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2. I nessi causal

2.2 Le ipotesi esplicative

Negli anni novanta, le tendenze in atto nella congiuntura (rallentamento della crescita, risanamento dei conti pubblici a seguito della crisi finanziaria del ’92 e in vista dell’adesione all’Unione monetaria) e nella teoria economica (crisi del keynesismo e prevalenza di una visione di politica economica più vicina al monetarismo) hanno portato alla fine dell’intervento straordinario e alla “affermazione del modello liberista dello sviluppo regionale”54. I problemi economici del Mezzogiorno vengono ricondotti ai vincoli e alle

rigidità che colpiscono i mercati dei fattori produttivi, impedendone il corretto funzionamento e una efficiente riallocazione tra le varie aree del paese.

I principali responsabili della persistenza dei tassi di disoccupazione regionali (in Italia e in Spagna) sono, in Jimeno e Bentolila (1998), la rigidità salariale e gli scarsi flussi migratori. Il ruolo fondamentale è svolto dai salari: un incremento della flessibilità salariale condurrebbe ad una minore persistenza della disoccupazione. “Since there are reasons to believe that wage flexibility is higher at the national level than at the regional level, regional relative unemployment would tend to be more persistent than aggregate unemployment. However, even if wages are rigid, as long as interregional migration is very elastic (as in the US) or regional labor force participation is highly cyclical (as in the EU), the persistence of regional relative unemployment will be low”.55 Evidentemente in Italia (e in Spagna) anche il canale

della partecipazione non ha funzionato a sufficienza. I due autori (seguendo l’approccio di Blanchard e Katz (1992)) affrontano il problema della persistenza dei divari regionali di disoccupazione in termini squisitamente neoclassici: le forze che determinano i tassi di

54 Cfr. Caroleo e Garofalo (2005, p.68). 55 Cfr. Jimeno e Bentolila (1998, p.26).

disoccupazione regionali sono la flessibilità dei salari, i flussi migratori e i tassi di partecipazione della forza lavoro. Trovano che in Spagna l’alta persistenza dei tassi di disoccupazione relativi risulta dalle basse elasticità dei flussi migratori e delle scelte di partecipazione alla forza lavoro rispetto ai salari e alla disoccupazione, nonché dalla alta rigidità dei salari reali regionali, a sua volta determinata dall’effetto predominante del salario nazionale contrattato dal sindacato a livello centrale. Secondo loro i risultati trovati valgono anche per l’Italia, che presenta lo stesso mix di bassa elasticità dei flussi migratori alle variabili economiche, alta rigidità salariale regionale e alta persistenza dei tassi di disoccupazione regionali relativi.56

Brunello et al. (2001) sostengono che:

● l’aumento sensibile della quota salari sul Pil, che si è verificato nel Mezzogiorno

durante gli anni settanta, in seguito all’eliminazione alla fine del decennio precedente dei rigidi differenziali salariali istituzionali noti come gabbie salariali, ha avuto un ruolo fondamentale nell'ampliamento dei differenziali regionali di disoccupazione;

● i differenziali Nord-Sud nel tasso di disoccupazione sono aumentati dalla metà degli

anni ottanta in poi, rispondendo in modo asimmetrico sia all’aumento dei trasferimenti sociali pubblici che alla riduzione del prezzo reale delle materie prime e dell’energia. Utilizzando l'approccio di Blanchard e Katz (1992), Brunello et al. cercano di capire su basi empiriche se l'allargamento dei divari interregionali di disoccupazione verificatosi in Italia è dovuto al fatto che gli shock specifici regionali sono più importanti degli shock comuni aggregati oppure al fatto che i mercati del lavoro regionali rispondono in modo asimmetrico agli shock comuni aggregati. Stimano per ogni regione, dal 1965 al 1994, quanta della variabilità del tasso di disoccupazione regionale è spiegata dalla variabilità del tasso di disoccupazione nazionale, ovvero quanto i mercati del lavoro regionali rispondono agli shock aggregati comuni.57 L'R2 è significativamente più basso per le regioni meridionali: ciò

56 Interessanti sono le opzioni di policy suggerite da Jimeno e Bentolila sulla base della scarsa reattività della

partecipazione alla forza lavoro e de flussi migratori ai salari regionali: dati i risultati delle stime “it is unlikely that lower regional relative unemployment persistence could be achieved only by taking measures to increase wage flexibility”, p.46. Se si vuole una convergenza dei tassi di disoccupazione regionali occorre dunque implementare al contempo politiche che accrescano l’elasticità dell’offerta di lavoro (migrazione e partecipazione) ai salari e politiche che aumentino la flessibilità dei salari regionali rispetto alla disoccupazione regionale. 57 L'equazione stimata è  ln Ni t=i

j=0 1 i j ln  Ni t− jit ,

suggerisce che “idiosyncratic shocks are relatively more important in southern regions”58.

L'evoluzione dei tassi di disoccupazione regionali viene analizzata empiricamente con l'approccio VAR. La ricerca di relazioni di cointegrazione interessa alcune variabili utilizzate per approssimare le forze della domanda e dell'offerta di lavoro che potrebbero influenzare i mercati regionali:

● dal lato della domanda, le variabili utilizzate sono l'entità del cuneo fiscale sul lavoro e

il prezzo in termini reali delle materie prime.59

● dal lato dell'offerta, si considera l'effetto di variazioni nel livello dei trasferimenti

pubblici pro capite.60

I risultati dicono che le variabili considerate hanno avuto un effetto sui tassi di disoccupazione regionali, e in modo perlopiù asimmetrico tra Centro-Nord e Sud. Più dettagliatamente, i trasferimenti sociali pro capite in termini reali sono associati positivamente ai tassi di disoccupazione nelle regioni meridionali e negativamente nelle regioni del Centro-Nord. L'inverso accade per il prezzo reale delle materie prime importate. Il carico fiscale sul lavoro è associato positivamente ai tassi di disoccupazione regionali, ma in misura maggiore nel Centro-Nord.

Per quanto riguarda la relazione tra la dinamica salariale e i tassi di disoccupazione regionali, Brunello et al. accettano la tesi per cui, almeno in parte, l'aumento dei differenziali Nord-Sud negli anni ottanta dipende dalla risposta «tecnologica» del mondo produttivo al

wage push degli anni settanta: il capitale sostituisce il lavoro nelle tecnologie già esistenti e

dove i indica la regione, t il tempo, Nit la disoccupazione regionale nel settore privato, iNt la disoccupazione

aggregata (con l'esclusione della regione i).

58 Cfr. Brunello et al.(2001, p.112).

59 Un aumento di queste variabili dovrebbe far aumentare il costo del lavoro e di produzione, riducendo dunque

la domanda di lavoro. L'aumento del prezzo delle materie prime potrebbe inoltre indurre variazioni della domanda di lavoro alterando la competitività regionale in base alla struttura produttiva. Si pensi allo shock petrolifero e alla maggiore portata degli effetti che avrebbe avuto, sull'economia meridionale, data la maggiore presenza nel Mezzogiorno, in proporzione, di grandi stabilimenti produttivi ad alta intensità energetica.

60 Vari contributi in letteratura sostengono che il massiccio intervento pubblico a sostegno dei redditi delle

famiglie meridionali è tra le cause dell'alta persistenza dei tassi di disoccupazione nelle regioni del Sud. I trasferimenti pubblici avrebbero influenzato l'offerta di lavoro, inibendo i meccanismi di riequilibrio propri del mercato. In particolare avrebbero ridotto i flussi migratori in uscita, ridotto la partecipazione alla forza lavoro, sostenuto il salario di riserva verso l'alto e aumentato la quota di disoccupazione di lungo termine (e la wait

unemployment) soprattutto tra i giovani. Gli stessi trasferimenti sociali possono influenzare anche la domanda di

lavoro se la capacità produttiva di beni e servizi è distribuita in modo disomogeneo tra le regioni: secondo un'interpretazione diffusa la spesa sociale nel Mezzogiorno si sarebbe trasformata nel momento del consumo in un aiuto indiretto alle industrie del Centro-Nord, dove si concentra la produzione, offrendo scarso supporto alla domanda di lavoro nel Sud e aumentando il carattere dipendente della sua economia.

nuove tecnologie a maggiore intensità di capitale vengono adottate per reagire all'aumento della labor share.61

L'ipotesi delle rigidità salariale è ripresa in Carmeci e Mauro (2002). Essi parlano del

wage push come di un permanent institutional shock. L’arresto del processo di σ-convergenza

alla fine degli anni’60-inizio anni ’70 smentirebbe, almeno sul piano cronologico, l’impianto ipotetico alternativo, ovvero lo scenario che vede nel primo shock petrolifero (1973) e nel

productivity slowdown la causa primaria dell’arresto e della conseguente persistenza del

ritardo delle regioni del Mezzogiorno62. In seguito l’andamento dei differenziali salariali

regionali non ha più seguito l’andamento dei differenziali di produttività, determinando situazioni di persistente disequilibrio nel mercato del lavoro delle regioni meridionali. Quando l’economia del Centro-Nord è uscita dalla crisi innescata dagli shock petroliferi degli anni settanta, la dispersione dei tassi di disoccupazione regionale ha cominciato a crescere senza sosta. La ragione risiede appunto nella diversa capacità dei mercati del lavoro delle regioni meridionali di rispondere a shock asimmetrici rispetto ai mercati del lavoro del Centro-Nord, dal punto di vista della risposta salariale e della conseguente risposta del tasso di disoccupazione. In accordo con il lavoro di Brunello et al., Carmeci e Mauro sostengono che il dualismo Nord-Sud nel mercato del lavoro abbia seguito un processo di lungo periodo, e

61 Questa è l'ottima spiegazione fornita da Brunello et al. (2001, p.119): “The labor share in the South increased

relatively to the national average during most of the 1970s and started to decrease in the early 1980s. The increase in the 1970s was the result of the rapid growth of relative to the North wages, which was not compensated by relative labor productivity growth. As discussed in detail by Faini 1993, an important event that hit specifically the South at the end of the 1960s was the elimination of institutional rules allowing for the existence of regional wage differentials in union contracts gabbie salariali . Following this event, only partially compensated by specific payroll tax breaks fiscalizzazione degli oneri sociali e sgravi contributivi ,relative labor costs surged in the South and the labor share increased. As unemployment started to increase, the share partially declined. The rapid increase of the capital stock in the South during this period was induced not only by the increase in labor costs, but also by political reasons. Therefore, the productivity of newly installed capital in the South was generally lower than in the North–Central regions and, while regional productivity converged at a nationwide level, productivity differentials remained important, and even increased, between the North–Center and the South. The arguments above do not explain why regional unemployment differentials persist. From a theoretical standpoint, differences in regional unemployment can increase and persist when local wages are not sensitive to local economic conditions. This is the case when wage setting is relatively centralized and wage determination is influenced mainly by the economic conditions prevailing in the leading economic areas of the economy. When a negative shock increases . unemployment in a backward region the South , wages are not significantly affected and higher unemployment can persist in the absence of other adjustment factors. When the same shock hits the leading region the North–Center , however, wages are negatively affected and the decline in wage growth can contribute to reduce unemployment. When regions characterized by economic asymmetries are politically integrated, as in Germany and in Italy, national wage formation can be dominated by the economic interests of the leading region. In this case, the failure of regional wages to respond to regional local conditions in some areas of the country can exacerbate unemployment differentials by eliminating an important adjustment mechanism.”

non dipenda da una serie di shock idiosincratici; inoltre la divergenza dei mercati del lavoro regionali dipenda dall’aumento delle rigidità salariali verificatosi a fine anni sessanta (Autunno caldo e abolizione delle gabbie salariali), che rappresenta uno shock istituzionale di natura permanente.63 L’andamento della σ-convergenza conferma questa impostazione, ma

con qualche forzatura.64

Secondo Faini (1996) e Sestito (1996) i problemi occupazionali del Mezzogiorno dovrebbero essere risolti immettendo maggiore flessibilità e decentramento nella struttura della contrattazione. Infatti il nostro paese è caratterizzato da una contrattazione centralizzata, “in presenza di un sindacato monopolista che determina un salario unico per il Nord e per il Sud”: questo sistema “non sembra essere in grado di favorire la diffusione di shock positivi che si originano nelle regioni più avanzate verso le altre regioni, dal momento che induce aumenti salariali non giustificati in queste ultime”. Occorre dunque flessibilizzare la contrattazione, in modo che le retribuzioni si adattino alle condizioni territoriali del mercato del lavoro, com’era già nel regime pre-69 con le gabbie salariali, o come sarebbe in un nuovo sistema di contrattazione regionale vera e propria (che darebbe risultati migliori rispetto alle gabbie salariali): shock positivi di domanda provenienti dalle regioni settentrionali si diffonderebbero anche al Sud, dove si avrebbero aumenti salariali più moderati, e dunque aumenti dell’occupazione, in un’ottica neoclassica. Gli strumenti analitici utilizzati sono propri dell’economia internazionale, e tramite essi è possibile dimostrare come “l’equilibrio nella distribuzione territoriale di attività produttive di beni facilmente trasferibili nello spazio sia realizzato compensando le differenze di produttività esistenti tra paesi diversi mediante differenze nei prezzi dei fattori produttivi non facilmente trasferibili, e in particolare del lavoro.” Solo un costo del lavoro più basso potrebbe rendere più competitive le attività produttive locali, attirando imprese e investimenti esterni e solo un prezzo relativo del fattore lavoro più basso potrebbe favorire un impiego maggiore di tale fattore a parità di output.

63 Cfr. ibid., p.514.

64 Sulla base della Figura 2, p.515, riportata in questo lavoro (Figura 8) emergono dubbi sulle affermazioni dei

due autori, in linea del resto con le Figure nel Paragrafo 1.1 in questa tesi (v. ad esempio Figura 5), come già accennato nel Paragrafo 1.2. L’aumento della dispersione nei tassi di disoccupazione regionali, assoluti e relativi, comincia un po’ prima della fine degli anni sessanta, intorno alla metà del decennio. L’ipotesi avanzata da Carmeci e Mauro, e sostenuta da molti altri, ha in questo timing del primo break un grosso limite. Inoltre le condizioni istituzionali del mercato del lavoro non subiscono nei decenni successivi (prima del 1993) importanti trasformazioni, mentre la dispersione nei tassi di disoccupazione relativi registra oscillazioni molto forti a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Quindi, almeno dal punto di vista cronologico, un nesso causale diretto tra gli eventi alla fine degli anni sessanta e l'inizio del processo di divergenza nei tassi di disoccupazione regionali non emerge chiaramente.

Spieghiamo meglio questa ipotesi, seguendo Faini (1996). Nel modello neoclassico, la mobilità dei fattori porta le loro remunerazioni a convergere. Se i fattori non sono mobili, tale convergenza non si ha: in particolare, se il fattore lavoro non è mobile sono le condizioni locali (produttività, struttura dell’offerta di lavoro ed altri fattori specifici) del mercato del lavoro a determinare i salari regionali. Persistenti disparità in tali fattori conducono a differenze persistenti tra le diverse regioni nei livelli salariali di equilibrio. Se, come in Italia, i salari tendono a convergere, e il fattore lavoro non è mobile, saranno i tassi di disoccupazione a divergere, se, come è successo, i livelli di produttività non hanno subito un analogo processo di convergenza.

Nel lavoro di Faini emerge chiaramente la responsabilità, almeno parziale, del processo di convergenza salariale sulla concentrazione della disoccupazione nelle regioni meridionali. Di conseguenza, la strategia di policy da seguire per ridurre i differenziali interregionali di disoccupazione consiste nel perseguimento di una maggiore differenziazione salariale tra Nord e Sud. La netta sincronia, pur non perfetta, tra gli andamenti del costo del lavoro e della disoccupazione dagli anni ’60 in poi costituirebbe “l’elemento di prova forse più significativo a favore di tale tesi”: “si sono progressivamente ridotte le differenze nel costo del lavoro fra Nord e Sud”, mentre “è cresciuto enormemente il divario dei tassi di disoccupazione”. I fattori concorrenti alla determinazione dei divari di disoccupazione Nord-Sud sono, secondo Faini:

● fattori demografici (l’offerta di lavoro aumenta in misura proporzionalmente maggiore

al Sud, per effetto della maggiore crescita demografica, ridotti flussi di emigrazione e dei flussi di ritorno degli emigrati nei paesi nordeuropei);

● politiche regionali;

● investimenti pubblici, principalmente attraverso le Partecipazioni statali (il massimo

sforzo pubblico è il motivo della sostanziale stabilità del divario di disoccupazione nei primi anni ’70, pur in presenza di costi relativi del lavoro meridionale progressivamente crescenti);

● shock petroliferi (colpiscono in misura maggiore l’economia meridionale, nella quale

le grandi industrie ad alta intensità di capitale e di utilizzo di energia (Partecipazioni statali ma anche industrie private) hanno peso relativamente maggiore).65

65 Un set analogo di determinanti è individuato da Padoa-Schioppa (1999): oltre alle rigidità istituzionali, che

rappresentano il fattore principale per determinare gli squilibri regionali, hanno agito gli shock aggregati sulla domanda di lavoro, collegati agli shock petroliferi e alla caduta del rapporto investimenti/Pil, e le politiche di risanamento fiscale e di contenimento dell'inflazione degli anni ottanta-novanta.

L’economia meridionale non regge l’urto complessivo di questi shock: come abbiamo già visto nel capitolo precedente, il divario prende a crescere fortemente dall’'84 in poi, quando l’economia europea riprende a crescere, e il Centro-Nord con essa, mentre il Mezzogiorno non vive questa ripresa e la sua disoccupazione non smette di aumentare, nonostante i salari relativi rimangano pressoché costanti. Questa dinamica si interrompe solo dieci anni dopo, quando l’economia italiana va in recessione: il Centro-Nord rallenta e il divario di disoccupazione Nord-Sud si arresta.

L'andamento della disoccupazione si collega ad altri fatti stilizzati:

● la produttività relativa fra Centro-Nord e Mezzogiorno non ha subito un processo di

convergenza analogo alla convergenza salariale: nonostante forti oscillazioni, il divario Sud-Nord nel livello di produttività del settore industriale non riesce mai a compensare la compressione del divario nei salari. La competitività di costo delle attività industriali meridionali risulta dunque ridotta, nei tre decenni presi in considerazione (’63-’92): il CLUP è aumentato più rapidamente al Sud che al Nord.66 Analisi con microdati a livello di impresa confermano la persistenza dei

divari di produttività, anche a parità di settore e di dimensione d’impresa.67

● le migrazioni nette dal Mezzogiorno sono via via calate, sia verso l’estero che verso

le regioni del Centro-Nord.68

In generale le considerazioni teoriche ed empiriche avanzate da Faini accettano la tesi per cui l'abolizione delle gabbie salariali a fine anni sessanta ha avuto effetti negativi sull'occupazione nel Mezzogiorno provocando “un aumento cospicuo del costo del lavoro in

66 È un fatto paradossale: gli investimenti produttivi ad alta intensità del capitale e l’aumento dei salari relativi

avrebbero dovuto tradursi, nel Mezzogiorno, in una maggiore produttività del lavoro.

67 Cfr. Galli e Onado (1990).

68 Anche questo è un risultato paradossale, nonostante la costante riduzione dei differenziali salariali. I flussi

migratori rispondono, solitamente, in misura maggiore ai differenziali di disoccupazione, e questi sono andati crescendo. Secondo Attanasio e Padoa Schioppa (1991), in, la politica di trasferimenti di reddito alle famiglie meridionali, avrebbe contribuito a ridurre i flussi migratori in uscita, permettendo alle famiglie di sostenere periodi di disoccupazione di alcuni componenti (principalmente i giovani), anche a lungo. In questo schema, si dovrebbero tagliare drasticamente tali trasferimenti per incentivare la mobilità dei lavoratori meridionali, in modo da diminuire la disoccupazione al Sud, anche indirettamente (un aumento di offerta di lavoro al Nord comporterebbe una riduzione salariale che, dato il carattere centralistico della contrattazione, si estenderebbe anche al Sud, rendendo più competitive le produzioni meridionali). Studi più recenti (a partire da Faini et al. (1997)) smentirebbero questo schema, evidenziando che sono i giovani delle famiglie più ‹‹abbienti›› (quelle con più percettori di reddito e/o meno disoccupati) i principali ‹‹emigranti››, probabilmente a causa degli alti costi della mobilità. Come emerge anche in Faini et al. (1997), questo succede quando i costi della scelta migratoria superano i costi necessari a finanziare lunghi periodi di disoccupazione nella regione di origine. In questo schema alternativo, un incentivo alla migrazione proverrebbe da politiche di riduzione dei costi del trasferimento (legati all’abitazione ed alla scarsa efficacia dei centri per l’impiego).

tale regione” e ha legato la dinamica salariale nel Sud alla dinamica salariale nel Centro-Nord, riducendo in questo modo “la capacità dell'economia meridionale di rispondere agli shock che hanno colpito in maniera spesso differenziata le varie regioni d'Italia”.69 Parallelamente queste

conclusioni supportano l'esigenza di “ricreare un significativo differenziale nel costo del lavoro e nelle retribuzioni fra Mezzogiorno e Centro-Nord” introducendo maggiore flessibilità nella dinamica salariale meridionale, in particolare optando per un sistema di contrattazione regionale. Contemporaneamente deve essere creato un sistema di “incentivi adeguati alla