In questa sezione si offre una descrizione più approfondita delle caratteristiche istituzionali del sistema di wage setting nel nostro Paese, al centro di un cospicuo dibattito negli ultimi anni in vista di una revisione del sistema di relazioni industriali che tenga conto delle differenti performance dei mercati del lavoro a livello regionale. Abbiamo visto nelle sezioni precedenti l’importanza accordata in sede di analisi alla dinamica salariale e al regime di contrattazione vigente come concause del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, e in particolare dell’eccessivo divario Nord-Sud rispetto al tasso di disoccupazione.232
In Italia vige un sistema di contrattazione salariale centralizzato. I lavoratori sindacalizzati eleggono i loro delegati regionali, che, a loro volta, scelgono i leader nazionali di categoria e dell’intera organizzazione sindacale in un congresso nazionale. I contratti vengono stipulati dai leader delle organizzazioni sindacali e dai leader delle organizzazioni in cui si riuniscono le aziende. Una volta approvati dalla base elettorale sindacale, i nuovi contratti hanno efficacia erga omnes, ovvero si applicano a tutti i lavoratori e a tutte le industrie, sindacalizzati o meno. La supremazia del contratto collettivo deriva dall’interpretazione di due norme costituzionali, quelle contenute all’art.39 e all’art.36. Secondo la prima il contratto nazionale acquista efficacia erga omnes se viene stipulato da una rappresentanza sindacale unitaria, ma la norma non è stata attuata e la rappresentanza unitaria non è mai stata istituita. A conferire al contratto efficacia universale ha provveduto la giurisprudenza, “facendo prevalere sull’articolo 39 della Costituzione il 36”233, quello che attribuisce ai lavoratori il
diritto alla giusta retribuzione. Per individuarla il giudice “fa riferimento al contratto
popolazione del sud costituiva il 36% circa del totale nazionale).
232 Per spiegare i differenziali regionali nel tasso di disoccupazione, Sinn e Westermann (2000) introducono il
fattore degli “overdrawn wages”, Caroleo (2005) l’ipotesi degli “alti salari”. Il dibattito si inserisce nel più ampio contesto europeo dei pro e contro il mantenimento di un sistema di contrattazione centralizzata con forte potere sindacale e importanti finalità di equità retributiva. Si veda ad esempio il contributo di Jimeno e Bentolila (1998), nel quale la scarsa reattività dei salari alle condizioni locali del marcato del lavoro è il risultato di uno impegno esplicito dei sindacati spagnoli in vista di una riduzione della dispersione salariale interregionale. Questo impegno è coadiuvato dalla legge spagnola in quanto “wage floors set at sectoral wage agreements are legally binding for all firms in the sector throughout the country, and are normally so high that they leave little scope for further bargaining at the province/firm level”, p.45.
collettivo anche se il lavoratore o l’imprenditore non sono iscritti alle associazioni stipulanti”234. Anche la legge segue questo orientamento, penalizzando le imprese che non
applicano il contratto nazionale: la penalizzazione riguarda la contribuzione previdenziale e altri campi. A questo orientamento si è giunti per volontà delle parti sociali: la Confindustria ha fortemente voluto un contratto collettivo universalmente efficace, per evitare pratiche di concorrenza sleale da parte delle imprese che non vi fanno parte, così come i maggiori sindacati hanno accettato l’idea dell’efficacia erga omnes, nonostante questa incentivi spaccature e accordi parziali, nonché il free riding dei lavoratori non iscritti (che beneficieranno comunque delle condizioni retributive fissate dal contratto stipulato)235.
Negli ultimi decenni il sistema di contrattazione non ha subito variazioni radicali. Ci sono stati dei cambiamenti: i più importanti nel 1969 e nel 1993. Nel ’69, con l’abolizione delle
gabbie salariali (v. sopra, Appendice A), il contratto nazionale di categoria si applica
indistintamente in tutte le regioni.236. Nel ’93 si ha l’accordo a tre tra Governo, sindacati e
Confindustria con cui si pone ufficialmente fine alla scala mobile (introdotta nel 1946) e si da il via alla politica dei redditi.
Il patto triangolare del luglio 1993 costituisce una tappa fondamentale nella storia delle relazioni sociali e industriali in Italia. Con esso governo, organizzazioni sindacali e associazioni imprenditoriali hanno modificato l’assetto contrattuale e inaugurato la (breve) stagione della concertazione. L’accordo riconosce formalmente due livelli di contrattazione: il primo, nazionale, “vincola la crescita delle retribuzioni all’andamento del tasso di inflazione programmato”, il secondo, aziendale, “lega strutturalmente una parte del salario ai risultati dell’impresa, variamente misurati”, ridistribuendo gli incrementi di produttività conseguiti nell’azienda.237 In questo modo si ripartisce il compito di difendere il potere d’acquisto dei
salari e di ridistribuire i guadagni di produttività tra il contratto nazionale di categoria e la contrattazione aziendale.238 Vi è un consenso generale sulla ‹‹bontà›› di tale accordo e sui
234 Cfr. ibid..
235 È uno dei motivi per cui in Italia il tasso di sindacalizzazione raggiunge poco più del 35%, a fronte di un tasso
di copertura sindacale superiore all’80% (nel ’95, fonte: Lucifora (2002)). C’è da aggiungere che i vantaggi retributivi non sono i soli che spingono i lavoratori ad iscriversi al sindacato.
236 Vengono abolite anche le clausole di rinvio (premio di produzione e inquadramento professionale) con le
quali il contratto nazionale pone espliciti vincoli alla contrattazione aziendale. La contrattazione articolata, introdotta nei primi anni sessanta, è cosi’ sospesa, premiando la strategia dei sindacati e la cosiddetta rincorsa
salariale. Si veda Ichino (2004b). Le clausole saranno poi reintrodotte nel 1983.
237 Cfr. Melotti e Pini (1996, p.275).
238 Cfr. ibid.. L’accordo del 23 luglio 1993 decreta ufficialmente la fine degli automatismi salariali legati al
meccanismo noto come scala mobile. La tutela del potere d’acquisto è affidata alla contrattazione collettiva nazionale a cadenza biennale. A livello aziendale gli incrementi salariali sono subordinati alla dinamica della produttività e della redditività delle imprese.
risultati grazie ad esso raggiunti, su tutti il controllo e la moderazione della dinamica del costo del lavoro che ha contribuito largamente alla lotta all’inflazione e, in senso lato, al riordino delle finanze pubbliche. Sul fronte contrattuale il patto ha messo ordine in un complesso di relazioni informali e spesso confuse, oscillanti tra il decentramento e centralizzazione, dominate dal conflitto come regola di governo delle controversie e ha affermato una “struttura negoziale bipolare […] in cui si compongono un livello centralizzato e un livello decentrato, caratterizzati dal principio della specializzazione delle competenze”239. Grazie all’accordo,
negli anni novanta, sono aumentati i profitti, è aumentata l’occupazione, si è ridotto il differenziale retributivo tra settore pubblico e settore privato. Ma si registrano anche molti insuccessi: è mancato un consolidamento delle relazioni tra le parti e della prassi collaborativa (soprattutto dopo l’ingresso nell’Unione Monetaria) ed è mancato un adeguato sviluppo del secondo livello contrattuale, quello decentrato a livello aziendale, anche a causa dell’“insufficiente consolidamento delle strutture di rappresentanza in azienda”240, in un
contesto produttivo dominato dalla piccola impresa. L’insufficiente ricorso alla contrattazione aziendale ha creato problemi dal lato della difesa del potere d’acquisto dei salari e non ha permesso la formazione di un’adeguata differenziazione salariale intrasettoriale (per il carattere esclusivamente ‹‹sommatorio›› di questo livello, a causa dell’inderogabilità di cui godono gli standard fissati dal contratto collettivo nazionale). In questo modo l’assetto bipolare uscito dall’accordo del 1993 (e confermato dal Patto di Natale del dicembre 1998) ha finito per scontentare un po’ tutti, dalle imprese ai rappresentati dei lavoratori, e da più parti se ne chiede una riforma. Anche chi, come Regalia, preferisce un sistema bipolare, ritiene che si debba alleggerire la portata normativa del contratto nazionale, potenziando la contrattazione decentrata, modificando cioè l’equilibrio tra i due livelli a favore del secondo.
Anche a livello di performance dei mercati del lavoro regionali, vi sono molti dubbi che l’attuale sistema di wage-setting garantisca la migliore cornice possibile. I differenziali regionali nel tasso di disoccupazione sono al centro di un vasto dibattito nell’accademia e sulla stampa, basato sulle asimmetrie e le inefficienze del mercato del lavoro italiano. Il problema è il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, dove si concentrano disoccupazione e lavoro irregolare, e una possibile causa è, come abbiamo visto sopra, la rigidità e la compressione di una struttura salariale non in linea con le condizioni del mercato del lavoro, geograficamente eterogenee. I salari non si muovono in linea con i li livelli di produttività del
239 Cfr. Regalia (2003). 240 Cfr. ibid..
lavoro, riducendone la domanda e aumentando il ricorso al lavoro sommerso. La causa di ciò viene individuata, spesso esplicitamente, nelle distorsioni di un sistema di contrattazione collettiva centralizzata nella quale il salario viene deciso da parti sociali che hanno la grande maggioranza dei loro rappresentati nel Centro-Nord del Paese. In presenza di livelli di produttività nettamente differenziati tra le due macro-regioni, un salario fissato in linea con le esigenze e la produttività dei lavoratori e delle imprese del Nord risulta troppo alto e insostenibile per i lavoratori e le imprese del Sud. La ricetta fornita da un gruppo nutrito di economisti e altri esperti consiste nel riallineare il costo del lavoro alle diverse condizioni locali, in particolare differenziando la struttura salariale tra regioni ed aziende, anche all’interno dello stesso settore. Questa posizione ha assunto un peso predominante nel dibattito sugli squilibri territoriali soprattutto nel corso degli anni novanta, dopo il periodo di ripresa dell'attività economica seguito alla svalutazione del 1992 che ha visto un approfondimento dei divari regionali.241 In presenza di risorse finanziare pubbliche sempre più
esigue e di una stagione politica più favorevole alla questione settentrionale, si abbandona l'idea di superare gli squilibri con politiche di sviluppo (infrastrutturale e industriale) delle aree depresse e ci si concentra sui prezzi relativi e sulla rimozione delle rigidità nel funzionamento dei mercati del lavoro regionali: “il tema della flessibilità e dei differenziali salariali come strategia di sviluppo” conquista “il centro della scena”242, come condizione
necessaria e sufficiente al riequilibrio dei divari Nord-Sud nel tasso di disoccupazione. Occorrono riforme per dare all'Italia un “sistema di relazioni industriali «flessibile».
Un invito a muoversi in questa direzione è contenuto nel documento preparato per il Governo italiano dalla delegazione del Fondo Monetario Internazionale, in missione nel nostro Paese. Nella parte riservata a “Mercato del lavoro e iniziative per una maggiore crescita regionale”243, si incoraggiano “le parti sociali ad assicurare che i salari riflettano in
modo più adeguato i differenziali di produttività fra regioni e gruppi di lavoratori”, per creare occupazione regolare e far emergere occupati dal sommerso. Inoltre “il settore pubblico dovrebbe dare l’esempio con indennità legate al costo della vita a livello regionale, che potrebbero essere determinate una volta che l’ISTAT abbia portato a termine la sua iniziativa sulla pubblicazione dei livelli regionali dei prezzi”244.
241 Cfr. Giannola (1996). Si ricorda che il primo contributo importante sul tema si deve a Bodo e Sestito nel
1991.
242 Cfr. Giannola (1996, p.29).
243 Cfr. Fondo Monetario Internazionale (2002).
244 Tali indicazioni sono esplicitamente rivolte a differenziare la struttura salariale italiana, una delle due aree del
Salituro e Scorcu, nel già citato lavoro del 2006 sul tasso di disoccupazione strutturale, avanzano suggerimenti analoghi: la segmentazione geografica del mercato del lavoro rende “velleitario” il tentativo di trovare un unico prezzo che permetta a due mercati “profondamente diversi” di raggiungere l’equilibrio e di mantenerlo. Il tasso di disoccupazione meridionale deriva anche dal comportamento sindacale che ha sistematicamente privilegiato “il segmento più numeroso e importante del mercato”, scegliendo di ‹‹sacrificare›› l’equilibrio del mercato del lavoro nel Mezzogiorno. In questa situazione sarebbe preferibile differenziare le manovre di politica economica e le strategie sindacali, secondo il carattere dualistico del mercato del lavoro nazionale. È un’implicita bocciatura dell’attuale sistema di contrattazione centralizzata.245
Sempre più spesso si parla di riforma del sistema di relazioni industriali uscito dall’accordo triangolare del luglio 1993; si parla soprattutto di decentramento della contrattazione collettiva articolata. Altre strategie sono ritenute improponibili (una contrattazione su basi esclusivamente aziendali o individuali) o solo complementari (una riforma in senso democratico e maggioritario della rappresentanza sindacale e delle consultazioni di base). Tutte le strategie proposte, che si muovono in questa direzione, ovvero verso un maggiore decentramento della contrattazione, intendono promuovere una maggiore flessibilità del sistema di determinazione dei salari in Italia, per raggiungere un’adeguata differenziazione della struttura salariale, in linea con le marcate differenze territoriali nel mercato del lavoro e in modo da risolvere, almeno parzialmente, i diffusi problemi di
mismatch legati al dualismo del mercato del lavoro italiano: un dualismo essenzialmente
geografico, tra il Nord e il Sud del Paese.246
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 23 gennaio 2006, Tiziano Treu afferma: “Bisogna andare verso il decentramento contrattuale. È una cosa di cui deve convincersi anche Confindustria. Se come accade oggi, solo un terzo delle imprese fa la contrattazione
245 Si veda Salituro e Scorcu (2006).
246 L’altra tradizionale forma di dualismo è quella tra lavoro ‹‹regolare›› e lavoro ‹‹sommerso››: essa caratterizza
il mercato del lavoro italiano in generale, ma si concentra nel Mezzogiorno, per cui vi si può vedere, con i dovuti
distinguo, l’altra faccia dello stesso fenomeno (il lavoro irregolare raggiunge nel Mezzogiorno una quota del
22,8% sul totale, contro il 10% del Centro-Nord, secondo i dati relativi al 2004 riportati in Svimez (2005)). Il dualismo del mercato del lavoro italiano va tuttavia assumendo anche un’altra natura, trasversale, tra lavoratori ‹‹tipici›› ed ‹‹atipici››, per la quale si chiedono interventi correttivi diversi. Alcune misure proposte, come l’introduzione di un salario minimo suggerita in Boeri e Ichino (2005), potrebbero tuttavia sanare, come vedremo, i problemi di base di entrambe le forme di dualismo. È interessante notare che quest’ultima forma di dualismo nasce all’interno di quel ‹‹paradigma della flessibilità›› che ha portato alle misure di liberalizzazione delle tipologie contrattuali a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Dello stesso paradigma fanno parte gli interventi di decentramento della struttura della contrattazione.
aziendale, è inevitabile che i sindacati cerchino di prendere tutto col salario nazionale. Se invece si diffonde il contratto aziendale o quello territoriale, che già funziona nell’artigianato, nell’edilizia e nell’agricoltura, allora non c’è più bisogno di puntare tutto sul nazionale. Ovviamente ciò va fatto evitando che le imprese paghino due volte le stesse cose”247.
È un’idea diffusa tra gli esperti, di varia estrazione e vario orientamento, che, in genere si dichiarano a favore di un maggiore decentramento della contrattazione248. Un esempio perfetto
di questa impostazione è contenuto in un articolo di Baglioni su Avvenire: l’autore giustifica la necessità di riformare lo schema di contrattazione delineato dagli accordi del luglio ’93, potenziando il livello territoriale e il livello aziendale. Il contratto collettivo nazionale è ormai inadeguato come strumento principale di redistribuzione degli incrementi di produttività: nel fissare uno standard retributivo unico, esso penalizza al contempo le realtà più produttive e quelle più deboli, caratterizzate da esigenze diverse e, spesso, da diversi livelli di costo della vita a seconda del contesto locale di appartenenza. Ad esempio, “il costo del lavoro dei contratti nazionali può risultare troppo oneroso per ambienti produttivi con modesta produttività e con altre difficoltà (come nel Mezzogiorno), per molte imprese di piccole dimensioni”249. Ma non tutti sono d’accordo con una riforma dell’attuale sistema che incida
sulla centralità del contratto nazionale, in un contesto in cui esso rimane il principale strumento redistributivo a disposizione dei lavoratori, considerando i risultati della contrattazione di secondo livello, non certo brillanti per i lavoratori in questi dieci anni250.
L’idea che “la rigidità del nostro sistema di relazioni industriali possa tradursi, nel Mezzogiorno, in livelli retributivi incapaci di riprodurre le condizioni locali del mercato del
247 Cfr. “Treu: CGIL non può aspettare. Ora il negoziato sui contratti”, Corriere della Sera, 23/01/2006.
248 Si veda il contributo di Cacace su l’Unità, nel quale afferma di approvare il “tentativo, portato avanti
soprattutto dalla Cisl di Pezzotta, di rinvigorire decisamente la contrattazione aziendale e territoriale”, in: Cacace, N., “I salari, la ripresa e i polli di Trilussa”, l’Unità, 20/09/2004. L’intervento continua: “Per molti motivi di cui il primo è la ‹‹legge di Trilussa››. Aumenti salariali pari agli aumenti medi di produttività metterebbero in seria difficoltà la metà delle aziende. Non c'è modo di partecipare ai frutti della produttività se non a livello dove tali frutti fioriscono. Se il margine operativo lordo (MOL) medio del settore metalmeccanico è il 10% del fatturato, possono esserci la metà delle aziende al 20% di MOL e l'altra metà delle aziende allo 0%, cioè sull'orlo del fallimento. È un caso teorico ma è questa la realtà del pollo di Trilussa. Non si possono chiedere gli stessi aumenti a chi cresce e a chi boccheggia per la crisi. Solo la contrattazione aziendale, o territoriale per le aziende piccolissime di distretti omogenei, può consentire ai lavoratori di partecipare realmente ai frutti della produttività; mentre la contrattazione nazionale, oltre a difendere il potere d'acquisto dei salari dall'inflazione, può ottenere una parte, piccola, di quell’incremento medio di produttività”. Nonostante il primo vero tentativo di decentrare la contrattazione, introdotto nel 1993 e completato negli anni seguenti con i contratti territoriali, non abbia dato i risultati sperati, portando anzi a minimi recuperi degli incrementi di produttività e ad un forte decremento della quota salari sul prodotto aggregato, Cacace invita a proseguire sulla strada del decentramento, certo che il contratto nazionale non riesca più, da solo, a svolgere la funzione di redistribuzione del reddito. Dunque, l’intervento urge non solo in vista di una maggiore efficienza nel processo di allocazione dei fattori produttivi, ma anche per esigenze di equità sociale, per sanare la nuova questione salariale.
249 Cfr. Baglioni, G., “Contratti. Due livelli per ripartire”, Avvenire, 22/02/2006. 250 Cfr. Gallino, L., “La funzione dei contratti collettivi”, la Repubblica, 07/02/2006.
lavoro”251 viene proposta da Nicola Rossi, in un suo recente saggio. Rossi afferma la necessità
di urgenti riforme nel mercato del lavoro e nelle regole del welfare, perché lo stato attuale delle cose penalizza troppo il Mezzogiorno: i troppi giovani che si trasferiscono al Centro- Nord, spesso dotati di un elevato capitale umano, e i troppi giovani che rimangono, ad infoltire le file dei disoccupati, dei lavoratori sommersi e semisommersi, sono la spia delle distorsioni di uno Stato sociale inefficiente e del malfunzionamento del mercato del lavoro meridionale. Un mercato “incapace di accomodare in altra maniera le differenze di produttività ancora presenti a livello territoriale”, che trova nel sommerso e nell’emigrazione dei giovani high-skilled le necessarie ‹‹valvole di sfogo››, i (patologici) strumenti di riequilibrio. Dunque si tratta di scegliere: “o accettare le migrazioni interne come strumento di regolazione del mercato del lavoro […] o riconoscere le segmentazioni del nostro mercato del lavoro”. Nel primo caso si tratterebbe di “disegnare un welfare capace di governare e accompagnare i fenomeni migratori interni” (investimenti pubblici nelle politiche residenziali, regolazione del mercato delle locazioni), in modo da “ripristinare un tasso accettabile di mobilità nella società italiana”. Nel secondo caso, invece, una volta riconosciute e accettate le segmentazioni, si tratterebbe di “adattare ad esse i sistemi contributivi e gli schemi contrattuali”, affrontando “il tema della struttura della contrattazione e quello della rappresentanza sui luoghi di lavoro”.252 Per quanto riguarda la soluzioni da adottare, Rossi si
rifà alle opzioni avanzate da Boeri e Ichino (vedi avanti, cfr. Boeri e Ichino (2005)): in sintesi introduzione di un salario minimo legale o, in alternativa, un effettivo decentramento della contrattazione attraverso un regime di derogabilità allo standard fissato dal contratto collettivo nazionale253. Per evitare il timore di una caduta dei salari, si potrebbero introdurre misure di
decontribuzione, per ridurre il cuneo fiscale e contributivo (in modo da avere salari netti più alti a parità di costo del lavoro). Ad ogni modo le opzioni presentate, rifiutate da molti per il loro carattere eccessivamente liberistico, appaiono migliori della soluzione attuale, questa sì “iperliberista”, di un mercato del lavoro che trova da sé l’equilibrio retributivo e geografico, ovvero, per una larga parte della forza lavoro meridionale, lavoro nero e necessità di spostarsi. Analogamente Micossi (1997) considera essenziale un mercato del lavoro competitivo nel quale “i salari sono più strettamente correlati alla produttività”.
251 Cfr. Rossi (2005a, pp. 84-5).
252 Tutte queste citazioni sono tratte da Rossi (2005a, pp. 88-9).
253 Le deroghe sarebbero introdotte da “contratti regionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni o
Posizioni simili, ma più temperate, si trovano in Viesti (2003). Tra i fattori principali che