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L’ESPERIENZA DELLA FENOMENOLOGIA

2.1. L’intenzionalità e le novità di Brentano

Nel capitolo precedente, si è tentata la ricostruzione della storia del pensiero del corpo, secondo alcuni autori, considerati pietre miliari per la questione del mind- body problem. Non sono gli unici: una selezione si è resa necessaria per l’individuazione di momenti di rivoluzione, cambiamento e novità. In questa selezione, il periodo della fenomenologia, da Husserl alle odierne implicazioni neurofenomenologiche, rappresenta un periodo estremamente importante per delineare gli approcci del paradigma dell’embodiment. A questo periodo è dedicato il presente capitolo.

Per tirare le somme delle riflessioni fatte nel precedente capitolo, si può dire che all’insegna del principio dell’evidenza e della differenziazione interno/esterno si sono susseguiti pensatori di origini e interessi diversi. Il Metodo (2000) delineato da Cartesio ha caratterizzato il sistema e le intuizioni di ogni successiva applicazione e descrive, per lo meno nei primi momenti, anche il punto di partenza della esperienza fenomenologica.

Edmund Husserl è considerato unanimemente il padre della fenomenologia, ai nostri fini, prima di analizzare il suo pensiero, è utile compiere un piccolo passo indietro e delineare le influenze che, al filosofo, sono giunte dal suo maestro Franz Brentano (1838-1917).

Filosofo della intenzionalità, così definito dalla letteratura, Brentano compie un passo ulteriore rispetto alla discriminazione tra l’oggetto reale e l’oggetto fenomenico. Al di là della divisione tra un oggetto a sé stante e indipendente dal percipiente e un oggetto percepito internamente dall’individuo, le analisi del filosofo tedesco si concentrano sulla distinzione fondamentale tra l’oggetto del percepire e l’atto stesso della percezione. In questa analisi, il criterio dell’evidenza inizia a sfumare per svilupparsi nella dimensione della immediatezza e della certezza. Brentano, partendo dalla lettura e dallo studio della teoria dell’anima aristotelica, descritta nel primo capitolo, inizia a porre attenzione sulla questione della verità, posta da Aristotele. Nel pieno spirito del Positivismo, il filosofo riflette sul criterio della verità e, parallelamente del suo contrario, notando che ha senso quando si riferisce a un’affermazione o ad una negazione, legata al pensiero. Quando, infatti, un giudizio è predicativo e indica la connessione tra un predicato e una sostanza, tra un soggetto e un verbo, è necessario capire quale sia la natura del giudizio stesso, espressa dal predicato verbale per definire la sua veridicità e quale sia il dato di fatto dell’azione del soggetto; di più, bisogna stabilire se tra il dato di fatto e il predicato vi sia concordanza. Se questo è immediato per i giudizi che predicano la realtà delle cose, la stessa immediatezza non può essere riferita a giudizi non predicativi. Nel caso dei giudizi non predicativi non è possibile stabilire la concordanza tra il soggetto del giudizio e la datità della realtà, poiché questi intendono riferire soltanto l’essere o il non essere dell’oggetto, sulla esistenza o sulla non esistenza dell’oggetto, senza individuare le differenti forme e possibilità dell’oggetto stesso. Seguendo questa linea, il giudizio non predicativo asserisce solo la verità (o la falsità) della tesi che lo pone, nel soggetto giudicante (Palmiero, Borsellino, 2014). Brentano fa derivare dal giudizio sull’esistenza delle cose l’impossibilità che queste stesse si diano indipendentemente da una soggettività. È qui che si intravede l’intuizione di Brentano. Essendo impossibile per i giudizi non predicativi il criterio della verità, basato sulla evidenza e sulla corrispondenza della datità e del predicato, il filosofo si accorge che il giudizio sull’esistere è un giudizio su un atto, l’atto della percezione. Un esempio può aiutare: nel caso di una percezione visiva, la cosa evidente, non è, per il filosofo, la cosa stessa o il colore della cosa, ma l’atto stesso del vedere. A diventare evidente non è la datità della

cosa, considerata l’impossibilità della concordanza, quanto piuttosto il fatto stesso che si sta guardando la cosa o il colore della cosa. L’evidenza non è data dalla concordanza tra il visto e il vedente, ma dall’atto percettivo stesso. La trasformazione dell’atto della percezione come momento garante del criterio di evidenza non basta a Brentano per risolvere la questione della dialettica interno ed esterno, che ritorna anche nella sua speculazione. Il filosofo propone la discriminazione, già teorizzata da Cartesio, limitando il campo della psicologia empirica, che si occupa della percezione interna e dunque dei fenomeni psichici, contrari ai fisici, il cui dominio è della percezione esterna. Anche nella discriminazione tra percezione interna dei fenomeni psichici e percezione esterna dei fenomeni fisici, però, c’è una importante tratto distintivo che richiama, ante litteram, l’approccio embodied. Brentano parla di percezione interna del fenomeno psichico come di ogni presentazione o rappresentazione che nasce da sensazioni o fantasie. Il termine presentazione è insolito. Il filosofo intende non ciò che viene presentato, provato, sentito, ma l’atto stesso del presentare.

Ogni rappresentazione ottenuta mediante la sensazione o la fantasia costituisce un esempio dei fenomeni psichici; col termine rappresentazione non si intende qui ciò che viene rappresentato, quanto piuttosto l'atto stesso del rappresentare. L'udire un suono, il vedere un oggetto colorato, il sentire il caldo e il freddo, così come le analoghe situazioni nella fantasia [...]. Inoltre, ogni giudizio, ogni ricordo, ogni attesa, ogni deduzione, ogni convinzione o opinione, ogni dubbio - tutti questi sono fenomeni psichici. Fenomeni psichici sono anche tutti i moti d'animo: gioia, tristezza, paura, speranza, coraggio, viltà, ira, amore, odio, desiderio, volontà, intenzione, stupore, meraviglia, disprezzo e così via (Brentano, 1997, p. 165).

Appare chiaro, come anticipazione al paradigma embodied, come per Brentano sia netta la distinzione tra atto e contenuto e come la priorità spetti all’atto. Questa priorità specifica l’attività della vita dello psichico, che non è ricezione passiva della datità ma è performativa e performante per la soggettività e, inoltre, ha interessanti implicazioni con la coscienza, che è termine interscambiabile, per il filosofo, con tutta la sfera dell’attività psichica.

Si è detto che il maestro di Husserl è considerato come il filosofo dell’intenzionalità: questo è un altro tratto distintivo della vicinanza di Brentano ai nostri discorsi e del suo pensiero fortemente innovativo. L’intenzionalità descrive

quella tensione di ogni atto percettivo interno, di ogni fenomeno psichico, che, dall’interno, si rivolge all’esterno da sé. Ogni percezione ha un percepito, ogni vedere ha un veduto, che è l’oggetto di quell’atto che prima si è detto di presentazione. Per Brentano si può parlare di fisica dipendente dall’osservatore, poiché l’oggetto non deve essere inteso come reale ed esistenza in sé, anche in assenza di un soggetto conoscente o pensante, ma come immanente, esistente, cioè in una e per una soggettività. In questa ottica l’atto di presentazione, base della esperienza acquista tutta la sua forza.

Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto anche se non ogni fenomeno lo fa nello stesso modo. Nella rappresentazione qualcosa è rappresentato nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell'amore c'è un amato, nell'odio un odiato, nel desiderio un desiderato. Tale in-esistenza intenzionale caratterizza esclusivamente i fenomeni psichici. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa di simile. Di conseguenza, possiamo definire fenomeni psichici quei fenomeni che contengono intenzionalmente in sé un oggetto (Brentano, 1997, p. 175).

Altre distinzioni operate tra lo psichico e il fisico aiutano a comprendere meglio l’atto di presentazione. Secondo il filosofo, i fenomeni psichici possono essere percepiti solo dalla coscienza interna e i fenomeni fisici solo dalla percezione esterna. Qual è la differenza tra coscienza interna e coscienza esterna? Mentre la percezione esterna fornisce solo l’esperienza del dato, quella interna è insieme esperienza dell’oggetto e consapevolezza della stessa percezione, consapevolezza dell’essere percipiente di percepire. Anche qui un esempio può aiutare. Se si ascolta un suono, la coscienza interna è -insieme- la presentazione del suono, come le note di una melodia, e la consapevolezza dell’ascoltare. La consapevolezza dell’esperienza dei fenomeni psichici è assimilabile a una sorta di accompagnamento e co-apprendimento (Palmiero, Borsellino, 2014) dell’esperienza stessa. È chiaro che, essendo l’intenzionalità il carattere peculiare della riflessione di Brentano, la consapevolezza non è che il secondo atto, perché, se, come si è detto, l’intenzionalità è tensione verso l’esterno, non è possibile immanentizzare la consapevolezza, in quanto è atto interno. Si aprono qui una serie di contraddizioni interne al pensiero stesso di Brentano, che non possono essere analizzate in questa sede. Per i nostri interessi, recuperato il concetto di

intenzionalità, come movimento che dall’interno della percezione si rivolge alla datità delle cose e innovato il concetto di categoria, tanto caro alla filosofia sistematica, con il concetto più dinamico di anticipazione, è opportuno sottolineare ancore l’attenzione che Brentano pone sull’atto del percepire e su questa attenzione molte considerazioni possono essere avanzate, come, per esempio, il confronto della temporalità della percezione stessa che, per il filosofo, è possibile solo nel presente e contemporaneamente all’atto stesso della percezione, se vuole mantenere salda la sua aderenza al criterio della evidenza.

2.2. Edmund Husserl e la percezione

Quale è il motivo per il quale la paternità della fenomenologia spetta a Husserl (1859-1938) e non al suo maestro Brentano? Si è detto che Brentano ha apportato al dictatum cartesiano novità sostanziali e importanti concetti che Husserl maneggerà con maggiore sicurezza e certezza. Un motivo, però, vale più di altri. Il fenomeno per Husserl non è riducibile a un instante e un istante presente. Per Husserl l’edificio della conoscenza va costruito non su quel rapporto evidente che conduce all’immediatezza del pensiero come cogito, ma sulla esperienza vissuta. Le mura di questo edificio sono innalzate a partire dalla osservazione della esperienza vissuta dalla coscienza, ovvero dalla fenomenologia. Occorre, allora, capire quale sia il concetto di esperienza alla base della filosofia husserliana. L’esperienza è quel luogo in cui le cose si manifestano: tutte le cose, sia gli oggetti fisici, sia le entità ideali. Ogni cosa può esistere solo in funzione e in forza di un’esperienza ed è ovvio che questa obbligatoriamente abbia un riferimento con il soggetto che fa esperienza. Il mezzo di cui il filosofo si serve per l’indagine del processo di esperienza è l’epoché, la sospensione di ogni giudizio preesistente a riguardo di verità emergenti dalla consapevolezza che il mondo sia fuori dal soggetto. Se tutto quanto finora detto è vero, è chiaro che Husserl debba accantonare l’idea di una realtà esterna per rivolgersi all’interno. Questo passaggio racconta la paternità fenomenologica husserliana. Husserl risolve la spinosa questione della idiosincrasia della dialettica interno/esterno: riportando il mondo esterno all’interno, per come appare nella coscienza, la distinzione non ha più motivo di esistere. Non c’è più un uomo che guarda il mondo fuori da sé, che lo rimira,

trovandosi di fronte, ma c’è un soggetto che coglie, con il suo sguardo, l’oggetto e l’oggetto stesso è confermato, nella sua esistenza, perché è colto dal soggetto. Serve spiegare questa dinamica: per Husserl, è importante cogliere le costanti di ogni esperienza, riuscendo a eliminare le caratteristiche peculiari di ogni singolo fenomeno. Quest’azione conduce il soggetto a una sorta di struttura universale della coscienza, una struttura eidetica nella quale rientra ogni esperienza e per la quale, in definitiva, ogni esperienza diventa possibile.

«Io rappresento il dio Giove» significa che io ho un certo vissuto rappresentazionale: nella mia coscienza si effettua l'atto di “rappresentare Giove”. Per quanto si possa smembrare analiticamente e descrittivamente questo vissuto intenzionale, naturalmente non si troverà mai in esso qualcosa come il dio Giove; l'oggetto “mentale”, “immanente” non appartiene quindi alla consistenza descrittiva (reale) del vissuto: perciò esso non è in effetti né immanente né reale. (Husserl 2015, p. 488).

In realtà, l’operazione descritta serve al filosofo per determinare una oggettività, attraverso la riduzione eidetica, tale per cui la coscienza stessa possa essere intenzionale, nel senso brentaniano del movimento verso l’esterno. La coscienza è intenzionale, ma non nel movimento del soggetto verso l’oggetto, poiché nella coscienza intenzionale stessa è presente l’oggetto e dalla coscienza è intenzionato. Husserl parla di oggettività per la soggettività. A partire da questa oggettività, si denota la differenza maggiore rispetto al maestro, mentre per Brentano l’esperienza si dà nel mondo, anche senza esaurirlo, per l’allievo, è il mondo che si dà nell’esperienza. Nella indagine eidetica, infatti, l’intreccio dell’atto e della intenzione è perfettamente districabile. L’atto come noesi e l’intenzione come noema rimangono perfettamente distinguibili. Questa distinzione è alla base delle indagini husserliane ed è l’aspetto che alcune tra le più moderne teorie embodied esaminano ampiamente. Husserl vuole indagare, con questo tipo di analisi, definita genetica, come si costruiscono categorie, concetti e idealità rispetto alla loro origine percettiva. La struttura della ricettività umana determina in maniera assoluta i modi di percepire e le modalità di esperienza. È utile per comprendere bene come struttura ricettiva umana e modi dell’esperienza siano collegati, riferirsi, ancora una volta, all’influenza di Brentano su Husserl e sulle modifiche che l’allievo opera nell’ambito della teoria della temporalità dell’esperienza e della percezione.

Brentano, come si è visto, ha concentrato tutta la sua riflessione su una temporalità presente, istantanea. Husserl, invece, nel famoso esempio della cattedra mette in relazione quello che l’oggetto della percezione, la cattedra, dà immediatamente e subitaneamente alla percezione con quello che l’oggetto successivamente dà alla percettibilità. Nell’esempio della cattedra, si vede in un momento preciso un angolo di essa, immediatamente, ma l’oggetto è conosciuto nella sua intera identità, attraverso il collegamento dell’istante della percezione con quello precedente e con quello successivo, in una composizione temporale che caratterizza ogni singolo evento percettivo. Qui si nota la differenza con Brentano. Non è percezione istantanea, ma una percezione, potremmo dire, organizzata e storica: qualcosa in più della visione momentanea del singolo spigolo del mobile. Ogni singolo istante percettivo, di più, non va disperso, ma compartecipa, nel fenomeno della ritenzione, con il precedente e, nel fenomeno della preconfigurazione, con quello futuro. Cosa permette ad Husserl, in definitiva, l’unione tra soggetto e oggetto, la trasformazione di quella dialettica interno/esterno in una dimensione incorporata della conoscenza? La risposta, insolita, per il filo del discorso che fino a qui abbiamo seguito, è il Corpo. Husserl, per la prima volta, in maniera estremamente chiara, sottolinea che le presentazioni della nostra conoscenza hanno relazioni molto strette con il corpo e con i processi cinestetici.

Tra tutte le cose spaziali della mia sfera universale pratica il «mio» corpo è la più originariamente mia, la mia proprietà originaria, la mia proprietà duratura, duratura nella mia disposizione, la più originaria e l'unica immediata che è a mia disposizione. Ciò di cui (da bambino) mi sono appropriato come prima cosa e immediatamente e che ora è organo, è mezzo per l'appropriazione di tutto: direzione più diretta dello sguardo nel mondo [...]; il corpo ha quindi in sé il carattere più originario del mio, appartenente a me, contrasta con l'estraneo al quale io non sono partecipe, cioè non praticamente. La più grande estraneità consiste nel fatto che io esperisco semplicemente le cose esterne, in una pura passività, e appena voglio conoscerle l'intenzione si dirige verso la loro appropriazione conforme all'esperienza. Il loro essere, la loro verità diviene il mio proprio e ciò per la mediazione del mio corpo quale attivo organo di percezione. Tra tutte le cose il mio corpo è la cosa più prossima alla percezione la più prossima al mio sentire e vedere. E quindi io, l'io fungente, sono unito ad esso in una maniera particolare, prima di tutti gli altri oggetti del mondo circostante. Esso è in maniera propria e diversa, punto centrale, oggetto che sta nel mezzo, io l'ho come oggetto fungente nel mezzo e diviene, sebbene esso stesso è già oggetto (di fronte a me),

centro di funzione per tutti gli altri oggetti, per tutte le mie funzioni. (Costa, 2010, p.138)

Il corpo per la prima volta è il mediatore della relazione dell’io con l’oggetto, fuori dall’io e con il mondo. Il filosofo analizza anche la correlazione tra i movimenti del corpo e le manifestazioni percepite. La straordinarietà del pensiero husserliano è in questo aspetto: avere individuato nella dimensione cinestetica corporea, non un’appendice passiva e ininfluente del mondo della conoscenza, come certo vecchio dualismo vuole, ma una determinazione percettiva, oggi si direbbe, sensomotoria, che influenza ogni singolo atto cognitivo. Questo nuovo intendimento del conoscere, determinato a partire dal corpo, indica la nuova natura del pensiero della conoscenza. Conoscere non è l’atto contemplativo del soggetto che si pone di fronte al mondo a guardare e comprendere l’oggetto, fuori di sé, in una relazione asettica e dominante, ma è un sistema interdipendente di scambio continuo tra un soggetto, anche esso oggetto corporeo, e un altro oggetto, senza alcun dominio. Con Husserl entriamo in un mondo della vita in cui il conoscere non ha nessun esclusivo senso teorico astratto e prende una natura eminentemente pratica. Il mondo della vita è quel mondo in cui la conoscenza, attività innanzitutto umana, vuole ridare significato all’esistenza dell’uomo, in quanto conoscenza vincolata dalla vita stessa.

Il mondo della vita come tale non è forse l'universalmente noto, l'ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana, ciò che nella sua tipicità ci è già sempre familiare attraverso l’esperienza? I suoi orizzonti ignoti non sono forse semplicemente orizzonti d'una conoscenza semplicemente imperfetta, e cioè già noti almeno nella loro tipicità più generale? Certo alla vita pre-scientifica questa conoscenza basta come le basta il suo modo di trasformare la non conoscenza in conoscenza e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell'esperienza e dell'induzione (di un’esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le apparenze). Ciò basta alla prassi quotidiana. Ma se si vuole compiere un passo in avanti, per pervenire a una conoscenza “scientifica”, che cosa può essere messo in discussione se non gli scopi e le operazioni della scienza obiettiva? Ma la conoscenza scientifica non è forse, come tale, conoscenza “obiettiva” – orientata verso un substrato della conoscenza valido per chiunque in una generalità incondizionata? Eppure, paradossalmente, noi teniamo fermo alle nostre precedenti affermazioni ed esigiamo che non ci si lasci ingannare da una tradizione di secoli, dalla tradizione in cui siamo stati educati, e che non si

sovrapponga il concetto tradizionale di scienza in generale (Husserl, 1983, pp. 152-154).

Sulla innovazione del corpo all’interno della fenomenologia husserliana molto si è scritto e si scrive ancora oggi. Molti autori contemporanei si occupano della dimensione husserliana del corpo. Zahavi (1997), Costa (2010) e si possono citare anche altri nomi prendono in considerazione le novità di Husserl e da queste fanno partire le loro riflessioni. Altri ancora come Cusinato (2018) mettono in relazione l’influenza di Husserl su Merleau-Ponty e la contemporanea filosofia di Scheler, la quale avrebbe non poche fascinazioni sia sul padre della fenomenologia sia sul filosofo francese. Sebbene la tendenza della letteratura tradizionale, assicuri la paternità dell’attenzione sul corpo a Husserl e sebbene molti studiosi indaghino sulle idee che ad Husserl sono giunte da altri autori, come da Bergson e da Uexküll, il pensiero del Corpo ha sempre, come si è visto nel precedente capitolo, serpeggiato nella cultura occidentale. E sarebbe anche interessante, come in campo pedagogico fa Gamelli (2006), indagare come in altre culture, specialmente in alcune tradizioni orientali, il corpo abbia invece rappresentato da sempre un gancio con la realtà e un motivo, forse, il più importante, per l’intera costituzione dell’uomo. Gli inizi del “secolo breve” hanno acuito la questione e inasprito, a volte, alcune tendenze teoriche, per una vera rivoluzione copernicana del corpo stesso. Il corpo, riconosciuto oggetto tra gli oggetti e struttura del soggetto, è guardato, nell’ottica di quella divisione accennata nelle pagine precedenti, tra Körper e Leib, tra il corpo vissuto e il corpo oggetto. Vediamo, prima di affrontare la questione del corpo agente, in Merleau-Ponty, quali sono le specifiche caratteristiche del corpo inteso dalla fenomenologia. Il Körper, per Husserl, è il corpo-oggetto, il corpo-