Per quanto ognuno preveda come effetto dell'attuale macello una serie di eventi economici e sociali assolutamente unici nella storia, superanti di gran lunga, in profondità ed estensione, le conseguenze delle maggiori guerre passate, nessuno ha ancora pensato a presentarci un quadro sintetico di questi probabili effetti, basato su dati demogra-fici ed economici sicuri. Le predizioni d'avvenire non sono in onore fra i cultori delle scienze sociali. Troppo spesso le previsioni apparen-temente meglio fondate si sono trovate smentite dai fatti, dalle famose predizioni catastrofiche del Marx sull'imminente rivoluzione sociale a quelle del Nietzsche sulla prossima « disparizione delle nazioni » nel turbine cosmopolitico. E le ragioni di questa incapacità profetica dello scienziato moderno sono ovvie. Non è tanto un'impossibilità oggettiva che ci vela le grandi linee dell'evoluzione futura del mondo (poiché le leggi naturali che la guidano sono per forza le stesse che hanno deter-minato la storia del passato e che la scienza sociale pretende scoprire) quanto l'estrema specializzazione scientifica, la mancanza di spirito sintetico, la ricerca appassionata del petit fait in un ramo ben deter-minato del sapere.
Se così non fosse, la previsione della storia economico-sociale dei prossimi IO o 20 anni dovrebbe apparire ai nostri sociologhi come ben meno problematica, dovrebbe sembrare la prova del fuoco per le pretese leggi storiche desunte dai tempi passati.
Vi sono però dei momenti nella vita dei popoli in cui è difficile resistere alla tentazione di fare il profeta : quando dei profondi cata-clismi minacciano di travolgere il benessere, la civiltà, la politica estera ed interna degli Stati. Ci si scuserà dunque se ci sforziamo di deter-minare, nelle seguenti pagine, non la totalità delle conseguenze econo-miche dell'attuale opera di distruzione, ma due pericoli che ci paiono particolarmente interessanti dal punto di vista della politica interna
-- 152 —
degli Stati: la crescente dipendenza loro dai propri creditori (resa particolarmente preoccupante dal pericolo di un'ulteriore concentrazione finanziaria) e la probabilità di una grandiosa evasione fiscale, di una *fuga dei contribuenti schiacciati, che pare debba essere la conseguenza
naturale della crescente mobilità degli uomini e dei capitali e dei cre-scenti oneri fiscali.
Non può essere il nostro intento di esaminare in poche pagine tutte le svariatissime conseguenze economiche e sociali di una grande guerra, della distruzione di milioni di vite e di miliardi di capitale. Parleremo unicamente dei suoi probabili effetti dal punto di vista della politica interna, dell'evoluzione futura degli Stati moderni.
Ci proponiamo cioè di provare che all'attuale rivolgimento politico dell'Europa deve far seguito una ben più grave e profonda rivoluzione interna degli Stati, una trasformazione appena sospettata nella com-pagine dei moderni Governi, nelle relazioni fra Governo ed individuo, uno sconvolgimento di tutti i nostri concetti politici.
Più di una ragione ci fa supporre che l'anno 1915 segnerà una data di primissima importanza nella storia dello Stato moderno. Probabil-mente quest'anno vedrà verificarsi il massimo assoluto della popolazione dell'Europa centrale ed occidentale, l'arrestarsi del consueto aumento, dell'eccedenza delle nascite sui morti e sugli emigranti.
Lasciamo agli storiografi economici il còmpito di determinare il pro-babile significato di un tale evento, e ci rivolgiamo senz'altro all'aspetto più grave — dal punto di vista politico interno — dell'odierna crisi, all'effetto finanziario della guerra.
Fra gli effetti più certi della guerra bisogna annoverare dei debiti pubblici assorbenti praticamente tutto il risparmio liquido del mondo, debiti fra 15 e 20 miliardi per Stato in caso di una guerra di 12 mesi, più 4 o 5 miliardi da spendersi a pace conclusa, in opere di ripara-zione, di armamento e d'indennizzi d'ogni genere.
Casomai le ostilità dovessero cessare prima dell'esaurimento totale dei risparmi, i primi anni di pace provvederebbero al resto... assor-bendo con prestiti produttivi ciò che la confisca improduttiva non potè inghiottire. Comunque sia, possiamo ammettere fin d'ora che nessun grande Stato belligerante uscirà dal conflitto con un debito pubblico inferiore a 15 o 20 miliardi contratto ad un interesse medio fra il 7 e l'80/0, e cioè con una spesa annua da 1.1 a 1.5 miliardi per soli inte-ressi. Nessuno potrà far a meno di un incremento durevole di spese di 3 o 4 miliardi, a cui bisogna aggiungere il minor gettito di tutte le imposte causato dalla distruzione di ricchezza naturale, che in Francia raggiunge già il 1 5 % all'incirca. Se la guerra dovesse protrarsi oltre
—• 153 —
12 mesi, certamente tanto la Francia quanto la Germania e l'Austria dovrebbero contare con un aggravio dei loro bilanci del 60 °/0 al-meno (1) (e cioè di 3 miliardi annui in Francia, di 4 o 5 in Germania) e con una riduzione della forza contributiva del 20 %•
Ciò significa che essi dovranno raddoppiare all'incirca il peso delle loro imposte (se la spesa cresce da 5 a 8 miliardi mentre il gettito delle imposte normale scende da 5 a 4, è evidente la necessità di col-pire la fortuna ed il reddito in misura doppia!).
Quali saranno le conseguenze politiche di questi fatti? La prima a verificarsi sarà evidentemente una forte evasione fiscale, una fuga dei contribuenti, che pochi anni dopo la guerra potrebbe assumere le pro-porzioni di un'epidemia. Come ogni movimento migratorio, quest'eva-sione prenderà probabilmente il carattere di una moda contagiosa, impiegherà cioè parecchi anni a raggiungere la sua piena efficienza per perdurare poi una diecina d'anni in proporzioni catastrofiche. Non si risponda che il fenomeno non si è mai verificato in modo tale da de-stare preoccupazioni. Anzitutto il periodo 1880-92 ha visto verificarsi un'emigrazione inglese, germanica, svizzera, ecc. di milioni d'individui fra i più intraprendenti ed i meglio provvisti di capitale, d'istruzione (movimento che non deve essere del tutto estraneo al prolungarsi della depressione 1873-79 fin verso il 1900 ed all'ostinata calata dei prezzi).
Un nuovo movimento di questo genere potrebbe bastare per togliere all'Europa l'egemonia del globo, facendo di Nuova York la capitale economica incontrastata.
Secondo ogni probabilità però la futura emigrazione non si limiterà alle dimensioni di quella verificatasi nel passato. Se dopo il 1871 tutta l'Europa soffriva di un profondo malessere economico e politico, non dimentichiamo che gli Stati Uniti uscivano allora dalla loro guerra civile (1) È noto che le guerre sogliono dare un forte impulso anche alle spese non
militari dei Governi. Lo dimostra l'esempio del Giappone, della Russia e degli
Stati Balcanici in questi ultimi anni. In Inghiltarra la guerra del Transvaal non contribuì poco ad accelerare l'evoluzione verso il socialismo di Stato di stampo germanico, portando le spese pubbliche da 94,7 milioni di sterline nell'anno 1894-95 a 144,3 milioni nel 1903-04. La Francia vide il suo bilancio salire, fra il 1869 ed il 1883, da 2209 a 3461 milioni, gli Stati Uniti da 350 milioni nel 1896 a 580 all'incirca nel 1904. Ora, già senza la guerra, la tendenza all'ipertrofia dei bilanci fu veramente allarmante negli ultimi anni. Basta ricordare che l'Impero Germanico e gli Stati Confederati spesero complessivamente 6163 milioni di marchi nel 1902, 6966 nel 1907, 8916 milioni nel 1912, e ciò prima dei gravi oneri militari degli ultimi anni! Non pare perciò esagerato aspettarsi per l'anno 1920 dei bilanci di 8 miliardi per i governi che attualmente ne spendono cinque.
-- 154 —
e parevano ben meno attraenti agli europei scontenti che non ora. Inoltre l'Unione nord-americana non è più oggi l'unico rifugio per la gente abituata all'ordine ed al confort europeo. Ognuno degli Stati sud-americani, ogni colonia inglese offre oggi almeno altrettante tenta-zioni, altrettante possibilità di successo quanto allora i soli Stati Uniti. Ecco perchè una futura emigrazione annua di 500.000 fra i tedeschi, gli austro-ungarici, i francesi più intraprendenti, più provvisti di capi-tale e maggiormente colpiti dai fisco non ci sembra affatto esagerata. Nessuno dei detti tre Stati potrà far fronte alle sue spese se non rad-doppiando il peso delle proprie imposte e facendo pagare agli abbienti un tributo relativamente maggiore che non alle classi popolari. Ora sappiamo che già attualmente il fisco assorbe in media da 15 a 18 °/0 del reddito nazionale. Dopo la guerra arriveremo dunque al 30 o 36 o 40 % almeno pei cittadini agiati.
Ora, non ci pare affatto probabile che i contribuenti assumeranno questo carico senza cercare di sottrarvisi. Per un anno o due l'entu-siasmo patriottico potrà forse fare dei miracoli..., ma dopo?
Dopo comincerà probabilmente una nuova èra nella storia politica del mondo, caratterizzata da una fuga generale dei contribuenti dai paesi ad alte imposte, dalla vittoria del cosmopolitismo pratico, dalla libera scelta delle patrie... Messa nel bivio fra sopportare tutto il peso di un passato politico di cui si sente innocente e scegliersi una patria nuova ai di là dei mari, la maggior parte dei contribuenti attivi ed intraprendenti opterà per la seconda chance. Essi si abitueranno poco a poco a « razionalizzare » la loro nazionalità, i loro sentimenti etnici, come abbiamo già tutti razionalizzato la scelta delle professioni, della residenza, del nostro ambiente immediato. L'europeo si abituerà a sce-gliere la propria patria, come sceglie oggi il proprio mestiere, la propria casa, la propria moglie. (Non dimentichiamo che or non è molto, tutte queste scelte erano praticamente sottratte all'arbitrio individuale, veni-vano imposte dal gruppo, dalla consuetudine, dai pregiudizi). A chi abbia osservato imparzialmente i progressi compiuti da mezzo secolo dal cosmopolitismo pratico del commercio, dell'industria, della scienza, delle lettere, ecc., una tale estensione della libera scelta non presenta niente di fantastico. Niente di più caratteristico pel nostro secolo della lenta razionalizzazione di tutti i lati della nostra esistenza, dall'attività industriale e commerciale alla limitazione delle nascite, ai progressi dell'igiene, al movimento per l'eugenica, per l'abitazione salubre, per le città-giardino. Non si capisce perchè il moderno patriottismo nazio-nale (che oggi si trova fortificato dalla politica centralizzatrice dei moderni Stati, dalla fusione dei patriottismi locali, ecc.) dovrebbe avere,
-- 155 —
in fin dei conti, una sorte diversa da quella toccata ai sentimenti di solidarietà fra membri d'una stessa famiglia, d'una stessa città o pro-vincia, di una stessa fede religiosa.
Non vi potrebbe evidentemente essere motivo più potente a dare una spinta fatale a questa evoluzione dell'aggravarsi degli oneri fiscali e della profonda depressione economica che seguirà probabilmente la guerra. Ingannati nelle loro più care speranze, i cittadini degli Stati soccombenti saranno i primi a disertare e si vendicheranno crudel-mente dell'inganno subito da parte di un Governo agente nel loro nome. È poco probabile che la parte soccombente parli del suo attuale Governo altrimenti, fra 10 anni, che non i francesi d'oggi di « quel sinistro » Napoleone III.
* * *
Ma quali le conseguenze politiche di una tale evoluzione ?
Non crediamo di esagerare affermando che essa ci prepara alla più profonda rivoluzione politica della storia : alla libera concorrenza fra Stati, e cioè al contrario esatto dell'evoluzione sperata dai socialisti che credettero ad una progressiva statizzazione di tutte le attività sociali abbandonate ancora alla concorrenza individuale. Non l'iniziativa privata si troverà man mano assorbita dagli Stati, ma gli Stati subi-ranno la concorrenza al pari di qualsiasi impresa industriale e dovsubi-ranno trasformare i loro metodi di governo e d'amministrazione alla loro immagine.
Cerchiamo di immaginarci un momento le conseguenze pratiche del fenomeno suaccennato: di una grande evasione fiscale, di una fuga epidemica dei contribuenti schiacciati dai loro Governi. Evidentemente gli Stati minacciati da un tale pericolo perderanno molto del loro pre-stigio di fronte ai governati, dovranno trattare il contribuente non più da padrone a servitore, ma come un qualsiasi industriale tratta i propri clienti : da uguale ad uguale ! Ciò forse non accadrà per la massa dei contribuenti piccoli, la cui emigrazione o evasione non mette in peri-colo il bilancio pubblico, ma sarà certamente il caso pei contribuenti maggiori, di fronte ai « re » della finanza, dell'industria, dell'opinione pubblica, dei trusts. Essi acquisteranno poco a poco un'influenza poli-tica che nessuna costituzione scritta, nessun decreto reale potrebbe loro conferire : influenza uguale a quella del grande azionista in una società anonima !
Aggiungiamo a questo la tendenza del mondo moderno all'accentra-mento industriale e finanziario, alla crescente potenza economica di pochi trustiers privati, che fu spesso descritto come uno dei maggiori
-- 156 —
pericoli per la civiltà moderna. Aggiungiamo la tendenza dell'opinione pubblica a concentrarsi di più in più fra le mani di pochi giornalisti-principi, della banca a riunire il controllo del capitale nelle mani di pochi re della finanza, creditori dei privati e dei Governi, e potremo farci un'idea della serietà del pericolo che ci minaccia.
Accanto ai Governi legalmente costituiti, accanto ai verbosi Parla-menti vediamo sorgere un nuovo Governo oligarchico di banchieri, di trustiers e di editori di giornali, di cui la cosidetta « opinione pub-blica » e lo stesso Parlamento tendono a diventare i portavoce.
Pochi sociologhi si sono occupati finora della crescente influenza politica dell'alta finanza, che pare crescere al pari della concentrazione bancaria e finanziaria (concentrazione che potrà assumere delle pro-porzioni catastrofiche nel caso di una lunga e forte depressione econo-mica) e della diffusione dei risparmio nelle classi medie ed inferiori. Contrariamente ad un pregiudizio molto diffuso, crescente diffusione del capitale non significa infatti crescente uguaglianza della potenza eco-nomica, del controling power inerente ai capitali, ma crescente potenza dei soli mediatori di credito : dei banchieri. Mentre il grande e medio capitalista gode di fronte al banchiere una relativa indipendenza (capace come è di far valere direttamente il proprio risparmio), essa manca al piccolo risparmiatore.
La Francia, paese della maggiore diffusione del risparmio, è anche il paese della più potente oligarchia finanziaria. Ed una tendenza ana-loga si può osservare dappertutto dove la proprietà mobile si va diffon-dendo. La crescente uguaglianza di fortune non fortifica la democrazia nel senso politico della parola, ma la trasforma in plutocrazia bancaria. Il pericolo è stato nettamente segnalato dal LE BON in La psychologie du socialisme. Uno dei pericoli più preoccupanti per la moderna civiltà, disse, è la crescente potenza politica che l'alta finanza esercita per
mezzo della corruzione parlamentare e giornalistica o semplicemente per mezzo di una crescente ingerenza nella vita politica ed economica. Si prepara così silenziosamente un nuovo Governo anonimo, ma onnipo-tente, di cui l'opinione politica, l'organizzazione dei partiti e gli stessi poteri costituiti tendono a diventare gli strumenti. « Ce gouvernement u en voie de formation — scrive E. F A G U E T — ria aucun ideal, ni « mordi, ni intellectuel. Il riest ni bon ni me'chant, il considère l'hu-« manite' cornine un troupeau qriil faut faire travailler, qriil faut nourrir, u qriil faut empccher de se battre et qriil faut tondre... Il est insou-« cieux de tout progrès intellectuel, artistique et moral. Il est interna-u tional, ria pas de patrie et tend, sans dinterna-u reste s'en inqinterna-uirter, a u exterminer dans le monde l'idee de patrie ».
-- 157 —
Certamente un quadro ben nero, per coloro che dimenticano che i governanti attuali non sono in media più disinteressati e che già il solo fatto d'impedire i popoli di battersi segnerebbe una sensibile supe-riorità di questo Governo futuro!
È difficile rendersi esattamente conto della profondità di un tale sconvolgimento di tutte le nostre abitudini, di tutte le nostre nozioni
politiche. .. A chi sappia leggere fra le linee della recente letteratura
poli-tica appare evidente una profonda trasformazione nel nostro modo di considerare lo Stato ed i doveri rispettivi del Governo e dei citta-dini Da una « autorità » sovranaturale, semidivina, qual'era pei nostri padri lo Stato tende a diventare, agli occhi degli spregiudicati e degli uomini d'azione, poco più di un male necessario ; più esattamente : un'azienda economica, una società industriale dedicata ad un ramo speciale di produzione (produzione di diritto e di sicurezza interna ed esterna).
Tutte le nostre lotte politiche rispecchiano il conflitto fra due modi di considerare lo Stato : fra una nozione mistica ed autoritaria ed una nozione utilitaria dello Stato, fra lo Stato padrone e lo Stato servitore dei cittadini. Di questa lotta il movimento democratico del secolo pas-sato fu un episodio, ma probabilmente non l'ultimo... Per gli uni lo Stato rappresenta ancora una « autorità », un potere mistico posto al disopra di ogni altra potenza, per gli altri esso è una specie di grande società anonima, un'azienda dello stesso ordine e della stessa stoffa di tante altre, sulle quali ha unicamente la superiorità della potenza e della grandezza.
Potremmo parlare anche di una nozione medioevale e di una nozione moderna dello Stato, poiché è evidente che lo Stato-autorità, quale viene celebrato dai socialisti della cattedra e dai « filosofi del diritto » germanici, non è altro che una reminiscenza dello Stato proprietario dei cittadini, quale lo si concepiva nel medio evo. In fondo non sono mai esistiti che due concetti dello Stato : lo Stato padrone o - per parlare più onestamente - proprietario dei sudditi e lo Stato
stru-mento della nazione, lo Stato organo come tanti altri. Soltanto il primo rappresenta qualche cosa di sostanzialmente diverso da tuttte le altre formazioni sociali, mentre lo Stato-strumento dei governati non diffe-risce sostanzialmente da qualsiasi grande società industriale o scien-tifica, da qualsiasi chiesa o partito politico, che rappresentano anche loro una parte più o meno importante della « volontà nazionale ».
Colla fuga dei contribuenti e colla libera scelta della patria la vit-toria di questo concetto moderno dello Stato verrà evidentemente
-- 158 —
affrettato di molto. Un numero crescente di cittadini si abituerà a vedere nel proprio Governo non più un'entità sovranaturale, ma una azienda industriale come un'altra, un semplice fornitore di giustizia, di sicurezza, d'istruzione, ecc., da giudicarsi unicamente secondo la bontà ed il prezzo dei servizi resi.
La conseguenza inevitabile di una tale morale politica sarà la soli-darietà dei contribuenti oppressi di fronte a Governi dilapidatori, di fronte ad una classe burocratica improduttiva e dedicata ad interessi proprii, un maggiore scetticismo di fronte alle declamazioni dei politi-canti democratici, un più sobrio apprezzamento dei possibili vantaggi di nuove ingerenze statali, di nuove spese pubbliche.
Siccome l'aumento vertiginoso dei loro bilanci costringerà i Governi a rigettare sulle classi intraprendenti ed agiate una parte sempre più cospicua dei loro oneri, questa classe finirà col prendere coscienza dei suoi speciali interessi, e si vedrà finalmente sorgere quel partito poli-tico atteso invano da molti decenni : il partito dell'economia e dei contribuenti : il partito liberista.
Per quanto debole numericamente, un tale partito potrebbe eserci-tare un'influenza politica decisiva per mezzo della sua potenza econo-mica. Sarà un partito senza eiettori, ma disponente di armi infinita-mente più potenti dei maggiori partiti odierni : dell'opinione pubblica sindacata sotto forma dei grandi quotidiani, delia minaccia di sciopero finanziario da parte dell'alta banca e dei grandi contribuenti.
Data la crescente dipendenza dei Governi dai proprii creditori e dai grandi contribuenti e dato il rapido accentramento della po-tenza finanziaria fra poche mani (accentramento che farà dei passi decisivi non appena una prossima depressione industriale costringerà alla limitazione delle spese improduttive, alla fusione delle grandi im-prese ora in concorrenza fra di loro), la trasformazione delle moderne democrazie in altrettante plutocrazie di stampo americano non pare più che una questione d'anni. Ogni nuovo aggravio degli oneri fiscali costringerà i re della finanza, della stampa, dell'industria, ecc. ad una maggiore attività politica, spingerà cioè ad una maggiore commercia-lizzazione dell'opinione pubblica per mezzo della stampa e dei bosses, creerà ovunque una specie di trust delle influenze potitiche in intima dipendenza dai trusts già esistenti.
Se i contemporanei non vogliono ancora credere all'imminenza del