida la tesi neoclassica della convergenza regionale, in quanto ammette la rilevanza delle condizioni iniziali di un'economia nel determinarne il sentiero di crescita. Sembrerebbero dunque fondate le considerazioni di policy avanzate dai sostenitori dell’ipotesi dei vincoli endogeni e, più in generale, dai sostenitori del paradigma della trappola della povertà. La rimozione di tali vincoli alla crescita del Mezzogiorno è legata ad un necessario intervento pubblico che sostenga il processo di accumulazione del capitale nelle regioni meridionali, aiutandole a superare la fase discendente del sentiero di crescita e, in termini grafici, a spostarsi verso destra nella fase crescente in cui i tassi di crescita aumentano, ovvero aiutandole a superare l'attuale specializzazione produttiva penalizzante e a superare la soglia critica che le separa dal processo di crescita endogena. In questo caso serve una politica organica di interventi diretti e indiretti, volti ad incrementare il capitale sociale delle regioni meridionali: potenziare le infrastrutture materiali e immateriali, aumentare lo stock di capitale umano, sviluppare una cultura della legalità e contemporaneamente rinforzare la certezza dei diritti di proprietà, combattere i livelli endemici di corruzione e rendere più efficiente la macchina burocratica, migliorare il funzionamento del sistema creditizio157, ecc.. In generale

156 Le domande sono poste in Sestito (1996, p.89).

157 I tassi di interesse passivi applicati dalle banche nel Mezzogiorno sono stabilmente più alti rispetto al resto del

si tratterebbe di aumentare la capacità di crescita endogena dell'economia del Mezzogiorno, la sua “social capability”158 per la crescita, per utilizzare la terminologia di Abramovitz ripresa

in Boltho et al. [1997]159, e di combattere l'effetto di eventuali esternalità che penalizzano le

regioni più deboli attirando gli investimenti nelle regioni più ricche, dove possono sfruttare le economie di scala presenti. Se la trappola esiste, ciò evita che le regioni meridionali finiscano in una soluzione di equilibrio di steady state a basso reddito e a bassa produttività. Se la trappola non esiste e vi è comunque un solo equilibrio, ciò evita che i divari regionali persistano o continuino a crescere nella fase di transizione e ne accelera la ricomposizione in vista della convergenza verso l’unico livello di tasso di crescita di steady state. In ogni caso si tratterebbe di intervenire per evitare che il mercato conduca ad una situazione di polarizzazione implicita nel modello di causazione cumulativa.

I sostenitori dell’ipotesi liberista a favore di una maggiore differenziazione salariale interregionale possono obiettare che la loro opzione favorirebbe un maggior afflusso di investimenti nelle attività produttive del Mezzogiorno e per questa via un’accelerazione del processo di accumulazione di capitale. Molti di loro aggiungono che ciò probabilmente non basterebbe e che serve un approccio coordinato e organico (Micossi, 1997; Jackman et al.,