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Sulla dinamica della disoccupazione e della crescita nelle regioni italiane: note teoriche ed empiriche.

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INDICE

1. Il dualismo Nord-Sud nel mercato del lavoro: l’evidenza empirica

1.1 Introduzione 2

1.2 Dinamica regionale della disoccupazione: una rassegna della

letteratura e nuova evidenza empirica 10

2. I nessi causali

1.1 Le fonti della disoccupazione regionale 26

1.2 Le ipotesi esplicative 39

3. Contrattazione, rigidità salariali e convergenza regionale: elementi

teorici

3.1 Introduzione 56

3.2 Un modello regionale del mercato del lavoro 56

3.3 Rigidità salariali e convergenza regionale nel prodotto pro capite 64

4. Uno scenario alternativo

82

5. Considerazioni conclusive

102

Appendici:

A. Il dualismo Nord-Sud: un racconto storico (incompleto) degli ultimi

cinquant’anni 112

B. Il dibattito italiano sulla contrattazione salariale e le strategie di riforma 131

C. Dati 150

D. Figure 152

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1. Il dualismo Nord-Sud nel mercato del lavoro: l’evidenza

empirica

1.1 Introduzione

Lo scopo di questa tesi è descrivere l’evoluzione dei mercati regionali del lavoro in Italia, cercando di rispondere su basi teoriche ed empiriche a tre questioni principali:

● come evolvono negli ultimi decenni i differenziali regionali di disoccupazione in

Italia?

● qual è il legame tra le caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro (in particolare

le rigidità salariali legate al sistema di contrattazione) e la dinamica regionale della disoccupazione?

● esiste un collegamento tra la dinamica dei differenziali regionali di disoccupazione e

la mancata convergenza regionale nel prodotto pro capite?

Si vedrà che le regioni italiane hanno visto i loro tassi di disoccupazione divergere negli ultimi decenni e che sussiste un nesso di causalità, seppur parziale, tra le rigidità salariali a livello regionale e tale processo di divergenza. Più in generale la tesi si inserisce tra gli studi sul dualismo e sulla convergenza regionale in Italia, assumendo come punto di vista privilegiato la dinamica dei mercati del lavoro regionali e partendo dal presupposto che “il differenziale di sviluppo tra il Sud e il Nord, misurato in termini di Pil pro capite, livelli di occupazione, produttività e bilancia commerciale persiste e si è allargato negli ultimi decenni”1. Dopo decenni di intervento pubblico più o meno intenso, l’economia italiana è

ancora profondamente duale e manca un mainstream interpretativo univoco. Vi sono motivazioni sufficienti, a mio avviso, per condurre un lavoro di rassegna critica sullo stato dell’arte e gli spazi necessari, come si vedrà, per proporre nuove interpretazioni.

(3)

In sede introduttiva, credo sia opportuno inserire il tema nel contesto più generale cui appartiene, ovvero il dualismo economico Nord-Sud. Un buon quadro delle differenze tra il Centro-Nord e il Sud in Italia2 è contenuto in Svimez (2006b).3 Sono elaborazioni su dati Istat

relativi all’anno 2005 (o all’ultimo anno disponibile), raccolte nelle Figure 1 e 2. La sistematicità con cui il Mezzogiorno4 ottiene risultati peggiori rispetto al Centro-Nord

giustifica l’affermazione del persistente e profondo dualismo economico e sociale tra le due parti del Paese. Nel leggere i grafici seguenti e nell’interpretare molti dati che seguiranno, si tenga sempre presente il peso «generale» del Mezzogiorno, in termini di superficie e di popolazione. Tale peso è pari al 38,5% se il valore del Sud viene rapportato al totale nazionale, e al 62,6% se rapportato al valore del Centro-Nord.5

Figura 1 – Indici territoriali del Mezzogiorno (Centro-Nord:100) Grandezze macroeconomiche

2 Nel corso di questo lavoro si parla indifferentemente di Mezzogiorno, Sud, Italia meridionale e regioni

meridionali, così come si utilizzano senza distinzione i termini Nord e Centro-Nord. Accogliendo una tendenza diffusa in letteratura, si assume che le due aree siano omogenee al loro interno (non è un'ipotesi irrealistica). Per ragioni di spazio non considereremo le eterogeneità interne, sicuramente presenti ma non eccessivamente rilevanti. Così Destefanis (2001): “I divari regionali interni al Mezzogiorno emersi negli ultimi decenni, pur evidenziando una pluralità di mercati del lavoro locali, non hanno infatti eliminato la specifica gravità delle problematiche strutturali che caratterizzano l'area nel suo complesso.” Per una trattazione approfondita delle differenze interne al Mezzogiorno si rimanda alla letteratura sul tema (cfr. ad esempio Bodo e Sestito (1991, cap.4) e l’analisi cluster a livello provinciale in Baffigi (1996)).

3 Sono riportati, per ovvie ragioni di sintesi, i dati più significativi. L’opuscolo preparato dalla Svimez –

Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez, 2006b) contiene molte altre tavole, anche di carattere non strettamente economico. Si rimanda alla fonte per un quadro completo degli indicatori statistici.

4 Per “Mezzogiorno” si intende, secondo prassi, l’insieme delle otto regioni meridionali: Abruzzo, Molise,

Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna.

5 Tutte le volte che si incontrano indici percentuali costruiti su valori quantitativi assoluti, essi devono essere

confrontati idealmente con questi pesi di natura generale. Si individuano così, a prima vista, gli squilibri territoriali esistenti tra le due macro-regioni. Ad esempio il Mezzogiorno produce un Pil pari al 33% del Pil del Centro-Nord, mentre dovrebbe raggiungere il 62,6% per essere in equilibrio con il Centro-Nord, in base alla superficie e alla popolazione residente. Infatti il Pil pro capite meridionale è solo il 60,3% di quello del Centro-Nord.

(4)

Fonte: Svimez (2006b).

I divari tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno del Paese, rispetto al Prodotto interno lordo, sono dati relativamente recenti, propri in gran parte dell’ultimo cinquantennio. Il grafico nella

(5)

Figura 2, tratto da Daniele (2002), traccia il Pil pro capite delle due macro-regioni nell’arco della storia unitaria dell’Italia, dal 1860 al 2000. Come si vede, il divario è andato allargandosi dagli anni ’30 del Novecento in poi, ma è dagli anni ’50 che la differenza ha cominciato a crescere sensibilmente, a ritmi mai visti prima.

Figura 2– Andamento del Pil pro capite nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord (periodo:1861-1996)

Fonte: Daniele (2002).

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, lo stesso documento della Svimez offre statistiche eloquenti sul quadro attuale (v. Figura 3).

Venendo alle statistiche sulla disoccupazione, notiamo immediatamente il fatto stilizzato oggetto di studio in questa tesi: l’aumento nel tempo delle disparità Nord-Sud rispetto al tasso di disoccupazione. Seguendo Leonardi (2004), si nota che siamo passati da una situazione in cui, nel 1960, il tasso di disoccupazione era il 4% al Nord e il 6-7% nelle regioni meridionali, ad una situazione in cui, nel 1999, i tassi di disoccupazione erano passati rispettivamente al 7,1% e al 20,4%. L’Italia registra anche un netto aumento della disoccupazione aggregata, dovuto principalmente all’aumento del tasso di disoccupazione meridionale (dal 10,2% nel 1977 al 20,4% nel 1992), mentre il tasso di disoccupazione nel Centro aumenta solo lievemente e il tasso di disoccupazione del Nord oscilla per lo più ciclicamente, “non mostrando alcun segno di aumento tendenziale di lungo periodo, ed attestandosi a livelli compatibili con il pieno impiego”.6

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Figura 3 - Indici territoriali del Mezzogiorno (Centro-Nord=100) Mercato del lavoro

Fonte: Svimez (2006b).

La gravità della situazione del mercato del lavoro nel Mezzogiorno è riconosciuta da tutti gli osservatori. È evidente che l’Italia degli ultimi venti anni si presenta come un paese con “situazioni di disoccupazione di massa in vaste aree che si confrontano con situazioni di pieno impiego in aree altrettanto significative”7.

La Figura 4 mostra l’andamento del tasso di disoccupazione nelle quattro macroregioni italiane (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud). Tutte le aree presentano tassi di disoccupazione crescenti nel lungo periodo, ma con differenze sostanziali tra il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno e quelli delle altre tre, assimilabili tra loro. Si notano dei break comuni, ma con effetti asimmetrici, qualitativamente o quantitativamente.

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Figura 4 – Tassi di disoccupazione nelle quattro macroregioni italiane

Fonte: Brunello et al. (2001).

Il primo break si ha intorno al 1963-64, il secondo intorno al 1973-74, il terzo intorno al 1984. In occasione del primo break, i tassi di disoccupazione aumentano in tutte le aree dopo una fase comune di discesa nei primi anni sessanta. È un break comune, ma con effetti asimmetrici, dato che il tasso di disoccupazione del Sud non smetterà più di crescere, mentre il tasso di disoccupazione nelle altre tre aree smette di crescere dopo il 1965 e rimane sostanzialmente stabile fino al secondo break. Nel 1973-74 (primo shock petrolifero) si innesca una crisi generale in cui il tasso di disoccupazione cresce più o meno in tutte le macroregioni (ma più nel Sud), verso la metà degli anni ottanta il tasso di disoccupazione meridionale accelera mentre nelle altre macro-regioni comincia a scendere, soprattutto nel Nord-Est e, in misura minore, nel Nord-Ovest. Dalla figura emerge che i tassi di disoccupazione delle macroaree Centro, Nord-Ovest e Nord-Est hanno andamenti simili (anche se il tasso di disoccupazione medio delle regioni centrali è leggermente maggiore), per cui ha senso raggruppare ulteriormente le regioni delle tre macroregioni. Rimane dunque la tradizionale distinzione tra Centro-Nord e Sud.

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La Figura 5 analizza l’evoluzione dei tassi di disoccupazione relativi delle due macroregioni, dal 1959 al 2005. I break intorno alla metà degli sessanta e degli anni ottanta sono indiscutibili, più confusa la situazione negli anni settanta (divario stabile nei primi anni del decennio, mentre la seconda metà vede un lieve allargamento del divario). In più, rispetto alla figura precedente, si rende evidente il break intorno al ’93, che comunque conferma il trend crescente del divario. In generale emerge un andamento asimmetrico dei due tassi: il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno aumenta quando il tasso di disoccupazione nel Centro-Nord diminuisce (seconda metà degli anni sessanta, ottanta e novanta), e viceversa (primi anni ottanta e primi anni novanta). Nella prima metà degli anni settanta, i due tassi si muovono nella stessa direzione (prima aumentano, poi diminuiscono). Si può anche dire che il mercato del lavoro centro-settentrionale ha una maggiore sensibilità al ciclo, cosicché il differenziale nel tasso di disoccupazione si riduce solo nelle fasi di stagnazione economica (primi anni ottanta e primi anni novanta). Il picco massimo si è raggiunto “alla fine degli anni novanta, con circa il 55% delle persone in cerca di lavoro presenti nel Mezzogiorno (a fronte di una quota sulla forza lavoro del 32%)”8, ma la maggior parte del divario si è formata nella

seconda metà degli anni ottanta.

La Figura 6, tratta da Limosani (2004), evidenzia il fatto prendendo come riferimento per il tasso di disoccupazione relativo del Sud l'area più produttiva nell'arco di tempo considerato (1960-2000), il Nord-Ovest.

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Figura 5 - Tassi di disoccupazione relativi (media italiana = 1) 0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 1,4 1,6 1,8 1 9 5 9 1 9 6 2 1 9 6 5 1 9 6 8 1 9 7 1 1 9 7 4 1 9 7 7 1 9 8 0 1 9 8 3 1 9 8 6 1 9 8 9 1 9 9 2 1 9 9 5 1 9 9 8 2 0 0 1 2 0 0 4 Centro-Nord Sud

Fonte: Elaborazione personale su dati Prometeia.

Figura 6 – Tassi di disoccupazione relativi (tasso di riferimento: Nord-Ovest)

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1.2 Dinamica regionale della disoccupazione: una rassegna della

letteratura e nuova evidenza empirica

Non sono molti gli studi sulla convergenza regionale rispetto al tasso di disoccupazione, o ad altre variabili del mercato del lavoro. Generalmente il processo di convergenza è studiato in relazione al reddito pro capite e alla produttività del lavoro, ma il concetto di convergenza, inteso genericamente come riduzione dei divari internazionali o interregionali rispetto ad una data variabile economica, non si esaurisce qui.9 Una crescente attenzione è stata rivolta ad

altri aspetti della disuguaglianza tra stati o regioni, su tutti l’evoluzione dei differenziali regionali nei tassi di disoccupazione, cosicché la variabile tasso di disoccupazione ha assunto nel contesto delle disparità macroeconomiche un’importanza via via maggiore.10 L'importanza

crescente nel dibattito macroeconomico della variabile tasso di disoccupazione è inserita nell'ampia discussione sulla disoccupazione europea, vista come elemento principale in quel fenomeno di crisi economica e istituzionale noto come eurosclerosi, che ha interessato i paesi dell'Europa continentale dalla fine degli anni settanta. In Italia (e in Spagna, come si vede in Jimeno e Bentolila (1998)), al fenomeno di crescita e persistenza del tasso di disoccupazione aggregata si è associato un fenomeno di ampliamento progressivo dei differenziali territoriali di disoccupazione. Dobbiamo aggiungere che questa tendenza non è isolata ma interessa tutto il continente: si assiste dalla metà degli anni ottanta ad un fenomeno di crescente

polarizzazione nei tassi di disoccupazione regionali, come mostrano le analisi empiriche non

parametriche di Overman e Puga (2002). Si è verificato quel fenomeno di twin-peaking e

middle class vanishing più volte descritto da Quah11, per cui le regioni che partono da

9 D. Quah, citato in Bayer e Jüßen (2006), afferma: “Certainly, understanding economic growth is important. But

growth is only one of many different areas in economics where analyzing convergence sheds useful insight.”, cfr. Quah (1996, p.1354).

10 Il tema della persistenza dei divari interregionali nei tassi di disoccupazione viene introdotto principalmente in

Blanchard e Katz (1992). “Unemployment disparities are often perceived as persistent. They are at the heart of the ‘regional problem’ and in the focus of regional economic policy (Armstrong and Taylor, 2000). Thus, their persistence has attracted much attention. Persistency itself may reflect stable equilibrium differentials of regional unemployment rates or may be attributed to the fact that shocks to regional unemployment rates have long-lasting effects, see Martin (1997). Discriminating between these two cases is important because policy interventions are more likely to be effective in the latter case. On the contrary, if the differences reflect an equilibrium that has been stable over time, (short-term) policy interventions are less likely to change this stable equilibrium.”,cfr. Bayer e Jüßen (2006, p.2). Un altro contributo di primaria importanza si deve a Decressin e Fatàs (1995). Si vedano anche Jimeno e Bentolila (1998) per il caso spagnolo (interessante anche per le analogie con l’esperienza italiana), nonché Bayer e Jüßen (2006) per il caso della Germania Ovest.

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posizioni di alta o bassa disoccupazione tendono rimanere tali, mentre le regioni inizialmente in posizione intermedia tendono ad abbandonarla e muovere in direzioni opposte, terminando nelle due code della distribuzione. In questo modo si formano dei club di convergenza o

clusters, in un regime di equilibri multipli. Inoltre le stime di Overman e Puga indicano che è

stata la dinamica dell’occupazione a guidare la crescente polarizzazione, solo in parte mitigata dagli aggiustamenti nelle forze di lavoro (preferenze soggettive, trend demografici, flussi migratori).12 Anche in questo senso, come vedremo, ciò che è accaduto in Italia non è

qualitativamente diverso dalla tendenza comune europea. Ciò che distingue l'esperienza del nostro paese facendone un case study è la rilevanza quantitativa dei divari regionali di disoccupazione, oltre al fatto che tali divari si inseriscono nel più ampio fenomeno del dualismo Nord-Sud.

Un altro importante lavoro sulla disoccupazione regionale a livello europeo è quello di Pench et al. (1999). In esso si dimostra che i differenziali interregionali within countries sono un fenomeno ampio e diffuso in Europa. Ma l’Italia spicca in questo quadro sia per l’entità che per la persistenza dei propri divari regionali. Nella Figura 7, tratta dal loro articolo, si vede che il divario tra la media del quarto quartile (le regioni ad alta disoccupazione) e la media degli altri tre quartili è fortemente cresciuto tra il 1983 e il 1996. Nel 1996 la differenza tra il quarto e il primo quartile ammontava a 17 punti percentuali, più che in qualsiasi altro paese europeo. Inoltre, al pari degli altri principali paesi europei, l’Italia mostra tassi di disoccupazioni regionali, e dunque divari interregionali, altamente persistenti nel tempo: gli indici di autocorrelazione temporale sono tra i più alti, e tendono a diminuire nel tempo in misura lieve. Ciò significa che le regioni tendono a mantenere nel tempo la stessa posizione nella distribuzione dei tassi di disoccupazione regionali. Parzialmente differente è la posizione di Jimeno e Bentolila (1998), ma non per quanto concerne il caso italiano. Se è vero che l’Europa rispetto agli Stati Uniti ha una disoccupazione aggregata altamente persistente, i tassi di disoccupazione regionali relativi alla media europea sono poco persistenti, meno ancora di quanto lo siano negli Stati Uniti. Fanno eccezione Italia e Spagna, dove anche la disoccupazione a livello regionale è altamente persistente.13

12 Infine le stime mostrano anche il profilo di dipendenza spaziale che ha accompagnato il processo di

polarizzazione regionale, per cui sono le regioni vicine quelle che tendono ad avere tassi di disoccupazione analoghi, piuttosto che le regioni appartenenti ad uno stesso Stato o le regioni aventi caratteristiche economiche simili (ad esempio identica specializzazione produttiva o composizione simile della forza lavoro in termini di competenze).

13 La scarsa persistenza della disoccupazione regionale negli Usa dipende dalle risposte migratorie dei lavoratori

in risposta a shock specifici, cfr. Blanchard e Katz (1992). In Europa i disequilibri nei mercati del lavoro provocati da shock regionali vengono assorbiti tramite variazioni dei tassi di partecipazione, cfr. Decressin e

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Taylor e Bradley (1997) studiano la disoccupazione regionale in tre grandi paesi europei, Italia, Germania e Gran Bretagna, durante gli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta. L'Italia mostra i divari regionali più ampi, anche se la persistenza dei differenziali regionali di disoccupazione è un fenomeno diffuso in Europa. La dispersione dei tassi di disoccupazione regionali aumenta in Italia dal 1984 e continua a crescere per tutto il decennio e negli anni novanta, a parte la caduta del 1991-92. Negli altri due paesi i divari regionali rimangono sostanzialmente costanti.14

Figura 7 – Evoluzione della disoccupazione regionale in Italia

Fonte: Pench et al. (1999).

Venendo al dibattito italiano, alcuni contributi interessanti si trovano in Biagioli et al. (a cura di, 1999). L’analisi cluster e le regressioni in Baffigi mostrano una chiara tendenza a divergere dei mercati del lavoro a livello provinciale nel periodo 1981-95 (la performance del mercato è misurata da una sintesi delle principali variabili, tra cui il tasso di disoccupazione, il tasso di attività e la quota di lavoratori scoraggiati, divise per sesso). Anno per anno emergono due cluster mutuamente esclusivi che comprendono la totalità delle province italiane. La

Fatàs (1995). I due autori classificano i vari casi in base al grado di persistenza a livello aggregato e regionale: così gli Usa sono un caso di persistenza low-low, l’Europa in generale è una caso di persistenza high-low, Italia e Spagna sono casi di persistenza high-high.

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suddivisione delle province nei due insiemi è fortemente caratterizzata a livello geografico: da una parte quasi esclusivamente province del Nord e del Centro, dall’altra province quasi esclusivamente del Centro e del Sud. La distanza tra i due gruppi aumenta velocemente intorno alla metà degli anni ottanta e segue una andamento prociclico: “il numero di province che compongono il gruppo prevalentemente settentrionale tende ad aumentare negli anni di ripresa e a diminuire in quelli di recessione”15. Anche i risultati delle regressioni della

performance su una componente ciclica e una di trend sono coerenti con quelli della cluster

analysis: tutte (meno una) le province che hanno avuto una performance anticiclica sono

meridionali, tutte quelle con una performance prociclica sono settentrionali, così come la maggioranza delle province che hanno avuto un trend negativo (peggioramento tendenziale della propria posizione) sono meridionali.16 In generale quasi tutte le province del

Mezzogiorno hanno avuto una performance sotto la media; un terzo di esse mostra una tendenza al peggioramento, rafforzata, per metà di esse, da un andamento anticiclico. Il dualismo Nord-Sud nei mercati del lavoro trova conferma anche nell’analisi di Amendola et

al. (1996). I tre autori riconoscono che le due macroregioni italiane presentano andamenti

dell’offerta simili: è l’eterogeneità della domanda di lavoro a causare il differenziale di disoccupazione. Nel Mezzogiorno mancano le opportunità di occupazione, vi è un insufficiente grado di utilizzo delle forze di lavoro, in altre parole. Nel periodo 1960-95, gli indici statistici costruiti (il coefficiente di variazione territoriale e lo scarto quadratico medio standardizzato) mostrano che “la variabilità territoriale è molto elevata e crescente soprattutto per il tasso di disoccupazione, a fronte di divari relativamente più bassi nei tassi di occupazione sulla popolazione e ancor più contenuti nei tassi di attività”17. La scomposizione

della devianza in devianza between groups e devianza within groups mostra che l’aumento del divario Nord-Sud è riconducibile in larghissima parte all’aumento della devianza between, ovvero ad “una ulteriore accentuazione del carattere marcatamente dualistico del mercato del

15 Cfr. Baffigi (1996, p.324). Nonostante il carattere marcatamente dualistico, c’è una certa mobilità tra i due

insiemi di province e una certa eterogeneità di risultati anche all’interno degli stessi insiemi, soprattutto in quello delle regioni prevalentemente meridionali, con alcune province statiche o in regresso e altre più vicine al primo gruppo e più sensibili al ciclo.

16 Sull'andamento prociclico dei divari regionali si veda anche Bodo e Sestito (1991).

17 Cfr. Amendola et al. (1996, p.360). Il secondo indice misura in pratica la σ-convergenza dei tassi di

disoccupazione regionali, mostrando che vi è stata una riduzione della dispersione regionale in tutto il decennio ’60 (ma molto lieve dal ’66-’67 in poi), una sostanziale persistenza fino al 1984 (con una leggera tendenza all’aumento nella seconda metà degli anni settanta e una caduta nei primi anni ottanta)

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lavoro nel nostro paese”, piuttosto che ad “una maggiore articolazione dei mercati del lavoro locali”.18

Un lavoro importante sulla convergenza dei tassi di disoccupazione regionali in Italia si deve a Brunello et al. (2001). L’evidenza mostra che:

● i differenziali regionali nel tasso di disoccupazione sono andati allargandosi

soprattutto a partire dalla metà degli anni ottanta;

● il processo di divergenza si inserisce nel contesto del dualismo Nord-Sud19.

Gli altri risultati, relativi al periodo 1960-94, sono:

i differenziali regionali nel tasso di disoccupazione sono persistenti, ovvero la

tendenza ad aumentare nel tempo non mostra segni di inversione e di ritorno ad un equilibrio comune. In nessuna regione è possibile rifiutare l’ipotesi di non stazionarietà (presenza di una radice unitaria) del tasso di disoccupazione relativo (al tasso di disoccupazione nazionale), sulla base del test ADF (unit root test);

● raggruppando le regioni in 5 aree geografiche (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro,

Sud-Ovest e Sud-Est), non è possibile ugualmente individuare trend comuni all’interno di queste aree, utilizzando il test di cointegrazione secondo l’approccio di Johansen.

Figura 8 – σ convergenza

Fonte: Carmeci e Mauro (2002).

18 Cfr. ibid., p.364. Si veda la Figura 3.1, p.365. Il differenziale Nord-Sud, ovvero la devianza between,

pressoché assente fino al 1968-69, “esplode” nel 1985 e continua a crescere rapidamente fino al 1995, anno in cui si conclude l’indagine (arrivando a misurare i due terzi del divario totale nel tasso di disoccupazione). La differenziazione interna ai due gruppi, invece, rimane scarsa e pressoché costante fino agli ultimi anni, con una leggera crescita nell’ultimo decennio.

19 Ma il Sud non è un’area omogenea, dal momento che i tassi di disoccupazione nelle regioni occidentali (da

sempre le più importanti e dinamiche, Campania e Sicilia soprattutto) sono cresciuti più velocemente dei tassi di disoccupazione nelle regioni orientali (Abruzzo, Molise, Puglia). Cfr. Brunello et al. (2001).

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Un fenomeno di σ-divergenza tra i tassi di disoccupazione regionale, sia nei livelli assoluti che nei livelli logaritmici, si verifica a partire dalla fine degli anni ’6020, in contemporanea

con l’arresto del processo di convergenza regionale rispetto al log del prodotto pro capite, come si vede dalla Figura 8 ripresa da Carmeci e Mauro (2002). La σ-convergenza tra i tassi di crescita regionali del prodotto pro capite si arresta proprio alla fine degli anni sessanta (per quanto riguarda il possibile collegamento tra i due fenomeni, si veda il Paragrafo 3.3). In generale, dalla Figura 8 emerge che “the dualistic development process of Italy is accompanied, and somehow anticipated, by a steady increase in the regional dispersion of unemployment”21. È da notare l’accelerazione subita dal processo di divergenza a partire dal

biennio ’84-’85: la deviazione standard rispetto al prodotto pro capite comincia a salire ininterrottamente; anche la deviazione standard rispetto al tasso di disoccupazione sale bruscamente, dopo 4-5 anni di discesa. La dispersione nei tassi di disoccupazione regionali aumenta fino alla recessione di inizio anni novanta, e poi di nuovo dal ’94. Tali risultati confermano sostanzialmente l’evidenza prodotta da Brunello et al. (2001), soprattutto per quanto riguarda il periodo post-1984 (divergenza dei mercati del lavoro regionali). Per quanto riguarda il periodo pre-1984, si ha un aumento della dispersione nei tassi di disoccupazione regionali, in termini assoluti, mentre l'evoluzione in termini logaritmici è meno chiara. I due autori sostengono che gli anni sessanta sono anni di convergenza per i tassi di disoccupazione regionali, e che l'aumento delle rigidità salariali alla fine del decennio interrompe il processo, traducendosi in un aumento dei differenziali regionali di disoccupazione, e per questa via, in un fattore di arresto del processo di convergenza regionale in termini di prodotto pro capite. In generale la conclusione raggiunta da Carmeci e Mauro appare discutibile. Nella figura si vede che la dispersione nei tassi di disoccupazione regionali, in termini assoluti e logaritmici, tende ad aumentare negli anni settanta, ma con forti oscillazioni e, soprattutto, seguendo una tendenza netta all'aumento iniziata a metà degli anni sessanta (in linea con le figure viste nel paragrafo precedente).22

In uno studio recente, Carmeci e Chies (2006) si occupano dell’isteresi della disoccupazione italiana, testando la presenza di radici unitarie nella dinamica del tasso di disoccupazione, secondo l’approccio di Blanchard e Summers.23 La presenza di una radice

20 Il processo prosegue almeno fino al 1980 e riprende dal 1985 in poi. 21 Cfr. Carmeci e Mauro (2002, p.513).

22 Come vedremo nei capitoli successivi ciò rappresenta un limite di natura cronologica netto per l'ipotesi

esplicativa dei differenziali regionali di disoccupazione basata sulle rigidità istituzionali del mercato del lavoro.

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unitaria denota infatti che “the shocks affecting the series will have permanent effects shifting the unemployment equilibrium from one level to another”24. Si tratta, dunque, di shock

strutturali a livello nazionale (ad esempio lo shock petrolifero nel 1973) che modificano

permanentemente il tasso di disoccupazione di equilibrio naturale. Il lavoro si concentra sulla dimensione regionale del problema, chiedendosi se l’apparente isteresi della disoccupazione nazionale (presenza di una radice unitaria nella serie nazionale) non sia il risultato dell’aggregazione di serie regionali caratterizzate da break eterogenei.

L’analisi empirica si concentra sul periodo 1959-2003, il tasso di disoccupazione viene studiato a livello regionale, macroregionale (Nord-Est, Nord-Ovest, Nord, Centro, Centro-Nord e Sud) e nazionale. Considerando due break strutturali, sia sotto l’ipotesi nulla che sotto l’ipotesi alternativa, non è possibile rifiutare l’ipotesi nulla di non-stazionarietà per la serie nazionale e per le macroregioni Centro, Sud, Centro-Nord e Nord-Ovest (ma il secondo break è in quest’ultimo caso non significativo). L’ipotesi nulla è invece rifiutata per le macroregioni Nord, Nord-Est e Nord-Ovest (per quest’ultima, al 10% di confidenza e considerando un solo break). A livello regionale, invece, ben quattordici delle diciannove regioni (la Valle d’Aosta è esclusa per la sua ridotta dimensione) vedono il rifiuto dell’ipotesi nulla ad un livello di confidenza del 10% almeno (tutte tranne Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Toscana e Sardegna). Puglia e Abruzzo hanno un solo break significativo.25 Molto interessante la

collocazione temporale dei break strutturali individuati dal test. Il primo break per la serie nazionale e le macroregioni si colloca intorno negli anni dal ’69 al ’71, il secondo negli anni ’81 e ’84. Fanno eccezione il Nord-Ovest, per cui un solo break è significativo, collocato nel 1981, e il Centro, per cui il secondo break si colloca nel ’92. Restringendo il periodo al 1963-2003 (per evitare un possibile break rilevato nel 1962 e i problemi di stima che ne deriverebbero), il test rifiuta l’ipotesi nulla di presenza di radice unitaria per le macroregioni Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Centro-Nord e Sud, mentre l’ipotesi non è rifiutata per la macroregione Nord. A livello regionale, l’ipotesi nulla in presenza di due break non è rifiutata solo per Marche e Puglia, ma per la stessa Puglia, la Liguria, la Toscana, la Sicilia e la Sardegna solo un break è significativo. Il test ripetuto considerando un break solo porta a concludere che le serie di Liguria, Toscana, Sicilia e Sardegna sono stazionarie nel trend. In generale, il nuovo periodo campionario conferma e rafforza l’ipotesi di stazionarietà nel trend

24 Cfr. Carmeci e Chies (2006, p.4).

(17)

del tasso di disoccupazione della gran parte delle regioni italiane.26 Quindi, “hysteresis in

national Italian unemployment appears to be more the result of the aggregation of regional trend-stationary series characterized by heterogeneous breaks, than the result of not accounting for the presence of structural breaks at the country level”27. La collocazione

temporale dei break cambia sensibilmente rispetto al periodo 1959-2003.28

Figura 9 – Break strutturali per le regioni italiane (periodo: 1963-2003).

Fonte: Carmeci e Chies (2006). Nota: il simbolo # indica il secondo break.

26 È interessante notare che alcune delle regioni per le quali non è possibile rifiutare l’ipotesi nulla di

non-stazionarietà sono caratterizzate da bassi livelli di disoccupazione (Marche, Piemonte, Toscana, Friuli-Venezia Giulia).

27 Cfr. Carmeci e Chies (2006, p.12).

28 È interessante notare la collocazione temporale dei break perché “the presence of common structural breaks for

some regions might be taken as evidence of the existence of interrelationships in their respective local labour markets”, cfr. ibid., p.12. Si vedano i risultati nella Tabella 3, p.27.

(18)

Nella Figura 9 si possono individuare tre clusters regionali in base al timing dei break

strutturali:

● il primo, collocato intorno al 1980, include Piemonte, Lombardia, Veneto,

Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Molise, Umbria, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige e Marche;

● il secondo, collocato intorno agli anni ’84-’85, comprende Sardegna, Basilicata,

Puglia, Campania, Sicilia, Calabria e Marche;

● il terzo, centrato sul 1992, include Veneto, Basilicata, Liguria, Piemonte, Lombardia,

Umbria, Lazio, Molise, Friuli-Venezia Giulia e Campania.

É da notare l’omogeneità geografica dei clusters: il primo break include quasi tutte regioni centro-settentrionali, il secondo quasi tutte regioni del Mezzogiorno. Anche il timing è interessante: il primo e il secondo break si collocano tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta.

Il clustering per le macroregioni e la serie nazionale conferma sostanzialmente i risultati appena descritti per le regioni, come si vede dalla Figura 10. In particolare il primo break per il Sud si ha nel 1985, il primo break per Centro e Centro-Nord si ha nel 1973.

Figura 10 – Break strutturali a livello macroregionale e nazionale (periodo 1963-2003)

(19)

L'Italia e gli altri raggruppamenti del Nord hanno il primo break nel 1980-1981. Il secondo break si colloca nei primi anni ’90, tranne che per il Centro-Nord, per il quale il secondo break si ha nel 1981. Tali risultati sono riassunti nei grafici raccolti nella Figura 11.

L'evoluzione dei tassi di disoccupazione regionali a questo punto è chiara, come emerge dalle figure riportate nel Paragrafo 1.1 e dalla rassegna in questo paragrafo: negli ultimi quarant’anni le regioni italiane hanno visto i loro tassi di disoccupazione divergere, seguendo il profilo dualistico Nord-Sud.

Figura 11 – Tassi di disoccupazione nelle macroregioni italiane e relativi trend stimati

Fonte: Carmeci e Chies (2006). Nota: la linea tratteggiata rappresenta il trend stimato.

Tuttavia riteniamo interessante approfondire la questione, tramite il calcolo delle matrici

(20)

delle osservazioni, nell’arco dell’intero periodo e dei più rilevanti sottoperiodi. Meglio di altre tecniche, riesce a individuare processi di divergenza o di club convergence (presenza di equilibri multipli attorno ai quali le economie tendono a raggrupparsi, secondo il fenomeno noto come clustering), evitando di imporre qualsiasi struttura predeterminata ai dati e descrivendo la dinamica all'interno dell'intera distribuzione delle osservazioni. In particolare questo tipo di analisi ovvia ai tipici problemi delle regressioni sulla β-convergence in cui i coefficienti dei parametri sono valori medi, riferiti all'economia rappresentativa e al suo processo di transizione verso il livello di steady state. Così facendo, arriviamo a disporre di maggiori informazioni sulla dinamica dei mercati del lavoro regionali, considerato che un'analisi di questo tipo non è stata ancora condotta per i tassi di disoccupazione relativi a livello regionale in Italia.29

Di seguito si presentano le matrici di transizione per i tassi disoccupazione relativi (alla media italiana) per il periodo 2005 e per vari sottoperiodi: 70, 1970-2005, 1959-73, 1973-2005, 1959-84, 1984-2005, 1970-84, 1973-84.30 I sottoperiodi sono scelti sulla base

della dinamica dei tassi di disoccupazione relativi delle due macroaree del paese, Centro-Nord e Sud (v. Figura 5), e dei principali risultati emersi in letteratura: i break più importanti, anche dal punto d vista delle ipotesi esplicative che verranno presentate nel capitolo successivo, si hanno nel 1970 (Autunno caldo e abolizione delle gabbie salariali nel ’69, Statuto dei

Lavoratori nel ’70, rincorsa salariale e generale aumento delle rigidità delle istituzioni del

mercato del lavoro), nel 1973 (primo shock petrolifero e productivity slowdown) e nel 1984 (controshock e ripresa, nuova fase espansiva con alti tassi di crescita). Rimane escluso il 1965, in cui non si hanno eventi tali da giustificare l’apertura del divario permanente nei tassi di disoccupazione delle due parti del paese, essendo lo shock negativo indotto dalla stretta creditizia del ’64 di natura temporanea e simmetrica.31

Si definiscono 4 classi di tassi di disoccupazione regionali relativi. Le classi sono scelte in modo da avere la stessa dimensione nell’anno di inizio, il 1959, cioè da ‹‹contenere›› il 25%

29 Questo tipo di analisi empirica è stato introdotto e descritto da D. Quah (si vedano Quah (1993, 1996)). Per i

vantaggi e svantaggi di questo approccio analitico, detto distribution dynamics approach, si vedano Islam (2003) e Magrini (2004). Una sintesi della teoria e dell'applicazione delle catene di Markov si ha in Lavezzi (2000).

30 Sono utilizzati i dati Prometeia (v. Appendice C). Tutte le stime sono effettuate utilizzando il programma R. I

codici in R utilizzati sono stati elaborati da Davide Fiaschi e Andrea Mario Lavezzi e sono disponibili alle loro pagine web: http://www-dse.ec.unipi.it/fiaschi e http://www.unipa.it/~lavezzi.

31 Il break del 1965 non è legato ad alcun quadro ipotetico sulla mancata convergenza regionale in Italia nei tassi

di disoccupazione (e sulle variabili reali in generale, come vedremo). Si rimanda all’Appendice A e al Capitolo 2 per una trattazione più dettagliata dei fatti e delle ipotesi. Si può anticipare, in breve, che l’aumento del tasso di disoccupazione relativo nel Mezzogiorno a partire dal 1965 e l’apertura del divario con il Centro-Nord potrebbero essere legati a condizioni cicliche (di breve periodo) rese permanenti dal successivo irrigidimento delle istituzioni del mercato del lavoro.

(21)

circa delle osservazioni.32 Le classi, definite sull’intero periodo e utilizzate anche nei

sottoperiodi, sono presentate nella Tabella1. La Tabella 2 descrive la matrice di transizione sull’intero periodo.

Classe di tassi di

disoccupazione relativi Stato

0 - 0,73 I

0,73 - 1 II

1 - 1,35 III

> 1,35 IV

Tabella 1 – Definizione degli stati dello spazio della dinamica dei tassi di disoccupazione

regionali. Distribuzione osservazioni (%) Stato I II III IV 25,2 I 0.89 0.11 0.00 0.00 25,2 II 0.14 0.72 0.13 0.01 24,4 III 0.00 0.15 0.71 0.15 25,3 IV 0.00 0.00 0.13 0.86 Ergodica 0.28 0.23 0.22 0.26

Tabella 2 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1959-2005.

La distribuzione ergodica, o distribuzione di lungo periodo, indica che non vi è convergenza tra i mercati del lavoro regionali rispetto al tasso di disoccupazione.33 Le quattro

classi raccolgono nel lungo periodo un quarto circa delle regioni ciascuna; in particolare quasi la metà delle regioni si concentra nella terza e quarta classe, cioè è caratterizzata da un tasso di disoccupazione di lungo periodo superiore alla media. Oltre il 25% delle regioni tende a convergere nella quarta classe: ciò significa che almeno cinque regioni su venti avranno nel lungo periodo un tasso di disoccupazione superiore alla media di almeno il 35%. Emergono

32 È un criterio di scelta oggettivo, che serve ad avere una distribuzione delle osservazioni simmetrica. È

certamente il criterio migliore per respingere le consuete critiche alla discretizzazione dello spazio degli stati (Durlauf et al., 2006), che, sappiamo, influenzano direttamente la matrice di transizione e la distribuzione ergodica. È uno dei motivi per cui si preferisce analizzare la dinamica della distribuzione nel continuo.

33 Si tenga presente che la distribuzione di lungo periodo non è una vera e propria previsione bensì una semplice

tendenza implicita nei dati così come si presentano. Seguendo una prassi consolidata, si parla di convergenza quando la matrice di transizione calcolata descrive una tendenza della distribuzione dei tassi di disoccupazione regionali a concentrarsi nelle classi centrali, in questo caso la seconda e la terza, cfr. Lavezzi (2000, p.3). Si noti che le matrici di transizione per i tassi di disoccupazione regionali vanno lette «al contrario» rispetto a come si è abituati a fare con le matrici del reddito e della produttività. In altre parole i livelli «virtuosi» sono quelli sotto la media (inferiori ad uno) e le classi «virtuose» sono la prima e la seconda. In senso proprio, la convergenza assoluta si avrebbe quando tutta la massa delle osservazioni tende a concentrarsi in un unico stato nel lungo periodo, ovvero quando uno stato prende valore uno nella distribuzione ergodica. Tale stato viene indicato in letteratura come absorbing state.

(22)

due picchi nel lungo periodo, anche se debolmente, in corrispondenza delle classi estreme. D'altra parte si vede sulla diagonale principale che le osservazioni nella prima e nella quarta classe mostrano una maggiore persistenza e ciò produce la bimodalità della distribuzione ergodica, in linea con l'evidenza per le regioni europee in Overman e Puga (2002).

Vediamo adesso le matrici di transizione nei sottoperiodi.

Stato I II III IV I 0.77 0.23 0.00 0.00 II 0.14 0.53 0.28 0.05 III 0.00 0.20 0.66 0.15 IV 0.00 0.03 0.34 0.63 Ergodica 0.15 0.25 0.40 0.20

Tabella 3 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1959-70.

Stato I II III IV I 0.91 0.09 0.00 0.00 II 0.13 0.79 0.08 0.00 III 0.00 0.11 0.75 0.14 IV 0.00 0.00 0.09 0.91 Ergodica 0.33 0.23 0.17 0.26

Tabella 4 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1970-2005.

Le Tabelle 3-6 indicano chiaramente alcuni elementi:

● non vi è convergenza dei tassi di disoccupazione regionali in un'unica classe, in

nessuno dei sottoperiodi, nel senso che manca un absorbing state nel lungo periodo;

● la scelta tra il 1970 (shock salariale) e il 1973 (shock petrolifero) non comporta

differenze visibili: in entrambi i casi si vede che aumenta nettamente il grado di persistenza e la tendenza alla polarizzazione nel secondo periodo;

● nel primo periodo la massa tende a concentrarsi (per oltre il 60%) nelle due classi

centrali, di cui il 40% nella terza classe. Un quinto delle regioni italiane tende a convergere nella quarta classe. In totale, secondo la distribuzione ergodica, il 60% delle regioni italiane tende ad avere nel lungo periodo un tasso di disoccupazione superiore alla media;34

34 Il primo periodo rappresenta una fase di intensa crescita e sviluppo per tutto il paese, per cui le Tabelle 5 e 3

suggeriscono che i tassi di disoccupazione regionali in Italia hanno sempre mostrato un profilo divergente, anche nelle fasi migliori. D'altra parte il periodo cattura l'effetto del break strutturale intorno al 1965, per cui i risultati non stupiscono.

(23)

● nel secondo periodo il terzo stato raccoglie nel lungo periodo meno della metà della

massa di osservazioni catturate nel primo periodo. Il primo stato vede la propria «quota» più che raddoppiare, interessando oltre un terzo delle regioni. Nel primo caso il cambiamento tra il primo e il secondo periodo è più netto, ad esempio la massa che nel lungo periodo si concentrerebbe nella quarta classe, aumenta oltre il 25%. Di nuovo ciò significa che almeno quattro regioni italiane avrebbero nel lungo periodo un tasso di disoccupazione del 35% almeno superiore alla media.

● in generale le Tabelle 3 e 5 (primo periodo) differiscono dalle Tabelle 4 e 6 (secondo

periodo) perché si passa dalla presenza nel lungo periodo di un solo picco in corrispondenza della terza classe alla presenza di due picchi nelle due classi estreme (cioè emerge una tendenza alla polarizzazione). Emergono in altre parole due clusters che delineano una distribuzione di lungo periodo bimodale. La separazione tra la matrice di transizione nel primo sottoperiodo e quella nel secondo è netta, ovvero il

processo Markoviano che, per ipotesi, guida la dinamica della distribuzione non è stazionario da periodo a periodo.35

Stato I II III IV I 0.81 0.19 0.00 0.00 II 0.13 0.58 0.25 0.04 III 0.00 0.18 0.65 0.17 IV 0.00 0.02 0.28 0.70 Ergodica 0.16 0.24 0.36 0.24

Tabella 5 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1959-73.

Stato I II III IV I 0.90 0.10 0.00 0.00 II 0.14 0.79 0.07 0.00 III 0.00 0.11 0.76 0.12 IV 0.00 0.00 0.08 0.92 Ergodica 0.36 0.25 0.16 0.23

Tabella 6 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1973-2005.

Se si sceglie il 1984 come anno di svolta si nota che il secondo periodo mostra una ancor più netta tendenza alla divergenza e alla polarizzazione (v Tabelle 7 e 8). La prima e la quarta classe si profilano ancor più come twin peaks, raccogliendo più del 70% delle osservazioni nel

35 Sarebbe più corretto, tuttavia, stabilire la significatività della differenza tra i valori delle probabilità di

transizione nelle due matrici su base inferenziale. I test statistici non sono stati effettuati per la chiarezza dei risultati emersi.

(24)

lungo periodo, di cui più del 40% la prima e più del 30% la seconda. Il restante 28% circa di osservazioni tenderebbe a concentrarsi nelle classi centrali. Le matrici di transizione per i due sottoperiodi intermedi (70-84 e 73-84, v. Tabelle 9 e 10) confermano che il break strutturale più importante si ha nel 1984: la dinamica della distribuzione tra i primi anni settanta e il 1984 è simile alla dinamica del primo periodo (v. Tabelle 3 e 5), salvo un'inversione della massa concentrata nel lungo periodo tra la seconda e la terza classe, a favore della seconda. Le Tabelle 4 e 6 sono diverse, dunque, dalle Tabelle 3 e 5 soprattutto a causa di quello che succede dal 1984 in poi. È la dinamica della distribuzione dei tassi di disoccupazione regionali post-1984 a guidare la tendenza alla polarizzazione e alla formazione twin peaks nei secondi sottoperiodi. Il risultato non sorprende: abbiamo visto che gli anni settanta rappresentano una fase di passaggio sostanzialmente neutra nel processo di crescita dei divari interregionali di disoccupazione. Stato I II III IV I 0.80 0.20 0.00 0.00 II 0.13 0.68 0.17 0.02 III 0.00 0.15 0.70 0.15 IV 0.00 0.01 0.23 0.76 Ergodica 0.18 0.26 0.32 0.23

Tabella 7 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1959-84.

Stato I II III IV I 0.94 0.06 0.00 0.00 II 0.14 0.77 0.09 0.00 III 0.00 0.14 0.74 0.12 IV 0.00 0.00 0.04 0.96 Ergodica 0.41 0.18 0.11 0.31

(25)

Stato I II III IV I 0.82 0.18 0.00 0.00 II 0.13 0.80 0.07 0.00 III 0.00 0.09 0.75 0.16 IV 0.00 0.00 0.17 0.83 Ergodica 0.22 0.30 0.25 0.23

Tabella 9 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1970-84.

Stato I II III IV I 0.80 0.20 0.00 0.00 II 0.14 0.80 0.05 0.00 III 0.00 0.09 0.79 0.12 IV 0.00 0.00 0.17 0.83 Ergodica 0.25 0.36 0.22 0.16

Tabella 10 – Matrice di transizione tassi di disoccupazione regionali: 1973-84.

I risultati ottenuti sono eloquenti. C'è da aggiungere che, in genere, si preferisce stimare matrici di transizione con un numero di classi dispari e una discretizzazione dello spazio delle osservazioni relative simmetrica rispetto al valore 1, che rappresenta la media. Di solito le classi sono cinque, di cui la terza, quella centrale, è divisa all'incirca a metà dall'unità. Abbiamo effettuato il controllo stimando le matrici di transizione con tre classi (per la dimensione ristretta del campione e per la sua dispersione non eccessiva). Le classi sono: [<0,8, 0,8-1,22, >1,22]. Le nuove stime confermano pienamente le dinamiche già presentate e, pertanto, non sono riportate nel testo.

(26)

2. I nessi causali

2.1 Le fonti della disoccupazione regionale

La persistenza dei differenziali regionali nel tasso di disoccupazione è un fatto empirico che la teoria neoclassica non prevede. Le forze di mercato, lasciate libere di operare, sono in grado di ricomporre qualsiasi disequilibrio che venga a prodursi nel mercato del lavoro, il cui equilibrio naturale è il pieno impiego (disoccupazione involontaria nulla). Non esiste una vera teoria neoclassica della convergenza, come esiste dal lato della produzione. Ma ci si aspetta che i mercati del lavoro regionali in un’economia integrata presentino tassi di disoccupazione, di partecipazione e saggi salariali, espressi come deviazioni dalle medie nazionali, che siano “scarsamente persistenti”36.

Prima di presentare le interpretazioni e le ipotesi esplicative presenti nel dibattito, si osservano le determinanti dei tassi di disoccupazione regionali, così come emergono nella rassegna in Elhorst (2003).37 Le variabili esplicative possono dividersi in due categorie, a

seconda che siano predeterminate (dunque endogene al modello) o strettamente esogene. Alle prime dovrebbero essere sostituite le seconde, ma spesso non è possibile (per la mancanza di dati) o preferibile farlo. La prima categoria comprende:

● le variabili demografiche che determinano il cambiamento naturale della forza lavoro,

ovvero il ritmo di incremento delle nascite, il tasso di crescita della popolazione e la struttura di età della popolazione. In generale un alto tasso di fertilità si accompagna ad un alto tasso di incremento della popolazione e ad una popolazione relativamente giovane. Influenza positivamente il tasso di disoccupazione regionale, riducendo il tasso di partecipazione femminile;

● il tasso di partecipazione, che dovrebbe avere un impatto globale negativo sul tasso di

disoccupazione regionale, secondo l'opinione principale in letteratura, anche se l'impatto

ceteris paribus è positivo;

36 Cfr. Jimeno e Bentolila (1998, p.29).

37 Lo studio di Elhorst è ad oggi la rassegna più estesa e aggiornata sui contributi teorici ed empirici sui

differenziali regionali di disoccupazione. Non sono considerate tutte le variabile elencate da Elhorst: ad esempio il fenomeno del «pendolarismo» che incide sul tasso di disoccupazione dei mercati del lavoro locali non ha rilevanza nel nostro caso, che tiene conto di regioni amministrative.

(27)

● il tasso di immigrazione netta. Il suo impatto globale può variare da caso a caso perché

un afflusso netto di immigrati fa aumentare sia l'offerta di lavoro, in via diretta, che la domanda di lavoro, in via indiretta (soprattutto se i lavoratori immigrati dispongono, almeno in parte, di un alto capitale umano). Nel modello neoclassico il primo effetto domina il secondo, contribuendo alla riduzione dei differenziali regionali nel tasso di disoccupazione;

● i salari, che, secondo la teoria neoclassica, hanno un impatto positivo sull'offerta di

lavoro e un un impatto negativo sulla domanda di lavoro. Un aumento del salario reale si traduce nel modello neoclassico in un aumento della disoccupazione. L'evidenza empirica conferma questa relazione. L'impatto sulla domanda di lavoro regionale di un aumento del salario regionale è negativo perché il capitale è sufficientemente mobile e un'impresa può scegliere dove localizzare i propri investimenti dopo aver confrontato il costo del lavoro nelle diverse regioni (ma sarebbe più corretto dire che le imprese considerano il costo del lavoro per unità di prodotto o valore aggiunto, e dunque la dinamica della produttività regionale è altrettanto significativa della dinamica dei salari nel determinare la domanda di lavoro);

● il tasso di sindacalizzazione, che di solito è correlato positivamente con il salario e,

dunque, con il tasso di disoccupazione, oltre ad essere un fattore di rigidità nella stipulazione dei contratti di lavoro (ma si dovrebbe considerare anche il tasso di copertura sindacale);38

● il tasso di occupazione (che ha un effetto negativo sul tasso di disoccupazione); ● il prodotto regionale lordo (assunto come proxy della domanda di lavoro).

Le determinanti strettamente esogene sono invece:

il potenziale di mercato;39

38 Elhorst descrive così il nesso tra sindacalizzazione e disoccupazione: “unions set a wage floor, thereby

reducing labour demand. Employers are less willing to hire when explicit contracts specify job durations in excess of their optimal lengths and restrict an employer's ability to assign individual workers to different types of job as production conditions require. Furthermore, to the extent that unions successfully raise the relative price of labour, there is an employer incentive to substitute new technologies and additional capital for labour.” Cfr. Elhorst (2003, p.230)

39 È un concetto della economic geography, citato anche come potenziale di agglomerazione o potenziale di

domanda). Dipende dalla concentrazione produttiva guidata dalla presenza di economie di scala e costi di

(28)

● la composizione settoriale dell'economia (alti tassi di disoccupazione sono associati

ad economie con settore industriale decrescente, oppure con elevata quota di determinati settori o attività industriali);

● le barriere economiche e sociali, che possono ostacolare i flussi migratori

interregionali, isolando i singoli mercati del lavoro locali e bloccandone il principale canale di aggiustamento dal lato dell'offerta. Le principali barriere sono date dal mercato delle abitazioni, dalle politiche assistenziali e previdenziali pubbliche, dalla rigidità del mercato del lavoro;

● il livello di istruzione della popolazione (il tasso di disoccupazione diminuisce al

crescere dell'istruzione media);

● il tasso di disoccupazione ritardato di uno o più periodi e il tasso di disoccupazione

delle aree economiche geograficamente contigue (è noto che la serie del tasso di disoccupazione è altamente autocorrelata nel tempo e nello spazio).

Tutte queste variabili hanno un potenziale e parziale ruolo esplicativo nei confronti della dinamica della disoccupazione regionale in Italia. Vediamo in dettaglio le più rilevanti tra esse.

Innanzi tutto si riprende un risultato già anticipato nel primo capitolo: il peggioramento della performance occupazionale nel Mezzogiorno, a fronte di una crescita della forza lavoro sostenuta, sarebbe alla base del forte aumento del tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali. Brunello et al. (2001, Tabella 1, p.108) scompongono l'andamento annuale dei tassi di disoccupazione per le principali aree del paese nelle due determinanti (variazione annua dell'occupazione e della forza lavoro). Il periodo in esame, dal 1970 al 1994, viene diviso in due sottoperiodi: 1970-79 e 1980-94. Il primo dovrebbe catturare l'effetto del wage

push di fine anni '60, il secondo dovrebbe invece catturare gli effetti delle mutate condizioni

economiche, dal lato del costo delle materie prime (controshock petrolifero nel 1985 e forte deprezzamento del dollaro) e dal lato della finanza pubblica (partecipazione dell'Italia allo Sme e necessità di risanamento e di riduzione dell'inflazione, esplicitata con una politica monetaria non accomodante dopo il divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro nel 1981). I dati dicono che il Centro-Nord ha visto un un aumento minimo del tasso di crescita annuo della disoccupazione, passato dallo 0,2% allo 0,23%, in presenza di una peggiore performance delle regioni del Centro e del Nord-Ovest, a sua volta indotta da una caduta del tasso di crescita

(29)

dell'occupazione superiore alla caduta del tasso di incremento della forza lavoro, ma compensata quasi interamente dal miglioramento della performance registrato dal Nord-Est, unica area in Italia in cui la forza lavoro è diminuita ad un ritmo superiore rispetto all'occupazione. Nel Sud, invece, il tasso di crescita annuo della disoccupazione è passato dallo 0,36% degli anni settanta allo 0,9% del secondo periodo, a causa di una forte caduta occupazionale non compensata da una riduzione della crescita della forza lavoro. Il tasso di crescita dell'occupazione è passato dallo 0,72% degli anni settanta al -0,32% mentre il tasso di crescita della forza lavoro è diminuito solo dello 0,35%. All'interno della macroarea Sud, le regioni orientali hanno mantenuto una posizione leggermente migliore rispetto a quelle occidentali, grazie ad una maggiore caduta del tasso di crescita della forza lavoro. Dalle figure successive emerge ancora più chiaramente che l'aumento dei divari Nord-Sud nel tasso di disoccupazione è imputabile alla crescita sostenuta della forza lavoro (e della popolazione attiva) negli anni ottanta-novanta, a fronte di una dinamica occupazionale debolmente negativa a partire dagli anni ottanta e fortemente negativa negli anni novanta.

I salari relativi nel Mezzogiorno sono cresciuti costantemente dalla metà degli anni sessanta alla seconda metà degli anni ottanta, anche se a ritmi diversi, lentamente negli anni settanta e molto velocemente intorno alla metà degli anni ottanta. Nei primi anni settanta e anni ottanta sono rimasti pressoché costanti (Faini,1996). Si nota una stretta correlazione tra l'andamento del salario relativo Nord-Sud e l'andamento del divario di disoccupazione Nord-Sud. A seconda della variabile utilizzata per rappresentare il costo del lavoro relativo si possono avere grafici leggermente diversi, ma non cambia il fatto principale che emerge, ovvero la crescita progressiva del salario relativo nel Mezzogiorno.40 La riduzione del

differenziale salariale è osservabile nelle Figure 12 e 13, ed è confermato dall'evidenza di

β-convergenza regionale in Brunello et al. (2001, p.118), dove è stimata una relazione lineare

decrescente tra il tasso di crescita medio annuo del salario regionale e il suo livello iniziale nel 1970.

D'altra parte, come abbiamo già anticipato, se si considera l'evoluzione del Clup regionale, come sarebbe giusto fare se si parla di competitività di costo come parametro oggettivo

40 Ad esempio Faini (1995) descrive un andamento diverso: il salario relativo nel Sud cresce velocemente per

tutti gli anni sessanta. Dalla metà degli anni settanta il divario smette di ridursi attestandosi intorno al 20% (ma i dati dagli anni settanta riguardano solo il settore della trasformazione industriale, dove il divario salariale è rimasto presumibilmente maggiore). In Brunello et al. (2000) il salario relativo nel Nord scende progressivamente fino alla seconda metà degli anni ottanta (complessivamente il divario diminuisce dell'80%, il salario del Centro-Nord rimane superiore del 20% circa al salario del Sud).

(30)

valutato dalle imprese nelle loro scelte di investimento, l'andamento della produttività regionale del lavoro diventa tanto importante quanto il salario reale lordo.

Figura 12 - Evoluzione del salario relativo Nord-Sud (1977-1998)

Fonte: Manacorda e Petrongolo (2006).

Figura 13 - Evoluzione del salario relativo Sud-Nord (1960-1994)

Fonte: Brunello et al. (2001).

Faini (1995) mostra che la produttività relativa scende nel Mezzogiorno negli anni settanta, in controtendenza rispetto all'andamento del salario relativo, crescente nello stesso periodo.41 Ma negli anni ottanta la tendenza si inverte e la produttività relativa nel Sud cresce

(31)

fino a recuperare il livello di inizio anni settanta. Faini considera solo il settore della trasformazione industriale, ma un divario Sud-Nord di produttività intorno al 20% all'inizio degli anni novanta risulta anche da altre indagini su tutti i settori. Brunello et al. (2001) affermano su basi empiriche che vi è stato un processo di β-convergenza nella produttività del lavoro a livello regionale, nel periodo 1970-1994.42 Ma, secondo i dati riportati nel loro

lavoro, la produttività cresce meno nel Sud che nel Nord negli anni settanta e negli anni ottanta (cioè la produttività relativa decresce), a fronte però di un forte aumento del salario relativo meridionale negli anni settanta e di una sua netta caduta nel decennio successivo.43

L'evidenza in letteratura non è dunque univoca. Ciò che risulta di certo è una sostanziale riduzione del salario relativo nel Mezzogiorno a fronte di un divario persistente nel livello di produttività relativa, che va comunque a ridursi leggermente soprattutto negli anni sessanta e novanta, come si vede nella Figura 14.

Figura 14 – Produttività del lavoro relativa (valore di riferimento: Nord-Ovest)

Fonte: Limosani (2004).

Per quanto riguarda i flussi migratori netti, si osserva che il tasso di migrazione netta nel Mezzogiorno scende progressivamente dagli anni sessanta in poi, fino quasi ad annullarsi negli anni ottanta. Si vedano Faini (1996, p.8) e Brunello et al. (2000, 2001). L'evoluzione dei flussi migratori in uscita dal Mezzogiorno è rappresentata nella Figura 15. Si ha una leggera

42 Cfr. Brunello et al. (2001, Figura 5, p.118). 43 Cfr. ibid. (Tabella 6, p.117).

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ripresa della tendenza ad aumentare dal 1965 al 1968 e dal 1984 al 1989: almeno dal punto di vista cronologico sembra che le scelte migratorie siano sensibili all'andamento del tasso di disoccupazione regionale, visto che in questi due periodi la disoccupazione nel Sud subisce una netta accelerazione. In generale però l'andamento del tasso netto di migrazione dal Sud appare in linea con l'andamento del differenziale salariale Nord-Sud. Alla progressiva riduzione dei flussi migratori interregionali potrebbe aver concorso anche l'aumento progressivo della spesa pubblica in prestazioni sociali (Brunello et al., 2001). Questa è la spiegazione fornita da Brunello et al. (2000): “There is a growing consensus among Italian economists that the reduction in relative wage differentials, together with substantial government transfers to Southern households and with the widespread presence of the irregular economy, has reduced the individual incentive to migrate from the South to the North. Another important factor is public employment offered by the national and local government. Household support and the significant probability of finding a lifetime job with the government might have induced young outsiders with limited previous labor market experience, the bulk of unemployment in the South, to prefer wait unemployment to migration.”44 Altri contributi in letteratura suggeriscono che i flussi migratori in uscita

sarebbero scesi anche per effetto dell'inefficienza dei servizi pubblici per l'impiego e delle differenze persistenti nel costo della vita (in particolare nel prezzo delle abitazioni). È probabile dunque che le barriere economiche e sociali sopra citate siano molto importanti nel contesto italiano.

Figura 15 - Tasso netto di migrazione dal Sud (in % della popolazione meridionale)

Fonte: Brunello et al. (2001). 44 Cfr. Brunello et al. (2000, p.150).

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Evidentemente l'aumento del salario riduce ceteris paribus la domanda di lavoro nel Mezzogiorno, mentre la riduzione del tasso di migrazione netta aumenta ceteris paribus l'offerta di lavoro nel Mezzogiorno. Nel modello neoclassico ci sarebbero elementi sufficienti per spiegare l'aumento della disoccupazione nelle regioni del Mezzogiorno. Ma il discorso non si esaurisce qui

Ciò che bisogna considerare è la risposta di queste variabili agli shock regionali o aggregati che possono colpire l'economia locale. In particolare gran parte della letteratura si concentra sul ruolo della flessibilità dei salari, visto che la domanda di lavoro (ovvero la capacità di creare posti di lavoro che si traduce nel tasso di crescita dell'occupazione) e gli shock relativi ad essa hanno avuto la parte principale nell'aumento della disoccupazione relativa nel Mezzogiorno. Si entra così nel campo delle rigidità del mercato del lavoro.

Hernanz e Pellizzari (2002) mostrano la non rispondenza del salario alle condizioni locali del mercato del lavoro, in particolare al tasso di disoccupazione, contravvenendo al fatto stilizzato individuato da Blanchflower e Oswald (1994): la relazione inversa tra salari e tassi di disoccupazione a livello regionale, osservata nella grande maggioranza dei paesi. In altre parole, il salario tende ad essere più basso, a parità di altre condizioni, nelle regioni con tassi di disoccupazione più alti; da qui emerge la consueta curva dei salari, inclinata negativamente, che mette in relazione salari e tassi di disoccupazione, una volta tenuto conto dell’effetto sui salari di altre variabili (età, sesso, esperienza, settore di appartenenza, ecc.).45

Come si vede dal grafico nella Figura 16, tratto dal lavoro empirico di Hernanz e Pellizzari, non vi è una curva dei salari, nonostante i punti sul grafico diano l’impressione di rappresentare una relazione negativa nello spazio w-u. Ma, una volta isolati gli effetti delle altre variabili con semplici tecniche econometriche, ciò che resta è una linea piatta, ovvero l’assenza di una relazione tra salari e disoccupazione a livello regionale.

45 Alti tassi di disoccupazione riducono il potere contrattuale dei lavoratori, in sede di determinazione del salario,

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Figura 16

Fonte: Hernanz e Pellizzari (2002).

Si assiste dunque ad un fenomeno di compressione salariale, imputato da molti autori all'asimmetria di fondo che caratterizzerebbe lo schema di determinazione dei salari in Italia. La contrattazione centralizzata sarebbe guidata perlopiù dalle rivendicazioni retributive dei lavoratori del Centro-Nord.46 Ad esempio Salituro e Scorcu affermano che “nel processo di

contrattazione centralizzata dei salari, il peso dei lavoratori delle regioni centrali e settentrionali è maggiore di quello dei lavoratori meridionali, ben oltre la diversa importanza delle due zone in termini di occupati”47. Ichino (2004a) afferma che “nei settori industriale e

terziario, i sindacati che stipulano il contratto nazionale unitariamente sono costituiti per oltre il 90 per cento da lavoratori regolari delle medie e grandi imprese del Centro-Nord e sono invece scarsamente rappresentativi dei lavoratori delle piccole imprese, degli irregolari e dei disoccupati del Sud”.

L’eccezione italiana emerge sia in relazione a paesi come il Regno Unito, dove la curva ha un’inclinazione negativa pari intorno a 0,08-0,09 e dove la presenza sindacale è più debole e la contrattazione più decentrata, ma anche in relazione ad altri paesi come la Germania, dove

46 Si veda il lavoro di Brunello et al.(2001), in particolare la Tabella 7, p.121. Si vedano anche Casavola et al.

(1995) e Manacorda e Petrongolo (1996,2006).

47 Cfr. Salituro e Scorcu (2001), p.139. Gli stessi autori ipotizzano che le condizioni del mercato del lavoro

prevalenti nelle regioni meridionali (occupazione e disoccupazione) non abbiano alcuna influenza nella determinazione dei salari fissati nel contratto nazionale. I salari “riflettono le sole condizioni del mercato del lavoro prevalenti nelle regioni centro-settentrionali”.

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