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A. L’importanza di un inquadramento sistematico della pretesa

1. Considerazioni introduttive Il concetto di “utile” e le ragion

Giunti a questo punto dell’indagine, verificato che, tanto nell’esperienza giuridica italiana quanto in quella tedesca, i rimedi a disposizione del dan- neggiato – leso in un suo diritto di proprietà intellettuale – non si esaurisco-

no nel risarcimento del danno tradizionalmente inteso1 ma si estendono, in certa misura, anche agli utili dell’autore della violazione, pare decisivo comprendere su quale titolo si fondi tale pretesa.

Prima di procedere all’analisi di una questione che può sembrare puramente dogmatica, sono opportune alcune premesse.

Anzitutto, deve essere chiaro quale è il concetto di “utile” qui in rilievo. Si è già osservato che il guadagno ottenuto dall’autore della violazione gra- zie all’illecito può costituire un valido parametro per quantificare il lucro cessante del danneggiato. Questa ipotesi esula dall’indagine che si intende condurre, in quanto, a ben vedere, non pone problemi di ordine sistematico all’interprete e non aggiunge nulla di nuovo: il ragionamento è pienamente coerente con il meccanismo classico di determinazione del danno patrimo- niale risarcibile, tanto nell’ordinamento italiano quanto in quello tedesco. In entrambi gli ordinamenti, infatti, il mancato guadagno è oggetto di una valutazione di tipo equitativo del giudice2, il quale deve porre a fondamento della propria decisione indici che trovino un riscontro nella concreta fatti- specie illecita3.

Orbene, non può revocarsi in dubbio che, tra tali indici, anche il lucro del contraffattore possa rivestire un ruolo importante. Ciò, tuttavia, in tanto è concepibile in un’ottica ispirata al risarcimento del danno effettivo, in quan- to si accerti – e quindi si provi – una corrispondenza, altamente probabile (se non ragionevolmente certa), tra gli utili perduti dal danneggiato e quelli ottenuti dal danneggiante4.

Sulla scorta di questo ragionamento, già nelle premesse, si può giungere e tenere ferma una prima conclusione: il soggetto leso non può pretendere l’attribuzione degli utili dell’autore della violazione a titolo di risarcimento del danno, quando questo venga calcolato secondo la via tradizionale, ossia in concreto5.

1 Ci si riferisce al c.d. danno “effettivo”, come definito da C.M.BIANCA, Diritto civile, 5,

La responsabilità, Milano, 2012, p. 140 ss. Sul punto v. infra, sez. D).

2 Cfr., testualmente, l’art. 2056, co. 2°, cod. civ. Quanto ai rapporti tra § 252 BGB e § 287

ZPO, cfr., supra, Cap. II, nota 13.

3 Quanto all’ordinamento tedesco, il § 252 BGB precisa che occorre tenere conto del

«gewöhnlicher Lauf der Dinge» e delle «besondere Umstände». Quanto all’ordinamento italiano, l’art. 2056, co. 2°, cod. civ. invita il giudice a tenere conto «di tutte le circostanze del caso». Occorre, naturalmente, che gli elementi su cui può basarsi la valutazione del giudice siano prodotti in giudizio, sì da raggiungere «la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità)», il danneggiato avrebbe conseguito in assenza del fatto illecito o inadempimento (Cass. 19 dicembre 2006, n. 27149). Su questo punto, in senso sostanzialmente conforme, cfr., nella giurisprudenza tedesca, BGH NJW 2015, 3447, Rn. 49.

4 Circostanza che si verifica, ad esempio, quando i due soggetti operino sullo stesso

mercato e abbiano dimensioni paragonabili. Cfr. A.PLAIA, Allocazione contrattuale del

rischio e tutela civile della proprietà intellettuale, in Danno e resp., 2008, p. 501.

5 Si tratta, infatti, di due valori distinti che solo occasionalmente e, con dati presupposti,

In questa sede, quindi, si intende concentrare l’attenzione sul rilievo del lu- cro del danneggiante, indipendentemente dall’ammontare del danno concre- to cagionato dal medesimo. L’oggetto dell’analisi, in breve, sono gli utili in senso proprio, non il danno, che, per le date circostanze, è effettivamente corrispondente ai medesimi.

Può non essere banale precisare, allora, che tanto la Gewinnherausgabe te- desca (quale terza “Schadensberechnungsmethode”) quanto l’art. 125, co. 3°, cod. propr. ind.6 hanno ad oggetto gli utili conseguiti dall’autore della violazione al di là del danno effettivo cagionato, o, per meglio dire, a pre- scindere dalla rigida corrispettività al lucro cessante tradizionalmente inteso. Al di là di come è stata effettivamente articolata dalla giurisprudenza (in Germania) o dal legislatore (in Italia), il fondamento della pretesa del dan- neggiato al profitto dell’autore della violazione è tutt’ora oggetto di ampio dibattito in dottrina, che vede coinvolti – lo si può già anticipare – tre grandi istituti: l’arricchimento ingiustificato, la gestione di affari altrui e il fatto il- lecito.

In limine, ci si deve chiedere quale utilità abbia, nell’economia di questo la- voro e dalla prospettiva italiana, la ricerca del fondamento sistematico della pretesa del soggetto leso e in quale misura il civilista italiano possa giovarsi del confronto con l’ordinamento tedesco relativamente a questo tema. Con riguardo al primo aspetto, in particolare, si potrebbe obiettare che, esi- stendo (ora) una normativa specifica sul punto, il rilievo pratico della que- stione potrebbe dirsi in buona parte assorbito.

In realtà, anzitutto, preme osservare che l’attuazione della direttiva Enfor- cement nell’ordinamento italiano, se è effettivamente avvenuta in modo ra- gionato e tutt’altro che pedissequo rispetto al testo europeo, non può dirsi, d’altra parte, scevra di criticità.

Rimanendo nel diritto industriale, infatti, non sono certo cristallini i presup- posti di applicazione del terzo comma dell’art. 125 cod. propr. ind., così come non è chiaro il rapporto tra il rimedio specifico della c.d. retroversione degli utili e la regola risarcitoria generale del primo comma dello stesso ar- ticolo.

Già su questo primo e immediato piano, capire se il legislatore abbia codifi- cato un rimedio risarcitorio o restitutorio presenta una sua utilità: la ricerca di una soluzione, infatti, da un lato, consente la corretta ricostruzione dei presupposti dello specifico strumento (ad esempio, in punto di rilevanza dell’elemento soggettivo a livello di fattispecie e di quantum restituendi) e, dall’altro lato, permette una lettura armonica dell’insieme delle disposizioni, allo scopo di ricavare, dal complesso delle medesime, un quadro di norme coerenti.

Estendendo lo sguardo all’attigua materia del diritto d’autore, poi, è possibi- le cogliere un profilo ulteriore: nell’art. 158 l. dir. aut., il rimedio dell’art. 125, co. 3°, cod. propr. ind. non trova corrispondenti. Chiedersi se il sogget-

6 Quanto invece al riferimento contenuto nell’art. 125, co. 1°, cod. propr. ind. e nell’art. 158

l. dir. aut., la questione dovrà essere ulteriormente approfondita, come si preciserà già infra, nel testo.

to leso possa comunque avvalersene, in ragione della somiglianza della fat- tispecie di lesione, allora, apre la strada al ragionamento analogico – ove si riscontri, naturalmente, l’esistenza di una lacuna7.

Il problema degli illeciti lucrativi, tuttavia, riguarda, come si è visto8, diver- se aree del diritto privato, compreso il diritto civile in senso stretto (si pensi, esempio, all’ipotesi di lesione del diritto al nome o all’immagine). Qui, pe- raltro, il problema è avvertibile in modo ancora più netto, poiché, mentre nel diritto d’autore il giudice deve in qualche modo “tenere conto” dei profitti del danneggiante (ex art. 158, co. 1°, l. dir. aut.), altrove manca ogni riferi- mento normativo a questo indice.

In ogni caso, il punto è che, sia che si ragioni in chiave di “interpretazione” – e, cioè, si ritenga che, per le ipotesi di violazione che non rientrano nella proprietà intellettuale, il soggetto leso possa eventualmente ottenere qualco- sa di più del mero risarcimento del danno effettivo, sussumendo la fattispe- cie concreta nelle norme che definiscono gli istituti generali (arricchimento ingiustificato, gestione di affari altrui o illecito civile) – sia che si ragioni in termini di “integrazione” – ravvisando, quindi, una lacuna nell’ordinamento, ossia l’assenza, all’infuori della disciplina speciale del codice della proprietà industriale e della legge sul diritto d’autore (nella quale ultima, peraltro, non vi è traccia della c.d. reversione degli utili), di una norma che regoli le sorti del differenziale tra risarcimento e arricchimento, diviene centrale compren- dere a quale titolo (o a quali titoli) il danneggiato possa ricevere tutti o parte dei profitti dell’autore della violazione.

Nel primo caso, infatti, ricondurre il fondamento di una pretesa ad un istitu- to piuttosto che ad un altro si traduce nella necessità di seguire un determi- nato schema di disciplina, tanto in relazione ai presupposti che comportano l’insorgenza9 o l’estinzione10 dell’obbligazione, quanto alla quantificazione della prestazione oggetto della medesima.

7 La sussistenza di una lacuna in senso proprio (cfr. R. GUASTINI, Interpretare ed

argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu, F. Messineo

e L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2011, p. 127 ss.) dovrà naturalmente essere oggetto di indagine.

8 V. supra, Cap. I, par. 7. Quanto all’estensibilità analogica di norme speciali nel diritto

privato comune, v. supra, Cap. I, par. 4, ove si è discusso della Generalisierbarkeit dei

Sonderprivatrechte.

9 È chiaro, ad esempio, che se si qualifichi la pretesa come risarcitoria, occorrerà rinvenire,

nella fattispecie concreta, un atteggiamento quantomeno colpevole dell’autore della violazione; viceversa, se si ragioni in chiave di arricchimento ingiustificato, l’elemento psicologico sarà del tutto irrilevante. Il problema, naturalmente, si avverte solo quando il fatto, pur se antigiuridico, non sia imputabile al suo autore a titolo di colpa. A questo punto, è opportuno affrontare un’obiezione, possibile nell’ambito della proprietà intellettuale: si potrebbe dire che la distinzione testé operata avrebbe perduto il suo significato, atteso che il nostro ordinamento ammette pacificamente ipotesi di responsabilità oggettiva. Al riguardo, va chiarito che, secondo l’orientamento prevalente, il legislatore avrebbe riconosciuto una pluralità di criteri di imputazione possibili della responsabilità civile (prevedendo che, in determinati casi, un soggetto risponda oggettivamente, in ragione dell’attività svolta o della particolare relazione intrattenuta con la persona o la cosa cui è eziologicamente riconducibile il pregiudizio), pur assegnando alla colpevolezza – intesa in senso “oggettivo” – il ruolo di criterio generale, ossia di elemento costitutivo del fatto illecito,

Nel secondo caso, capire su quale fondamento poggino le norme che si vo- gliono applicare in via analogica, da un lato, è presupposto per cogliere la corrispondenza tra la ratio sottesa alle medesime e la specifica esigenza di tutela che sorge nell’ipotesi non disciplinata e che giustifica, quindi, la loro estensione (analogia legis) e, dall’altro lato, funge da chiave di lettura dei principi di cui esse sono espressione (utili per l’analogia iuris). Una siffatta analisi consente, altresì, di capire se le disposizioni in esame enucleino strumenti eccezionali, dettati in ragione delle peculiarità esclusive della pro- prietà intellettuale, insuscettibili, quindi, di essere estesi analogicamente. L’utilità della ricerca del fondamento sistematico della pretesa, peraltro, in- volge non solo i profili sostanziali ma anche quelli processuali.

Su questo punto, i termini della questione vanno individuati con precisione. Occorre puntualizzare, infatti, che, se è incerto il fondamento della pretesa in esame, non è revocabile in dubbio che si discorra, in ogni caso, di un di- ritto di credito avente ad oggetto una somma di denaro. Secondo una distin-

secondo lo schema dell’art. 2043 cod. civ., derogato dalle norme che definiscono ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr. C.M.BIANCA, Diritto civile, 5, cit., p. 579) Per questa via, si può argomentare in due diversi modi, concludendo: a) per la natura eccezionale delle norme che prevedano una responsabilità senza colpa: cfr. A. DE CUPIS,Dei fatti illeciti. Art. 2043- 2059, Bologna-Roma, 1971, p. 5; b) per la natura speciale delle medesime, con la conseguenza che sarebbe ammissibile una loro estensione analogica, pur se necessariamente attenta alle peculiarità della singola fattispecie (v. C. SALVI, La

responsabilità civile, in Trattato di diritto civile diretto da G. Iudica, P. Zatti, Milano, 2005,

p. 104). Peraltro, a prescindere da quale tesi si sostenga, la colpa, nella sua dimensione oggettiva, continuerebbe ad avere il ruolo di regola residuale e di chiusura del sistema: cfr. L. BIGLIAZZI GERI, U. BRECCIA, F.D. BUSNELLI, U. NATOLI, Diritto civile, 3, Le

obbligazioni, Torino, 1989, p. 688 ss. Da questo quadro, a ben vedere, emerge che, in

assenza di una norma specifica, una fattispecie di responsabilità può ricostruirsi come “oggettiva”, solo quando si riproducano le esigenze sottese ad altre ipotesi normativamente previste: in caso diverso, essa va ricondotta allo schema dell’art. 2043 cod. civ., da intendersi come generale e residuale. Orbene, come si è visto supra Cap. II, par. E.4., secondo una tesi sostenuta in dottrina, le ipotesi di violazione della proprietà intellettuale rientrerebbero nello schema di cui all’art. 2050 cod. civ. Tuttavia, senza contare che è dubbio che la norma da ultimo richiamata fondi realmente un’ipotesi di responsabilità senza colpa (per C.M. BIANCA, Diritto civile, 5, cit., p. 707 ss., essa comporterebbe semplicemente un’inversione dell’onere probatorio, rimanendo comunque elemento costitutivo della pretesa), va tuttavia rilevato che l’orientamento prevalente ritiene che la lesione di un altrui diritto di proprietà intellettuale configuri un’ipotesi di responsabilità per colpa. In ogni caso, a ben vedere, attenendo il problema della rilevanza dell’elemento soggettivo al piano della fattispecie, la riconduzione della pretesa nell’ambito di un istituto o dell’altro è centrale in tutti i casi in cui non si dubiti che si tratti di responsabilità colposa.

10 Il riferimento è, principalmente, ai diversi termini di prescrizione previsti dal codice per

il risarcimento del danno da fatto illecito aquiliano. Quanto all’arricchimento senza causa, occorre ricordare, poi, che, secondo l’impostazione tradizionale – la quale si fonda anche su una certa lettura dell’art. 2041, co. 2°, cod. civ. – il venir meno dell’incremento patrimoniale dell’arricchito costituisce fatto estintivo dell’obbligazione restitutoria: cfr., in chiave critica, P.SIRENA, L’azione generale di arricchimento senza causa, in Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, Milano, 2009, p. 571 ss.

zione nota ai processualcivilisti11, questa tipologia di diritti va ricondotta al- la categoria delle situazioni soggettive giuridiche eteroindividuate, le quali richiedono, per essere azionate in giudizio, la specifica individuazione della fattispecie concreta che le ha originate e che vale ad identificarle nella loro singolarità (causa petendi). In parole più semplici, l’attore deve allegare in giudizio tutti gli elementi di fatto da cui sorge il diritto fatto valere.

Nessun onere, invece, sussiste quanto alla qualificazione giuridica della pre- tesa12, atteso che la prerogativa di individuare le norme applicabili, spetta unicamente al giudice13.

11 Cfr., a titolo esemplificativo, C.MANDRIOLI,A.CARRATTA, Diritto processuale civile, I,

Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2016, p. 171 ss.; F.P.LUISO, Diritto

processuale civile, I, Principi generali, Milano, 2015, p. 59 ss.

12 Ciò in virtù del principio iura novit curia: riqualificando la domanda, dunque, il giudice

non viola il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 cod. proc. civ., ma anzi ottempera al dovere di pronunciarsi secondo le norme di diritto (art. 113 cod. proc. civ.) Su questi aspetti, cfr. C. MANDRIOLI, A. CARRATTA, Diritto

processuale civile, cit., p. 181; F. ROTA, Sub art. 112 cod. proc. civ., in F. CARPI,M.

TARUFFO (a cura di), Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2015, p.

472 ss. e, in giurisprudenza, Cass., 24 luglio 2012, n. 12943 (in materia giuslavoristica). Analogamente, in Germania, viene interpretato il § 253, Abs. 2, n. 2), ZPO, il quale individua, tra i contenuti necessari della Klageschrift, «die bestimmte Angabe (…) des

Grundes des erhobenen Anspruchs»: cfr. K. BACHER, sub § 253 ZPO, in Beck'scher

Online-Kommentar ZPO, diretto da V. Vorwerk e C. Wolf, München, 2017, Rn. 53. (ivi, p.

103 ss.).

13 Si tratta di un’applicazione del principio “iura novit curia”: cfr. A.PIZZORUSSO, Iura

novit curia. I) Ordinamento italiano, in Enc. giur., XIV, Roma, 1990, p. 1. Si discute se ed

in che limiti, tale potere-dovere competa anche al giudice dell’appello quando la qualificazione offerta dal giudice di prime cure non sia stata impugnata. Particolarmente esemplificativo è il caso del rapporto tra l’azione aquiliana fondata sull’art. 2043 cod. civ. e quella basata sull’art. 2051 cod. civ. Secondo una pronuncia del 2009 (Cass. 23 giugno 2009, n. 14622), se il danneggiato soccombente appelli la sentenza di primo grado, la quale, dopo aver ricondotto la fattispecie lesiva allo schema generale dell’illecito civile, abbia rigettato la domanda in ragione del difetto di colpa in capo al danneggiante, senza mettere in discussione la qualificazione della responsabilità operata nella medesima, ma semplicemente criticando la valutazione riguardante l’elemento soggettivo, il giudice dell’appello, in ragione dell’art. 346 cod. proc. civ., non può accogliere l’impugnazione sussumendo la fattispecie nella norma di responsabilità (para)oggettiva di cui all’art. 2051 cod. civ. L’orientamento dominante, tuttavia, non nega un simile potere (e dovere) al giudicante dell’impugnazione (cfr. Cass. 8 maggio 2015, n. 9294; Cass. 9 giugno 2016, n. 11805), rimanendo sempre preclusa, tuttavia, la possibilità di deviare la tutela richiesta su un diritto eteroindividuato diverso da quello azionato. Al riguardo, Cass. 5 agosto 2013, n. 18609, ha condivisibilmente ribadito il principio di diritto secondo cui «quando l'attore abbia invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 c.c., il divieto di introdurre domande nuove (la cui violazione è rilevabile d'ufficio da parte del giudice) non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ai sensi degli artt. 2050 (esercizio di attività pericolose) o 2051 (responsabilità per cose in custodia) c.c., a meno che l'attore non abbia sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli». La medesima pronuncia, peraltro, ha aggiunto un importante temperamento, il quale, nell’ottica della Corte, si fonderebbe su un principio di tutela del convenuto: «la diversa regola di imputazione, più favorevole all'attore danneggiato in quanto comportante anche un'inversione dell'onere probatorio in suo favore (com’è per gli

Non si deve dedurre da quanto si è detto, tuttavia, che per la parte che agisce in giudizio sia irrilevante la corretta qualificazione della pretesa fatta valere. Anzitutto, rimane fermo che la riqualificazione della domanda potrà portare al suo successivo accoglimento solo quando sussistano tutti i requisiti e, quindi, maturate le preclusioni, risultino in atti (e siano provati) tutti gli elementi costitutivi del diritto concretamente azionato.

Così, ad esempio, qualora il soggetto leso, agendo in giudizio, chieda la re- stituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione facendo ricorso alle norme sull’arricchimento senza causa, ma il giudice ritenga erronea tale qualificazione, la pretesa sarà riqualificata. Tuttavia, se dalla riqualificazio- ne della domanda deriva che l’attore avrebbe dovuto allegare (e provare) un ulteriore elemento costitutivo del diritto che allo stato difetta (ad esempio, riconducendo la pretesa al risarcimento del danno da fatto illecito, occorre che risulti l’atteggiamento almeno colposo dell’agente), la conseguenza ne- cessaria sarà il rigetto della medesima.

Sta di fatto, poi, che, se la qualificazione della pretesa può non essere la prima preoccupazione per chi introduce il giudizio14, alla quale, infatti, nulla

artt. 2050 e 2051 c.c.), in tanto può essere posta a fondamento dell'affermazione della responsabilità del convenuto stesso in quanto non gli si ascriva la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione ordinario della responsabilità originariamente invocato dall'attore (art. 2043 c.c.)»; in senso conforme a quest’ultima pronuncia, si veda Cass. 21 settembre 2015, n. 18463.

14 Occorre precisare, tuttavia, che la qualificazione della pretesa potrebbe avere un ruolo

determinante per individuare il giudice competente, tanto nelle fattispecie puramente interne, quanto in quelle con elementi di estraneità. Sotto il primo profilo, per la precisione, se il foro alternativo dell’art. 20 cod. proc. civ. italiano, non pone problemi, avendo come riferimento unitario il rapporto obbligatorio a prescindere dalla sua fonte, qualche perplessità potrebbe suscitare il § 32 ZPO, il quale detta una regola specifica per le obbligazioni che sorgano da “unerlaubten Handlungen” («Für Klagen aus unerlaubten

Handlungen ist das Gericht zuständig, in dessen Bezirk die Handlung begangen ist»). Per

la verità, commentatori di questa norma, in relazione ai casi di lesione di diritti di proprietà intellettuale altrui, risolvono la questione riconducendo a tale concetto tanto le azioni risarcitorie quanto quelle fondate sull’ungerechtfertigte Bereicherung e sul § 687, II, BGB (unechte Geschäftsführung), minimizzando quindi il rilievo della qualificazione della pretesa: cfr. R. PATZINA, sub § 32 ZPO, in Münchener Kommentar zur ZPO, München,

2016, Rn. 4. Analogamente, quanto a questo punto, potrebbe dirsi in buona parte riassorbita la carica problematica relativa alle fattispecie con elementi di estraneità, a cui si applichi il Reg. 1215/2012, c.d. Bruxelles I bis. Come noto, l’art. 7, n. 3, di tale regolamento individua