La questione meridionale attraversa la storia dell’Italia unita, dall’inizio ai giorni nostri. La denuncia iniziale viene fatta risalire alla pubblicazione delle Lettere meridionali nel 1875, da parte di Pasquale Villari. Attorno al problema cominciano a discutere vari intellettuali dell’epoca: Sonnino, Franchetti, Turiello, Fortunato e altri descrivono i termini del problema, l’arretratezza della parte meridionale del Paese, arretratezza economica, sociale, politica.
Il netto divario economico è un fenomeno, tuttavia, più recente, affermatosi prevalentemente nel secondo dopoguerra. Vengono qui tratteggiate alcune delle vicende storiche che hanno segnato gli ultimi cinquant’anni e, possibilmente, influenzato, la formazione del dualismo economico Nord-Sud. Ovviamente non tutti i problemi nascono nel secondo dopoguerra, bensì la gran parte di essi affonda le proprie radici nei decenni, se non nei secoli, passati165. Anche Viesti (2003) ipotizza che le cause della questione meridionale, il
problema Mezzogiorno, così come si presenta oggi, vadano ricercate soprattutto negli eventi della seconda metà del Novecento.166 Infatti, “il debole sviluppo del Mezzogiorno non è una
condanna perpetua”, ma, “al contrario, un fenomeno che ha stretti legami con l’evoluzione dell’Italia, specie nel dopoguerra”167.
Veniamo dunque alla seconda parte del secolo scorso, quando l’Italia, gravemente colpita, esce dal periodo bellico.
La riforma agraria avviata nel 1948 e destinata protrarsi fino agli anni ’60 pone fine al latifondo, come struttura giuridica di proprietà. Si dividono i latifondi e si assegnano appezzamenti di terra a contadini e braccianti. Quando i poderi sono sufficientemente grandi e fertili, si possono formare così piccole aziende coltivatrici, capaci di ricavare redditi
165 Si pensi solamente alla grande scelta di politica economica dell’Italia liberale, quella di puntare su uno
sviluppo dualistico del Paese unificato, puntando sul Nord per le attività industriali-manifatturiere e lasciando al Sud il ruolo di economia agricola e rurali. Per una rassegna completa si veda Bevilacqua (2005).
166 Cfr. Viesti (2003, pp.17-8). in particolare il saggio di Viesti individua tali ragioni principalmente nelle “forme
attraverso cui è avvenuta la regolazione politica, sociale ed economica sia nazionale sia locale”, senza negare, peraltro, il ruolo svolto dalle specificità dell’economia e della cultura meridionali. La spiegazione ‹‹antropologica›› è e deve essere rifiutata.
autosufficienti e di contribuire all’ammodernamento e allo sviluppo dei mezzi e delle terre. Vengono realizzate anche importanti opere di bonifica, ma l’effetto economico generale è abbastanza contenuto: la struttura di fondo dell’economia meridionale non cambia, e così il meccanismo di fondo del dualismo economico Nord-Sud. Si può dire, anzi, che il Meridione perda ulteriore terreno, di colpo, dato che si sblocca l’immobilismo economico-demografico imposto dal regime fascista. Le campagne meridionali perdono così rilievo e parte del proprio ruolo di principale area agricola del paese168.
Con gli anni la situazione nel settore agricolo andrà migliorando, grazie ad un’intesa opera di bonifica che reso disponibili circa 500.000 ettari di terra pianeggiante e fertile, alla definitiva affermazione della proprietà diretta coltivatrice, al conseguente abbandono dei patti consuetudinari (mezzadria e colonia parziaria), e al sostegno accordato dalla Cee all’agricoltura. In generale l’agricoltura meridionale dei primi decenni del dopoguerra è interessata da fenomeni importanti, collegati tra loro: forte meccanizzazione delle attività, eccezionali incrementi di produttività169, riduzione progressiva della manodopera impiegata e
conseguente svuotamento delle campagne (soprattutto dai territori montani delle aree interne). Ma gli errori principali vengono compiuti, fin da subito, sul versante industriale. Scrive Bevilacqua: “L’industria meridionale uscì gravemente danneggiata dal secondo conflitto mondiale e – in termini relativi – più estesamente di quella dell’Italia del Nord. Per di più, la politica di ricostruzione degli stabilimenti distrutti fu avviata tardi e assai lentamente. Essa era ancora in via di completamento quando l’apparato industriale del Nord era ormai tornato in piena efficienza. Negli anni immediati del dopoguerra, dunque, le regioni del Mezzogiorno, anche quelle tradizionalmente meglio attrezzate, non trovarono né nelle condizioni esistenti né nell’intervento dello stato gli stimoli e le spinte adeguati per una più decisa crescita economica.”170
In un contesto di impostazione di politica economica essenzialmente liberista, guidata da personalità come Einaudi, Pella, Menichella, Vanoni, La Malfa, i principi ispiratori sono quelli del laissez-faire, a maggior ragione dopo la fine dell’alleanza tra le sinistre e la Democrazia cristiana, l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo (maggio 1947) e l’avvio della lunga stagione del monopartitismo. Si arriva così alla stretta creditizia promossa
168 Importanti effetti si hanno, invece, sul piano sociale, con la creazione di una corposa schiera di piccoli
proprietari terrieri, finalmente responsabili del proprio “destino” economico e politico, protagonisti della scena politica al posto del ceto latifondista.
169 “Se nel 1951 per produrre un quintale di grano o di mais occorrevano trenta ore di lavoro, nel 1981 erano
ormai sufficienti circa trenta minuti”, cfr. Bevilacqua (2005, p.149).
da Einaudi, per fermare la crescita dei prezzi, in un contesto di generale liberalizzazione degli scambi interni e verso l’estero. Quando la congiuntura internazionale migliora e la domanda comincia a tirare, l’industria italiana, concentrata ancora nella parte nord-occidentale del Paese (triangolo industriale), si fa trovare pronta. Con l’avvio degli anni ’50 comincia così il periodo di forte crescita noto come boom o miracolo economico, una “seconda ondata di rivoluzione industriale”171. Il mercato europeo cresce e trascina le industrie del Nord Italia,
soprattutto nel settore metalmeccanico, tessile e elettrotecnico, ma non le imprese meridionali, che anzi, devono lasciare progressivamente il passo alle industrie del Nord anche per quanto riguarda la domanda interna. I limiti strutturali e i danneggiamenti subiti con la guerra rendono anche le tradizionali attività manifatturiere del Sud non competitive: molte piccole industrie chiudono, in quegli anni, così come molte attività artigianali e domestiche cessano.
Il processo di sviluppo dualistico sembra rinnovarsi, più grave che mai, e insieme ad esso, il dibattito intellettuale sulla questione meridionale172. Il rinnovato interesse per i problemi del
Sud, insieme ad una nuova tensione politica, sfociano in interventi molto importanti come la già citata riforma agraria, ma soprattutto nell’avvio dell’intervento straordinario.173 Nel 1950
viene istituita per legge la Cassa per il Mezzogiorno, un “organismo dotato di specifiche risorse finanziarie destinate ad intervenire – in aggiunta all’intervento ordinario dello stato – con politiche mirate sui diversi aspetti delle economie e delle strutture sociali dell’Italia meridionale”.174 È il punto di svolta più eloquente che segna il passaggio alla nuova fase
dell’interventismo pubblico, segnato dalla centralità dell’Iri (trasformato in ente permanente) e degli altri enti delle Partecipazioni statali. L’attività primaria della Cassa consiste nell’erogazione di credito agevolato alle imprese tramite istituti speciali di finanziamento, e nell’elaborazione di piani di riforma che poi provvedeva a realizzare sfruttando risorse e strumenti specifici. La prima fase, che va dal ‘50 al ’57, vede la Casmez concentrarsi su interventi volti a sviluppare l’agricoltura e, soprattutto, la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno. Energia, trasporti, dotazione idrica: sono questi i “prerequisiti” dello sviluppo moderno, ossia le condizioni materiali per dare successivamente avvio all’industrializzazione.
171 Cfr. ibid., p.139.
172 Nel 1946 nasce la Svimez, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, nel ’54 nasce “Nord e Sud”, una
rivista di ispirazione laica, e “Cronache meridionali”, di ispirazione socialcomunista.
173 La stagione del massiccio intervento pubblico in economia, perlopiù attraverso istituzioni speciali (come
l’IRI), era cominciata, a dire il vero, sotto il fascismo. Anche nel dopoguerra non cambia una delle caratteristiche principali della politica economica: forte interventismo ma scarsa capacità di regolare l’economia, caratterizzata da “estese barriere all’ingresso e dal prevalere di posizioni oligopolistiche e monopolistiche”. Le industrie del Nord rimangono il centro industriale del paese, e i primi destinatari di sussidi e crediti agevolati. Cfr. Viesti (2003, p.23).
Si avvia un programma coordinato di opere pubbliche, gestito da un gruppo di tecnocrati capaci. Si ricostruisce il Sud e si costruiscono nuove infrastrutture, per colmare il divario storico, si modernizza il territorio: sono interventi molto importanti, dalla indubbia efficacia economica e sociale, forse inevitabili. Ma al Nord le industrie crescono, conquistano mercati all’interno e all’estero, avvantaggiate “dai bassi salari e dalla loro dinamica molto più lenta rispetto alla crescita delle produttività”175: sono anni preziosi che vengono spesi senza
intervenire sul settore produttivo del Sud, senza ricostruire l’apparato industriale esistente, senza promuovere l’industrializzazione176. È forse questo il costo maggiore della strategia di
intervento adottata: nel 1957 si cambia strategia e si inaugura la fase della creazione di economie industriali, ma sono passati già dieci anni e si è persa l’occasione di sfruttare la fase più propulsiva del boom. Il divario di sviluppo inizia proprio in quegli anni la sua inarrestabile ascesa, a ritmi sconosciuti.
Si mette a punto un sistema di consistenti incentivi finanziari e si autorizza la costituzione di consorzi fra enti locali, per creare e gestire, grazie al sussidio e all’assistenza finanziaria della Cassa, aree di sviluppo industriali o più ristretti nuclei di sviluppo. Inoltre sono stabilite regole specifiche per incentivare la produzione al Sud:
• la pubblica amministrazione deve riservare il 30% delle proprie forniture alle imprese meridionali;
• nelle regioni meridionali devono essere localizzati il 40% degli investimenti pubblici;
• il 60% dei nuovi impianti avviati dalle imprese a partecipazione statale deve essere ubicato nel Mezzogiorno.
Si concentrano gli sforzi e gli investimenti in poche, delimitate, aree; gli interventi maggiori vengono compiuti dalle Partecipazioni statali (IRI, ENI, EFIM) e dalle grandi industrie private del Nord (e, talvolta, estere), attratte dai consistenti incentivi pubblici agli investimenti e “dall’esistenza, ancora negli anni Sessanta, di condizioni salariali che (per quanto superiori a quelle delle imprese locali) sono ben inferiori a quelle medie europee”177.
Nascono enormi complessi industriali in zone delimitate, generalmente a ciclo continuo: stabilimenti siderurgici, meccanici, chimici, petrolchimici, raffinerie.178 Il processo di
175 Cfr. Viesti (2003, p.24).
176 Il settore manifatturiero rappresenta alla fine degli anni cinquanta il 13% del totale dell’economia, appena più
di un terzo del peso dello stesso sull’economia del Nord, “le produzioni meridionali sono ancora principalmente basate su attività artigianali (…) o di piccolissime imprese (…) orientate alla domanda locale”. Cfr. ibid., p.24.
177 Cfr. Viesti (2003, p.30).
178 Nel 1963 gli investimenti rappresentano il 30% circa del Pil meridionale. Cfr. ibid., p.25. Scrive Viesti: “tutto
lo sforzo nel Sud scaturisce da due convinzioni:che l’industrializzazione, tramite imprese ‹‹fordiste›› (grandi produzioni standardizzate), sia sinonimo di sviluppo economico e che lo sviluppo economico sia sinonimo di
industrializzazione pianificata polarizzata crea differenze all’interno dello stesso Mezzogiorno, concentrandosi in regioni come la Campania, la Sicilia, la Puglia e la Sardegna e lasciando da parte le altre regioni. La regione che trae maggiore vantaggi in questa fase è senza dubbio la Campania dove ingenti capitali pubblici (Iri), privati nazionali (Montedison, Olivetti, Pirelli) ed esteri (soprattutto americani) crearono un contesto di pronunciata industrializzazione, soprattutto nelle province di Napoli, Caserta e Salerno, sfruttando, d’altronde, una vocazione manifatturiera che aveva reso la Campania la regione meridionale certamente più avanzata.
Cifre ingenti si riversano nell’intervento straordinario per industrializzare il Sud179. Ma i
giudizi sull’efficacia e l’efficienza di questi sforzi sono ambigui.180 I risultati sono stati, in
generale, inferiori alle aspettative, anche se, senza dubbio, molte aree del Mezzogiorno hanno visto l’insediamento di grandi e moderne attività industriali, laddove c’era solo agricoltura e artigianato, e lo sviluppo correlato dei servizi alle imprese, come le attività bancarie. Il problema maggiore di questa strategia è stato, tuttavia, il non riuscire a creare, tranne che in pochi casi, un indotto di piccole e medie imprese intorno ai giganteschi stabilimenti industriali, calati dall’alto come cattedrali nel deserto. “Si era infatti immaginato, concentrando massicci investimenti in alcune aree strategiche, di trascinare, tramite un meccanismo più o meno spontaneo di “contagio”, altre economie e territori in un processo generale di sviluppo. E questo, certamente, non è avvenuto, quanto meno nelle dimensioni auspicate. Nella maggioranza dei casi, infatti, le grandi imprese insediatesi nelle varie regioni meridionali costituivano emanazioni di grandi gruppi nazionali che conservavano (come conservano spesso tuttora) i propri centri operativi nelle aree del Centro-Nord. E quindi spesso esterno e forestiero era il personale dirigente e tecnico, subordinato a scelte produttive che avevano ovviamente come punto di riferimento la casa-madre. Accadeva così in tanti casi – come, ad esempio, in quello dell’Italsider di Taranto, il cui acciaio grezzo veniva riesportato perle successive lavorazioni a Cornigliano (Genova) – che la produzione industriale meridionale non venisse continuata orizzontalmente in loco, ma si inserisse nel ciclo verticale
sviluppo civile, sociale, culturale”, p.31.
179 La politica industriale dell’intervento straordinario avrebbe speso ben 9.000 miliardi di lire (al valore del
1970) dal 1957 al 1975. Cfr Bevilacqua (2005, p. 144). I risultati ottenuti dal ’60 al ’75 sono comunque lusinghieri, in termini numerici: venticinque aree di sviluppo industriale e diciotto nuclei di sviluppo industriale creati, 194.000 nuovi posti di lavoro nelle imprese industriali con più di venti dipendenti, su un totale iniziale di 240.000, contro i 148.000 e i 156.000 creati rispettivamente nell’Italia settentrionale e nell’Italia centrale.
180 Un giudizio complessivo non può tacere sui numerosi e indubbi effetti negativi, diretti e indiretti, del processo
di industrializzazione del Mezzogiorno. Per una panoramica sulle “fratture dell’industrializzazione”, si veda Viesti (2003, pp.30-3).
della casa-madre e quindi si diffondesse nelle economie del Centro-Nord.”181 Si sono create le
industrie, ma non si è pensato di promuovere tramite esse, attraverso l’esternalizzazione e la subfornitura, l’insediamento di molte altre piccole-medie attività, impedendo il classico fenomeno dell’indotto. O meglio, tutti i documenti programmatori dell’epoca contenevano queste intenzioni, ma la scelta stessa di localizzare in aree agricole grandi stabilimenti indipendenti, a ciclo continuo e a tecnologia complessa, non poteva indurre lo sviluppo di attività circostanti fornitrici di beni e servizi. Dovevano essere i motori dello sviluppo per interi territori, ma sono rimaste cattedrali nel deserto.182 Non solo: probabilmente la presenza
di queste megastrutture ha distrutto realtà produttive locali (botteghe artigiane e piccolissime imprese), assorbendo interamente la manodopera specializzata presente, grazie ai maggiori salari e alle migliori condizioni lavorative offerte. Secondo Viesti, la scelta programmatoria è stata, col senno di poi, infelice. Si è deciso allora di puntare prevalentemente su quelle che erano considerate le industrie moderne, strumentali agli interessi economici dell’Italia in pieno boom, del suo modello industriale, dunque dell’economia del Centro-Nord: “produzioni su larga scala di beni intermedi, […], necessari alle industrie utilizzatrici al Nord, vale a dire acciaio per le automobili e gli elettrodomestici, chimica di base per tutte le trasformazioni successive, petrolio raffinato per la motorizzazione”183. È una strategia perseguita, in modi
analoghi, negli stessi anni, in altri paesi come India, Brasile e i paesi dell’area del socialismo reale: sostituzione delle importazioni, “volta alla creazione di capacità produttiva nazionale”184. I problemi che non tarderanno a crearsi sono già scritti tra le righe dello
schema: le produzioni impiantate al Sud sono poco orientate all’esportazione (beneficeranno poco del boom di esportazioni che ha trainato lo sviluppo italiano a partire dagli anni ’60, come succederà invece per le attività della terza Italia, come vedremo) e hanno un grande fabbisogno energetico (le crisi petrolifere degli anni ’70 le penalizzerà maggiormente).
Ad ogni modo, seguendo ancora Bevilacqua: “A macchia di leopardo, su un territorio sempre più differenziato, al suo interno, si venivano diffondendo nuove realtà dinamiche, anche se in buona parte dipendenti da centri di comando esterni.”185
Sul fronte demografico, i primi decenni del dopoguerra sono la stagione del grande
esodo186. Milioni di persone, spesso giovani, lasciano le campagne più povere, per cercare
lavoro, ma sono anche molti esponenti della piccola borghesia impiegatizia e professionale ad
181 Cfr. Bevilacqua (2005, pp.144-5). 182 Cfr.Viesti (2003, p.28).
183 Cfr. ibid., p.27. 184 Cfr. ibid., p.27
emigrare, in cerca di standard di vita più elevati. Le destinazioni sono le tradizionali mete oltreoceano, i paesi più ricchi della Cee (dopo il 1957) e le città del Nord-Ovest italiano, il
triangolo industriale187. In parte l’emigrazione dalle zone interne più povere si dirige verso le
campagne e le città litoranee, spesso impreparate dal punto di vista urbanistico188. Del grande
esodo si possono dare molti giudizi: certamente è stato uno dei “motori” del miracolo
economico, spostando braccia dalle terre meridionali, dove il lavoro era poco e poco
produttivo (ed elevando di conseguenza la produttività e la ricchezza pro capite meridionale, anche grazie alle rimesse), alle città del Nord, dove industrie moderne e molto produttive lavoravano a pieno ritmo per i mercati nazionali ed esteri. La richiesta di manodopera industriale non specializzata è stata così soddisfatta al Nord; l’afflusso di immigrati ha contribuito inoltre a mantenere bassa la pressione salariale, garantendo alle industrie settentrionali lauti profitti e possibilità di crescita. L’espansione delle grandi industrie del Nord avrebbe poi favorito l’industrializzazione di molte are meridionali, con tutti i problemi e gli errori, di cui, in parte, è stato già detto. Quindi, direttamente o indirettamente, l’esodo è stato un grande successo economico, almeno nel breve periodo, e almeno per il Nord del Paese. Con altrettanta certezza si può dire che ha rappresentato un autentico disastro sociale per il Sud, mentre non si sa il bilancio definitivo dal punto di vista strettamente economico. Di certo, “le migliori energie di lavoro, gli spiriti più intraprendenti, le intelligenze più inquiete privarono le regioni del Mezzogiorno di tanta parte delle proprie energie vitali”189. Ad
esempio, lo stesso fenomeno non si è verificato nelle zone rurali del Centro, che assisteranno a partire dagli anni ’70 ad uno sviluppo assai vivace.
In questo contesto, non si deve dimenticare che l’Italia sta vivendo un periodo straordinario sotto il profilo economico, e il Sud, al pari del Nord, riesce a raggiungere risultati eccezionali. È un periodo di crescita ininterrotta, per tutto il paese, a parte la ‹‹battuta
186 “Si calcola che fra il 1946 e il 1976 ben quattro milioni di persone abbiano lasciato il Mezzogiorno”, cfr.
ibidem, p.152. “Secondo i dati del censimento nazionale del 1971 circa il 17% della popolazione residente
nell’Italia centro-settentrionale risultava nato al Sud.”, cfr. ibid., p.153.
187 A Torino arrivano, nel solo anno 1961, ben 60.000immigrati dal Sud.
188 Sono tutti i centri medio-grandi a crescere, ma emblematico è il caso di Napoli, che conferma, con questa
nuova ondata di immigrazione dalle campagne, il suo ruolo di “gigante urbano” del Sud, con i 3.600.000 abitanti dell’area metropolitana al cui centro si trova, seconda in Italia dopo l’area milanese. D’altra parte, “alla data del 1971 la popolazione dell’area metropolitana di Napoli rappresentava oltre il 20% dell’intera popolazione meridionale, concentrando al suo interno più di un quarto di tutto il commercio all’ingrosso, delle attività di trasporto, di comunicazione, di credito e assicurazioni di tutto il Mezzogiorno.”, cfr. ibid., p.155.
189 Cfr. ibid., p.153. Come ha scritto Rossi-Doria: “Applicando agli emigrati i metodi di calcolo usati nella stima
degli animali da lavoro, ogni uomo è costato a chi lo ha allevato, e quindi alle regioni meridionali, da cinque a otto milioni di lire. Il capitale ceduto, pertanto, può essere valutato tra i venti e i trentamila miliardi di lire, equivalenti al doppio di quanto lo stato ha speso nel Mezzogiorno dal 1950 in poi.”, in Scritti sul Mezzogiorno, p.170.
di arresto›› del ‘64.190 Il divario dal Nord, in termini di Pil pro capite rimane pressoché
costante, intorno al 65%: ciò significa che il Mezzogiorno non riesce ad accorciare le distanze economiche dal Centro-Nord, ma significa altresì che il prodotto meridionale cresce agli stessi ritmi, altissimi, di quello centro-settentrionale, diventando in pochi decenni uno dei più alti del mondo, ampiamente sopra la media europea. La trasformazione economica che rende il Paese uno dei più industrializzati al mondo si verifica anche nel Mezzogiorno. Così la quota del reddito totale meridionale prodotta dall’agricoltura passa dal 34% del ’51 al 14 % del 1976, la quota dell’industria passa dal 24% al 29%, la quota del terziario dal 42 al 57%. “Sono diminuiti dunque vistosamente i lavoratori della terra, mentre sono cresciuti di numero, di peso sociale, di potere d’acquisto e di benessere economico gli operai e i tecnici dell’industria, ma soprattutto gli impiegati e i funzionari, che costituiscono ancora oggi il settore prevalente (e non sempre moderno) della realtà meridionale.”191 I consumi pro capite
aumentano in questi venticinque anni di 2,8 volte (contro l’aumento di 2,5 volte al Nord).192
190 Dopo lo slittamento salariale tra il ’62 e il ’61 (anno in cui, peraltro, l’Italia registra la più alta produttività