• Non ci sono risultati.

3. Contrattazione, differenziali salariali e convergenza regionale: elementi teorici.

3.2 Un modello regionale del mercato del lavoro

Il modello84 illustra il mercato del lavoro di due regioni, in presenza di un sistema

asimmetrico di determinazione del salario regionale, ovvero di un sistema in cui il salario è determinato univocamente, sulla base delle condizioni del mercato del lavoro di una delle due regioni, la regione leader (d’ora in avanti regione 1). Ciò significa che l’altra regione (la

84 Il modello è tratto da Manacorda e Petrongolo (2006). In letteratura sono presenti altri contributi di natura

teorica sulla dinamica della disoccupazione regionale in Italia. Si vedanoBrunello et al. (2000), Pench et al. (1999), Jimeno e Bentolila (1998) e Faini (1995).

regione 2) vedrà applicarsi di volta in volta un salario non in linea con lo stato del proprio mercato del lavoro (livello di produttività, tasso di disoccupazione, ecc.). Se, come nel nostro caso, la regione 2 è anche la regione meno sviluppata, a più bassa produttività del lavoro, si produce in essa un disequilibrio persistente tra offerta (il salario che ‹‹subisce››) e domanda di lavoro. Nell’impostazione neoclassica, la situazione di mismatch nella regione 2 si traduce in un tasso relativo di disoccupazione persistentemente più alto rispetto alla regione 1. In altri termini, i tassi regionali di disoccupazione non convergono tra loro: il dualismo tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali rispetto al mercato del lavoro trova in questo modello una giustificazione teorica plausibile. D’altra parte, è una tesi largamente riconosciuta il fatto che i salari regionali siano determinati in Italia in modo asimmetrico, utilizzando come piattaforma le condizioni del mercato del lavoro al Nord, come si è visto nel capitolo precedente.

Vediamo il modello in dettaglio, cominciando dalle ipotesi:

● ciascuna delle due regioni presenta un numero sufficientemente grande di imprese

identiche tra loro, che producono un bene regionale omogeneo e lo vendono sul mercato nazionale, perfettamente concorrenziale, in condizioni di perfetta mobilità interregionale (perfetta sostituibilità dei beni regionali).

● la forza lavoro regionale è omogenea e le imprese utilizzano solo forza lavoro locale.

Gli individui in ciascuna regione offrono lavoro inelasticamente e hanno preferenze identiche per quanto riguarda il consumo di entrambi i beni regionali. Se sono occupati percepiscono un salario, stabilito entro il mercato del lavoro regionale, altrimenti percepiscono un sussidio, supposto nullo per semplicità: i disoccupati, dunque, non percepiscono reddito e non consumano.

● assenza di mobilità dei fattori produttivi: capitale (imprese) e lavoro.85

● la produzione regionale è completamente specializzata, dati i vantaggi comparati

regionali in presenza di rendimenti costanti del fattore lavoro e date le ipotesi di perfetta sostituibilità tra i beni delle due regioni, di perfetta mobilità dei prodotti ed assenza di mobilità dei fattori.86

La domanda di lavoro regionale è derivata a partire dalla situazione di equilibrio nel mercato del prodotto regionale, tramite la massimizzazione del profitto operata dalle imprese.

85 Sono ipotesi forti, ma alla luce dei dati abbastanza realistiche, soprattutto per il lavoro (flussi migratori

interregionali fortemente ridotti dagli anni ’70 in poi, si veda Faini (1996)).

L’equilibrio nel mercato di ciascuno dei prodotti regionali è dato dall’uguaglianza di domanda ed offerta di tale prodotto.

La domanda è ottenuta dalla massimizzazione vincolata dell’utilità del lavoratore rappresentativo in ciascuna regione. Le preferenze rispetto al consumo sono di tipo Cobb- Douglas e hanno rendimenti di scala costanti (omogenee di grado 1). La regione è identificata da r = 1,2, i beni regionali sono c1r e c2r. wr indica il salario regionale.

Il problema di ottimizzazione è, dunque: max Vr(c1r, c2r)= c1rα1 c2rα2 = c1rα c2r1-α (1) s. a p1c1r + p2c2r ≤ wr r = 1,287 Risolvendo, si ottiene: c1r = α(wr/p1) (2) c2r = (1-α)(wr/p2) r = 1,2

per cui α e (1-α) rappresentano le quote del salario reale destinate in ciascuna regione all’acquisto del bene 1 e del bene 2 rispettivamente. Quindi,

α = p1c1r /(p1c1r + p2c2r)

(3)

1-α = p2c2r/(p1c1r + p2c2r) r = 1,2

L’offerta del bene a livello regionale è rappresentata da Yr. La produzione a livello di

impresa avviene secondo una funzione lineare, il lavoro è l’unico input.

Yjr è l’output di ciascuna impresa j nella regione r, Yr l’output regionale, N rappresenta

l’occupazione, Ar l’indice che rappresenta il livello tecnologico regionale88.

(4) Yjr = ArNjr

87 Per ipotesi le preferenze dei due consumatori-tipo regionali sono identiche, dunque V 1=V2.

88 Date le caratteristiche della funzione di produzione, A equivale anche alla produttività media e marginale del

(5) Yr = ArNr Nr = ∑jNjr

A livello regionale, le imprese massimizzano il profitto: il salario ottimale risultante è wr =

prAr. L’equilibrio si ha quando la produzione ed il consumo totale di ogni bene sono uguali.

Y1 = c11N1 + c12N2

(6)

Y2 = c21N1 + c22N2

Si osserva che c11/c12 = c21/c22 = w1/w2 e che c11/c21 = c12/c22 = Y1/Y2

Attraverso semplici sostituzioni, si osserva che α e (1-α) rappresentano non solo la quota di spesa in ciascun bene, ma anche la quota dell’output regionale sull’output nazionale e la quota del reddito da lavoro regionale sulla quota salari nazionale.

Quindi, α= p1Y1/(p1Y1+p2Y2) (7) 1-α= p2Y2/(p1Y1+p2Y2) α= w1N1/(w1N1+w2N2) (8) 1-α= w2N2/(w1N1+w2N2)

Dunque, la quota che i lavoratori spendono nell’acquisto del bene 1, indipendentemente dalla regione in cui risiedono, corrisponde alla quota di ricavi percepita dalle imprese nella regione 1, dato l’output nazionale, e corrisponde alla quota dei salari nazionali corrisposta ai lavoratori nella regione 1.

Lo stesso vale per il bene 2 e la regione 2.

Infine, date le ipotesi sulle preferenze, in equilibrio la spesa totale è uguale all’utilità totale, quindi,

Ne deriva che,

(10) w1N1+w2N2 = (A1N1)α (A2N2)1-α

Combinando la (8) e la (10), possiamo ottenere la funzione di domanda di lavoro della regione 1, espressa in termini logaritmici:

(11) ln w1= ln α- ln N1 + α ln (A1N1) + (1-α) ln (A2N2) =

= ln α + α ln A1 + (1-α) ln A2 – (1-α) ln (1-u1/1-u2) – (1-α) ln (L/1-L),

dove u1 e u2 sono, rispettivamente, i tassi di disoccupazione della regione leader (regione

1) e della regione secondaria (regione 2), mentre L e (1-L) sono le rispettive quote di forza lavoro nazionale.

Analogamente, si trova la funzione di domanda di lavoro della regione secondaria, in termini logaritmici.

Abbiamo così individuato una curva inclinata negativamente che descrive la relazione tra wr e (1-ur), ovvero tra il salario regionale e l’occupazione regionale.

A livello regionale, salario e tasso di disoccupazione sono positivamente correlati, nonostante non valga, come di consueto, l’ipotesi di produttività marginale del lavoro decrescente. Infatti, il canale attraverso il quale passa un aumento della disoccupazione regionale a fronte di un aumento del salario nella stessa regione non è tale ipotesi, bensì una riduzione nel consumo del prodotto regionale, data dalla ridotta competitività di costo della produzione locale, in seguito ad un aumento del salario relativo.

Se w1 aumenta in relazione a w2, p1=w1/A1 aumenta a sua volta, c11 e c12 diminuiscono (il

bene 1 è più costoso), la produzione nella regione 1 si riduce, l’occupazione diminuisce e u1

aumenta.

Prima di concretizzare il modello introducendo uno schema asimmetrico di determinazione dei salari regionali, in modo da adattarlo al caso italiano, si introduce una misura del mismatch regionale tra i mercati del lavoro, ovvero un indice degli spostamenti relativi tra le 2 regioni della domanda dei beni prodotti e dei lavoratori occupati, al netto di

variazioni relative nell’offerta di lavoro (flussi migratori e tassi di partecipazione), considerate esogene:

(12) D12 = d ln (α/1-α) – d ln (L/1-L) = -D21

α e L sono indici relativi, cosicché d(α/1-α) e d(L/1-L) rappresentano gli shock regionali asimmetrici dal lato della domanda e dell’offerta.

L’indice può essere così approssimato: (13) D12 ≈ d (u2-u1) + d ln (w1/w2)

Uno spostamento nella domanda relativa a favore della regione 1 si tradurrà, secondo la (13), in una riduzione del suo tasso di disoccupazione relativo, o in un aumento del suo salario relativo, o in entrambe le cose (vedremo in seguito, in base a determinate assunzioni sulla contrattazione salariale, che una variazione della domanda relativa a favore della regione leader si traduce esclusivamente in un aumento della disoccupazione nella regione 2).

Consideriamo adesso il lato dell’offerta nel mercato del lavoro. La curva di offerta rappresenta la relazione inversa tra salario e disoccupazione89:

(14) ln wr= zr – γ ln u1 r= 1,2

Lo schema di contrattazione dei salari è asimmetrico in quanto i salari in entrambe le regioni dipendono negativamente solo dalla disoccupazione della regione 1 (la regione leader). Altri fattori locali, potenzialmente diversi tra le regioni, possono influenzare i salari regionali, dato un certo u1: il loro effetto è raccolto nella costante zr.

L’uguaglianza tra domanda di lavoro (11) e offerta di lavoro (14) determina la situazione di equilibrio.

Definendo

89 Tale relazione è un fatto stilizzato generalmente riconosciuto nella letteratura empirica sui vari paesi. Si

vedano Blanchflower e Oswald (1994) e Card (1995). Ci sono tuttavia dubbi sul fatto che la relazione valga anche nel caso italiano, come testimoniano i dati raccolti nel già citato contributo di Hernanz e Pellizzari (2002).

dz = α dz1 + (1-α) dz2

(15)

dlnA = α dlnA1 + (1-α) dlnA2,

si possono ottenere le variazioni di equilibrio dei tassi di disoccupazione locali, calcolando il differenziale totale della (11):

(16) du1= (u1/γ)[dz – dlnA – ln(Y1/Y2) dα]

(17) du2= [u1(1-u2)/γ(1-u1)][dz – dlnA – ln(Y1/Y2)dα] + (1-u2)(dz2-dz1) + (1-u2)D12

Vediamo, in sintesi, gli effetti dei potenziali shock esogeni sui tassi u1 e u2:

● un aumento della pressione salariale a livello aggregato (un aumento di dz)

provoca un aumento della disoccupazione in entrambe le regioni, se tale aumento salariale supera un certo livello ‹‹fisiologico››, misurato da [dlnA + ln (Y1/Y2)

dα].;

● un aumento del differenziale interregionale nella pressione salariale (dz2 – dz1)

provoca un aumento della disoccupazione nella regione 2 (il Mezzogiorno, nel caso italiano), senza influenzare u1. Un aumento di (dz2 – dz1) comporta un

aumento del salario relativo nella regione 2 e dunque, a parità di altre variabili, un aumento di u2 ed una riduzione di u1. Successivamente la riduzione di u1 fa

aumentare le richieste salariali a livello aggregato: sia u1 che u2 crescono. Il tasso

di disoccupazione nella regione leader torna al livello di equilibrio, mentre u2

risulta certamente aumentato (aumenta in entrambe le fasi);

● un aumento netto della domanda a favore della regione leader (D12>0) lascia

invariata la disoccupazione nella regione leader e fa aumentare u2. Di nuovo

rileva il meccanismo asimmetrico di determinazione dei salari regionali, per il quale una riduzione di u1 (provocato in questo caso da D12>0) comporta un

aumento salariale generalizzato, che permette alla regione leader di sterilizzare completamente gli effetti di uno shock settoriale (shock regionale idiosincratico) che la colpisca. Così, è il mercato del lavoro nel Mezzogiorno ad assorbire interamente gli effetti di uno shock regionale asimmetrico.

Per quanto riguarda i salari regionali di equilibrio, la dinamica è rappresentata da questa equazione, che deriva dalla (14) e dalla (16):

(18) dlnwr = dzr – dz + dlnA + ln(Y1/Y2)dα r=1,2

Come si vede, shock regionali dal lato della domanda di prodotto, in termini relativi, non influenzano il salario regionale di equilibrio, che risponde solamente a variazioni nella pressione salariale relativa.

Riassumendo, i differenziali interregionali di equilibrio in termini di disoccupazione e di salario sono dati da:

(19) du2 – du1=D12 – dlnw1/w2

(20) dlnw1/w2=dz1 – dz2.

Nella Figura 17 si osserva l’effetto sul tasso di disoccupazione relativo di uno spostamento netto della domanda a favore della regione leader (la regione 1), che si traduce in aumento netto della domanda di lavoro nella stessa regione. Lo shock asimmetrico dal lato della domanda a favore del Centro-Nord si è effettivamente verificato intorno alla metà degli anni ottanta (v. Figura 5): la rinnovata competitività dell’industria centro-settentrionale (grazie alla ristrutturazione tecnologica e alla politica di continua svalutazione della lira) si è tradotta in un boom delle esportazioni, in un contesto di congiuntura internazionale fortemente positiva, mentre l’apparato produttivo meridionale scontava il calo degli investimenti pubblici e una situazione di generale inefficienza produttiva (si veda l’Appendice A).90Il grafico rappresenta in termini relativi il mercato del lavoro nella regione 1. La curva

del salario relativo, che mette in relazione il salario contrattato con il tasso di disoccupazione, è piatta, ovvero il salario relativo della regione 1 non dipende dalla disoccupazione relativa della regione 2, ma solo dalla disoccupazione della regione 1 (per ipotesi, lo schema di wage-

setting è asimmetrico). La curva di domanda di lavoro, espressione del comportamento

90 Il nesso cronologico tra l’aumento dei divari interregionali nel tasso di disoccupazione e lo shock di natura

istituzionale alla fine degli anni sessanta verrebbe meno, ma non del tutto se si considera che il periodo che va dalla fine degli anni sessanta alla metà degli anni ottanta è un periodo di crisi anche per il Nord. Certamente l’ipotesi istituzionale legata alla dinamica salariale non può spiegare da sola l’evoluzione dei divari interregionali nel tasso di disoccupazione.

massimizzante delle imprese rispetto al profitto, è, come al solito, inclinata negativamente. Nel punto di intersezione delle due curve si ha la situazione d’equilibrio del mercato.

Se la domanda netta di lavoro nella regione 1 aumenta (passando da D′ a D″), aumenta l’occupazione relativa in questa regione e la disoccupazione relativa nella regione 2, a salari relativi costanti. Il divario interregionale nel tasso di disoccupazione aumenta.

Figura 17 – Mismatch regionale con determinazione asimmetrica dei salari

Fonte: Manacorda e Petrongolo (2006).

4.3

Rigidità salariali e convergenza regionale nel prodotto pro

capite

Il grafico nella Figura 18 riporta il Prodotto Interno Lordo pro capite per regione, negli anni 1970 e 2002. Come si nota facilmente, i divari regionali rispetto al Pil sono persistenti e, semmai, tendenti a crescere.

Figura 18 - Pil pro capite regionale nel 1970 e nel 2004 (dati in migliaia di euro).

Fonte: Elaborazioni personali su dati Prometeia.91

La letteratura sul tema è ampia. Nonostante siano state utilizzate diverse tecniche di stima, siano state considerati diversi set di determinanti e i risultati ottenuti non siano del tutto univoci, si può individuare un risultato generale sufficientemente uniforme: il processo di convergenza regionale in Italia, rispetto al prodotto pro capite, si è arrestato a cavallo tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni settanta.92 C’è consenso sul fatto che le regioni

italiane non hanno rispettato quel “principio della convergenza assoluta del tradizionale modello neoclassico” secondo il quale, “quando in un paese vi è lo stesso sistema economico

91 Si veda l'Appendice C sui dati.

92 Si rimanda alla cospicua letteratura sul tema per un quadro completo sulla convergenza regionale in Italia.

L'assenza di convergenza regionale nel prodotto pro capite dagli anni settanta in poi è un risultato empirico diffuso (Mauro e Podrecca, 1984, Boltho et al., 1997, Paci e Saba, 1998, Lavezzi, 2000, Carmeci e Mauro, 2002). Si vedano anche Svimez (2000), Aiello e Scoppa (2000, 2005) e Bianchi e Menegatti (2005).

0 5 10 15 20 25 30 PI E V D A LO M TA A V EN FVG LIG EM R TO S U M B M A R LA Z A BR M O L CA M PU G BA S CA L SIC SA R

e legale e vi è un completo accesso alla tecnologia, ci dovrebbe essere una eguaglianza dei prezzi dei fattori e nella intensità di capitale e, quindi, eguaglianza nella produttività del capitale tra le varie regioni”93. Tipicamente, infatti, si sostiene all'interno del paradigma

neoclassico, che dovrebbe valere l'ipotesi di convergenza assoluta a livello regionale, dato che i parametri strutturali del modello di Solow dovrebbero essere identici o comunque molto simili, tra regioni. Le doverose cautele sull'omogeneità dei parametri strutturali che hanno portato all'elaborazione del concetto di convergenza condizionata nelle analisi among

countries dovrebbero cadere in un contesto among regions. La mancanza di conferme

empiriche adeguate alla tesi della convergenza regionale è un puzzle economico importante e mina alla radice la possibilità di accettare la teoria neoclassica della convergenza. In Europa il caso italiano non è unico: si assiste da tempo ad un declino della dispersione dei redditi pro capite tra i vari stati e ad una persistenza o aumento della stessa all’interno dei singoli stati (Italia e Germania in particolare). Eppure i costi delle transazioni commerciali e la mobilità dei fattori produttivi sono senza dubbio ostacoli inferiori a livello regionale, e ciò dovrebbe accelerare il processo di convergenza, rispetto al livello dei paesi. Evidentemente hanno operato dei vincoli che hanno inibito il catching up delle regioni italiane più povere nei confronti delle regioni più ricche, come risulta dai contributi presentati nel seguito del paragrafo. L’alternativa è la non validità del modello neoclassico della convergenza e delle sue conclusioni.94

A differenza dei differenziali nel tasso di disoccupazione, che hanno cominciato a divergere sensibilmente una quindicina di anni dopo, i divari nel prodotto pro capite hanno smesso di convergere tra loro subito dopo la stagione delle spinte salariali e delle rivendicazioni contrattuali, che ha visto l’abolizione delle gabbie salariali e un livellamento verso l’alto della dispersione salariale regionale. Si può ipotizzare dunque, a prima vista, sulla

93 Cfr. Caroleo (2005), p.126. In generale il “tradizionale modello di sviluppo neoclassico”si applica con

difficoltà al caso italiano, dato che esso prevede la piena occupazione che, come abbiamo visto, è lungi dall’essersi realizzata nelle regioni meridionali.

94Si sa che la teoria neoclassica della convergenza regionale e la sua conclusione principale (un unico livello di

steady state per tutte le regioni) non sempre trovano conferma empirica, ad esempio a causa dell'esistenza di

equilibri multipli ai quali si collegano altrettanti club di convergenza. Nel modello neoclassico la convergenza regionale può mancare se viene meno il meccanismo di risposta degli investimenti ai differenziali di rendimento direttamente proporzionali alla distanza in termini di dotazione di capitale tra le regioni leader e le regioni

follower, in base all'ipotesi di rendimenti marginali del capitale decrescenti. Questo fallimento del mercato

avviene se:

i. esistono imperfezioni di mercato che impediscono ai prezzi di riflettere il valore di mercato dei fattori produttivi (tipicamente le rigidità salariali di varia natura nel mercato del lavoro), oppure

ii. il capitale ha rendimenti di scala crescenti in presenza di esternalità spaziali (modelli di causazione

base di un semplice riscontro cronologico, un legame tra l’irrigidimento del meccanismo di fissazione dei salari (che ha prodotto una dinamica salariale non più in linea con i livelli di produttività delle regioni più deboli) e l’arresto del processo di convergenza. Di conseguenza basterebbe, secondo questa impostazione, differenziare adeguatamente la struttura salariale interregionale per far ripartire il processo di sviluppo del Mezzogiorno e il sentiero di convergenza. La riduzione del costo relativo del lavoro ridarebbe competitività alle imprese meridionali rispetto a quelle del Centro-Nord, promuovendo un impiego più intensivo del lavoro e un’espansione produttiva. Nuove imprese dall’esterno delocalizzarebbero nel Sud parte delle proprie attività, oppure aumenterebbe il ricorso alla subfornitura presso imprese del Sud. Sono tutti impulsi alla crescita dell’occupazione e allo sviluppo delle attività produttive.

In alcuni articoli si propongono modelli di crescita regionale nei quali l’evoluzione dei livelli salariali, determinata dal comportamento sindacale, giustifica la mancata convergenza tra le regioni. I canali di trasmissione di questo legame sono diversi (nel modello di Carmeci e Mauro (2002) è proprio l’aumento della disoccupazione, nel modello proposto da Faini (1999) è l’impatto sui flussi migratori dei lavoratori skilled e unskilled), ma i risultati abbastanza uniformi.95

Carmeci e Mauro (2002) studiano, il legame tra l’arresto della convergenza regionale rispetto al prodotto pro capite, verificatosi all’inizio degli anni settanta, e l’aumento della dispersione dei tassi di disoccupazione, sempre a livello regionale. Secondo loro, una relazione tra le performance di crescita delle regioni italiane e l’evoluzione dei rispettivi mercati del lavoro sussiste, sia a livello teorico che empirico. Il modello presentato considera il funzionamento del mercato del lavoro, caratterizzato dalle imperfezioni e dalle rigidità

95 Molto interessante è anche il modello proposto in Saint-Paul (1997). Anche qui è la mobilità dei lavoratori

skilled e unskilled il mezzo di trasmissione degli effetti dell’integrazione economica e dell’unificazione salariale

sulla performance dei mercati del lavoro regionali e sulla crescita regionale. In particolare la convergenza salariale verso i livelli della regione più avanzata, impostata sugli interessi dei lavoratori di tale regione, può provocare un aumento del tasso di disoccupazione nella regione svantaggiata, soprattutto se, come appare probabile, i costi delle migrazioni sono minori per i lavoratori più preparati. Inoltre, maggiore è la velocità di tale convergenza, maggiore è la distorsione apportata alle scelte di localizzazione degli investimenti e delle attività produttive a favore della regione più avanzata; se si considerano anche le esternalità date dall’aggregazione spaziale, si possono generare divari di benessere persistenti. Il modello si adatta bene al caso italiano (nonché al caso della riunificazione tedesca) perché descrive una situazione di asimmetria delle istituzioni del mercato del lavoro, con il sindacato dell’area ‹‹forte›› che ha il potere e l’interesse per imporre i propri standard salariali alla regione ‹‹debole››, a costo di penalizzarne la performance occupazionale. È il meccanismo citato da Brunello et

al. (2001), p. 104, nel loro contributo sull'evoluzione della disoccupazione regionale in Italia, e da loro così

descritto: “in a politically integrated area characterized by economic asymmetries wage formation is dominated by the economic interests of a leading region, then the conditions exist for regional unemployment disparities to be exacerbated”.

proprie del caso italiano, all’interno del paradigma neoclassico, nel quale la crescita di lungo periodo ha carattere esogeno ed è indipendente dal tasso di disoccupazione. Ne risulta un modello molto vicino al tradizionale modello di crescita neoclassico, a parte le imperfezioni del mercato del lavoro, e tale da dimostrare che “labor market rigidity negatively influences the growth of the economy during the convergence process”96. Tra le imperfezioni i due autori

evidenziano l'impatto del sistema di contrattazione centralizzato, in particolare dopo l'abolizione delle gabbie salariali. La contrattazione salariale, descritta da un modello di comportamento del sindacato e di mercato del lavoro basato sull’ipotesi dell’elettore

mediano, in assenza di differenziazione territoriale, avrebbe imposto un unico minimo

salariale, troppo alto per le condizioni di produttività delle regioni meridionali. Gli ampi divari territoriali nel tasso di disoccupazione dipenderebbero da questo e, a sua volta, il

mismatch regionale nel mercato del lavoro avrebbe condizionato i sentieri di crescita delle