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Se consideriamo la nascita della fenomenologia ad opera di pensatori come Brentano, Husserl e Merleau-Ponty, ai quali è dedicato il secondo capitolo, le

dinamiche dualismo-monismo possono dirsi risolte. La fenomenologia guarda alla polarità mente-corpo secondo la nuova proposizione del problema come dialettica tra interno ed esterno, tra percezione e azione, o, per dirla con i termini cari ai fenomenologi tra Korpër e Lieb. Per completezza, però, è necessario, messa, per il momento, tra parentesi la fenomenologia, prendere celere visione di alcuni pensatori che hanno riflettuto sulle nostre questioni anche in pagine di filosofia contemporanea. Non possono essere lasciati fuori dalla nostra riflessione autori come Bergson, Wittgenstein, Ryle e le moderne teorie della mente.

Nel 1896, Bergson scrive Materia e memoria, il cui sottotitolo è Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito. Bergson non si pone né tra le fila dei materialisti, né tra le fila degli idealisti. Inaugura un filone che trova poi ampio spazio nella fenomenologia per il quale la materia è l’immagine che noi ne abbiamo. I tempi, all’alba del Novecento, sono ormai maturi perché la riflessione si sposti allo studio dei meccanismi cerebrali per chiedersi se l’immagine della realtà e la realtà stessa coincidano.

Questo libro sostiene la realtà dello spirito, la realtà della materia, e si propone di determinarne il rapporto su un esempio preciso, quello della memoria. È dunque nettamente dualista. Ma, d’altra parte, il corpo e lo spirito vengono qui considerati con la speranza di riuscire ad attenuare molto, se non a eliminare, le difficoltà teoriche che il dualismo ha sempre

sollevato e che fanno sì che, sebbene sia suggerito dalla coscienza immediata e adottato dal senso comune, goda di una così scarsa sti- ma presso i filosofi. (Bergson, 2009, pp. 143-44).

Per Bergson bisogna distinguere vari livelli di vita psichica nel loro rapporto con l’attività cerebrale, per i quali la memoria rappresenta il punto di intersezione. Se pensiamo, per esempio, all’azione, il rapporto è diretto, se, invece, volgiamo il nostro interesse alla coscienza, il legame tra vita psichica e attività cerebrale non è molto immediato e questo legame non riesce a cogliere bene tutte le dimensioni dell’interiorità. Per questo motivo, come suggerisce il sottotitolo, Bergson, sente l’esigenza di recuperare lo spirito e, grazie a questo, di declinare il problema mente- corpo, secondo l’altro suo problema d’elezione, quello del tempo e della durata. In questo contesto, Bergson riesce a distinguere tra percezione e ricordo, indicando nella prima il rapporto esclusivo con il presente e nel secondo il rapporto con il passato e la durata. In una sorta di materialismo dualistico, la materia sarebbe legata alla percezione, mentre il ricordo corrisponderebbe a una certa interpretazione soggettiva donatrice di proprio significato. L’immagine della realtà sarebbe quindi l’unione della percezione, come oggettiva e legata al presente e la sua interpretazione soggettiva, maturata secondo i propri ricordi. Questo spiega per Bergson la differenza tra mente e cervello. Non solo sono eterogenei e rimandano a realtà diverse, una oggettiva, la materia e l’altra soggettiva, la memoria, ma ribadiscono la funzione essenziale del corpo perché è l’occhio della percezione e attraverso di esso viviamo il presente e la materia del mondo.

Di qui l’importanza capitale del problema della memoria. Se la memoria è ciò che comunica alla percezione soprattutto il suo carattere soggettivo, la filosofia della materia, dicevamo, dovrà mirare innanzitutto a eliminarne l’apporto. E ora aggiungiamo che, poiché la percezione pura ci dà la totalità o per lo meno l’essenziale della materia, e poiché il resto proviene dalla memoria e si aggiunge alla materia, è necessario che, per principio, la memoria sia una capacità assolutamente indipendente dalla materia. È proprio qui, nel fenomeno della memoria, che dobbiamo verificare sperimentalmente se lo spirito sia una realtà. E, di conseguenza, ogni tentativo di far derivare il ricordo puro da un’operazione del cervello, dovrà rivelarsi all’analisi come un’illusione fonda- mentale (Bergson, 2009, pp. 193-195).

Se Bergson è ancora intriso del problema del tempo e della temporalità, tipicamente tardo-ottocentesco, e da questo cerca di guardare anche al dualismo

mente-corpo, Wittgenstein, dopo la lezione del Neopositivismo logico e la parabola del Novecento come secolo dei linguaggi, si chiede se esista o meno un linguaggio, per così dire, privato, comprensibile e traducibile solo al e dal singolo e precluso agli altri. Secondo Wittgenstein, il problema mente-corpo è un problema linguistico e non deve essere analizzato dal punto di vista di teorie precise, ma nel significato che la comunità dei parlanti attribuisce alle singole parole e nell’uso stesso che i parlanti fanno del linguaggio. Il filosofo, con le sue osservazioni si oppone al mentalismo che non vuole ridotta la mente al cervello. Un cervello per il quale i processi interni non sono accessibili dagli altri, o, meglio, sono accessibili solo all’individuo; e al comportamentismo per cui non esiste nulla che non sia osservabile e per questo motivo non avrebbe senso parlare di stati interni. Wittgenstein, facendo riferimento ad espressioni in prima persona, indicanti stati di dolore ed emotivi, sostiene che queste siano intendibili da tutti, non in funzione della loro corrispondenza di senso comune a tutti, ma perché possiedono una propria grammatica che ne definisce gli ambiti d’uso e la comprensibilità comune. Questi ambiti d’uso come codifiche sono comuni a tutti i parlanti di una stessa lingua e legittimano il carattere pubblico e quindi esperibile oggettivamente. Quando, invece, la codifica non avviene, l’espressione diventa privata, come incomunicabile ed impossibile. Il modo di affrontare le questioni filosofiche da parte di Wittgenstein è senza dubbio originale e il corpo stesso non può, per il filosofo, essere conosciuto in sé, su un piano metafisico, ma solo come dato dell’esperienza. In questa prospettiva particolare, allora, non si tratta di capirne la natura ma di investigare l’uso che ne facciamo nel linguaggio, soprattutto in quanto significato.

Noi sentiamo allora che, nei casi in cui “io” è usato come soggetto, noi non l’usiamo perché riconosciamo una persona particolare dalle sue caratteristiche corporee; e ciò crea l’illusione che noi usiamo questa parola come riferentesi a qualcosa di incorporeo, che, tuttavia, ha sede nel nostro corpo. Infatti, questo sembra essere l’ego reale, quell’ego del quale si è detto: “Cogito ergo sum”. – “Allora non c’è una mente, uno spirito, ma solo un corpo?” Risposta: la parola “mente” o “spirito” ha significato, ossia ha un uso nel nostro linguaggio; ma dire ciò non è ancora dire che genere d’uso noi facciamo (Wittgenstein, 1983, p. 95).

Da Wittgenstein in poi, la filosofia analitica prende ad occuparsi come argomento eletto del problema del corpo. Uno degli esponenti autorevoli di questa prospettiva linguistica è Gilbert Ryle, che pone la riflessione su alcuni specifici fraintendimenti linguistici che definisce “errori categoriali”, consistenti nell’attribuire parole a categorie, a volte, impropriamente. La vecchia domanda su cosa sia la mente è quindi il campo di indagine di Ryle (1900-1976). Proprio la domanda cartesiana offre al filosofo anglosassone la possibilità di parlare del “mito del fantasma della macchina” (2007), come la credenza di una fantasma, di una entità immateriale ospitata nel corpo, come estranea e senza modificazioni, operate o subite. In realtà, sostiene Ryle, quella che abbiamo sempre chiamato con il nome mente, non è una entità misteriosa e inafferrabile, ma il semplice nome di una funzione del corpo.

I filosofi contemporanei si son dati da fare intorno al problema della nostra conoscenza delle menti altrui. Intralciati dal dogma dello spettro nella macchina, hanno spesso trovato impossibile dimostrare in modo logicamente soddisfacente che una persona può credere nell’esistenza di menti altre dalla sua propria. Io posso vedere ciò che fa il tuo corpo ma non ciò che fa la tua mente, e ogni mia pretesa di inferire dalle opere del primo quelle della seconda deve cadere di fronte all’inadeguatezza o all’inconoscibilità delle premesse medesime in un tale inferire (Ryle, 1995, pp. 48-49).

Se dovessimo individuare la direzione della storia del problema mente-corpo, questa dovrebbe essere quella di un progressivo distaccamento dalle dimensioni spiritualistiche e metafisiche. Questo allontanamento, che durante l’Ottocento s’è caricato anche di una serie di significati politici, oggi è del tutto completato. Siamo persuasi che i fatti mentali siano precisamente riconducibili a fatti fisici e questa interpretazione, per sottolineare la distanza dal metafisico, prende il nome di fisicalismo. Secondo il fisicalismo ogni fatto mentale dipende da un particolare stato del cervello. Allo stato attuale delle conoscenze, questa corrispondenza può, in alcuni casi, essere descritta in dettaglio, come dimostrano i numerosi studi ed esperimenti sul cervello che legge e sul cervello che sente, portati avanti dall’equipe di Università di Parma.

Il fisicalismo, tuttavia, non è l’unica teoria che nega l’esistenza della mente. Il comportamentismo, per esempio, non occupandosi del problema della

identificazione del fatto mentale con lo stato cerebrale, concentra tutta la sua attenzione sull’attività dell’individuo, unico fattore osservabile. L’attività del singolo, il suo comportamento è tutto ciò che del soggetto deve e può essere conosciuto. Emozioni, stati d’animo e sentimenti sono ridotti a disposizioni comportamentali, a reazioni determinate da eventi fisici e statisticamente provate. Tra le teorie comportamentiste si profila poi la proposta di Hilary Putnam, che non nega assolutamente l’esistenza di stati interni e, anzi, ne fa derivare i comportamenti e le funzioni del soggetto. Questa proposta prende il nome di funzionalismo.

La morale mi sembra chiarissima: non è più possibile credere che il problema mente-corpo sia un problema teorico genuino, o che una sua «soluzione» getterebbe un qualche spiraglio di luce sul mondo in cui viviamo. Perché è chiarissimo che nessun uomo adulto in pieno possesso delle sue facoltà mentali prenderebbe mai in seria considera- zione il problema dell’«identità» o «non identità» degli stati logici e strutturali di una macchina: non perché la risposta sia scontata, ma perché è scontato che non ha alcuna importanza di quale risposta di tratti. Ma se il cosiddetto «problema mente-corpo» altro non è che una versione diversa del medesimo insieme di questioni logiche e linguistiche, allora deve essere altrettanto vuoto e altrettanto verbalistico (Putnam, 1987, p. 415).

Secondo i funzionalisti il comportamento deriva dagli stati interni, ma non in rapporto uno ad uno, comunque non misurabile, quanto invece in una relazione tra più stati interni. La metafora che spesso si utilizza per comprendere il funzionalismo è, infatti, proprio quella di hardware e software del computer. Fuor di metafora, però, per i funzionalisti, analizzando gli stimoli sensoriali ed ambientali e il comportamento siamo in grado di ricostruire le operazioni mentali. Esse, quindi, devono in qualche modo dipendere da stati cerebrali, ma ciò è indifferente per la comprensione del comportamento stesso. Il riferimento al funzionalismo è fondamentale perché attraverso di esso si aprono le porte alle ricerche sull’intelligenza artificiale e la comprensione di alcune dinamiche del funzionamento computazionale della mente umana.

A ben guardare la matassa iniziale del problema mente-corpo si è dipanata, tanto che ormai la questione sembra ridursi all’esclusivo problema del funzionamento della mente. Una tale riduzione non è però positiva. Siamo partiti dal problema del

corpo e della mente, abbiamo seguito il dipanarsi di questa matassa, ma siamo arrivati alla distruzione del filo stesso, ormai senza intreccio e senza corpo. Gli studiosi e, paradossalmente, non solo più i filosofi, avvertono questo pericolo. I neurofisiologi allarmano sulla necessità di mantenere un pensiero incarnato, una mente in carne ed ossa, pena una nuova, questa volta incontrovertibile, cacciata dall’Eden. Gli studi sull’intelligenza artificiale, per quanto abbiano prodotto buoni risultati in alcuni campi come la realtà virtuale, il riconoscimento vocale e i programmi di traduzione e simulazioni, hanno dimostrato la radicale differenza tra computer e cervello. Partendo da questi risultati, è stata proposta a partire dagli anni Sessanta, ma diffondendosi soprattutto nell’ultimo decennio, una nuova teoria della mente, il connessionismo.

I connessionisti, studiando il sistema neurale, hanno compreso che la metafora del computer non è sufficiente e ribadiscono la differenza netta tra i network della macchina e i network neuronali dell’uomo. Tra il sistema neurale e il computer c’è soprattutto una differenza nella struttura logica: il computer opera in modo sequenziale, il cervello soprattutto mediante le migliaia di connessioni tra i neuroni, connessioni che risultano più importanti, rispetto alle operazioni mentali, dei neuroni stessi.

Funzionalismo e connessionismo concordano comunque sull’orientamento di fondo: oggetto della ricerca non è “che cosa” è la mente, ma come funziona, e soprattutto la costruzione di modelli che possono consentirci di comprenderne meglio le caratteristiche. Il modello, qui come altrove, non vuole essere una descrizione della realtà, ma un’interpretazione della stessa per studiare in modo più efficace l’ambito dei fenomeni correlati.

Se le teorie più innovative hanno portato fino alla eliminazione del corpo nella prospettiva di una qualche spasmodica intelligenza artificiale, oggi si sente l’esigenza di trovare una terza via possibile, né dualistica, né monistica, poiché sia i tentativi di elaborare teorie sul primo fronte, sia le tecnologizzazioni contemporanee di secondo fronte, dimentico del corpo, hanno condotto a risposte parziali o violente. Una terza via è possibile: la via neurofenomenologica.

Rappresentata dall’incontro della fenomenologia, di paternità husserliana, con le scienze cognitive, nella sua declinazione definibile come emergentista, la neurofenomenologia recupera le istanze fondamentali del discorso fino a qui condotto, mantenendole salde. Recupera l’importanza dell’esperienza soggettiva in prima persona, come punto di partenza di ogni osservazione su noi stessi e sul mondo e specifica l’interesse per l’aspetto biologico dell’attività del sistema nervoso. L’esperienza soggettiva e il livello biologico della psiche stanno tra loro in una dinamicità e processualità incessante. Inoltre, la mente così intesa è insieme una mente embedded, cioè è sempre in relazione, anzi è una relazione tra organismo e ambiente e una mente embodied, ossia incarnata in un corpo con possibilità di azione sul mondo.

Prima, però, di indagare i termini di questa prospettiva è necessario recuperare quel passaggio della fenomenologia che in questo capitolo è stato momentaneamente sospeso.