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SCELGO, DUNQUE SONO: SEMPLESSITÀ E VICARIANZA

4.1 La Semplessità

La semplessità è un modo di vivere con il proprio mondo. È eleganza piuttosto che sobrietà, intelligenza piuttosto che fredda logica, sottigliezza piuttosto che rigore, diplomazia piuttosto che autorità. La semplessità è raffinata, anticipa più di quanto reagisca, impone le proprie leggi e le proprie griglie interpretative, è tollerante. È adattiva piuttosto che normativa o prescrittiva, probabilistica piuttosto che deterministica. Tiene conto del corpo commosso quanto della coscienza lucida; tiene conto del contesto. La semplessità è intenzionale, rispetta l’energia ma, a volte, ne consuma. Tiene conto del tempo vissuto, parte dal soggetto, permette il cambiamento del punto di vista, la creazione, autorizza la tolleranza che è opinione padroneggiata. Ecco insomma che cos’è per me la semplessità (Berthoz, 2018 p.176)

Così Alain Berthoz chiude il suo saggio sulla semplessità. La descrizione, quasi poetica, del suo innovativo paradigma, ci mette di fronte ad una serie di affermazioni che riassumono il percorso che abbiamo seguito. Il paradigma, proposto dal fisiologo francese, raccoglie tutte le fascinazioni che abbiamo visto indagate dagli approcci embodied, calandoli in una dimensione del vivere pratico, per il quale il nostro cervello diventa creatore di mondi.

Non possiamo analizzare qui, nel dettaglio, come Berthoz abbia formulato la sua teoria e da quali presupposti sia partito. Basti, allo scopo di indicare una via concreta per la pedagogia di rimodulare il corpo e affidargli un ruolo centrale nella dinamica educativa e rieducativa e nelle pratiche didattiche, dettagliare quali siano le caratteristiche della semplessità e quanti vantaggi la pedagogia e la didattica possano ricevere, declinandosi come semplesse.

Vediamo perché, secondo Berthoz, il nostro cervello è creatore di mondi e come questa creazione, questa capacità, questo atto, entri in relazione e in che modo entri in contatto con le teorie e le metodologie dell’apprendimento.

Innanzitutto, è necessario comprendere il termine semplessità. Comparso per la prima volta nell’ambito della letteratura scientifica inglese degli anni Cinquanta, simplexity è stato poi recuperato e sviluppato da Alain Berthoz per la comunità scientifica francese e, negli ultimi anni, internazionale.

Morin ha specificato, in tutta la sua larga produzione, che la complessità del reale non deve far intuire la realtà come complicata. La complessità

è un tessuto (complexus: ciò che è tessuto insieme) di costituenti eterogenei inseparabilmente associati: pone il paradosso dell’uno e del molteplice. […] Ma allora la complessità si presenta con i lineamenti inquietanti dell’accozzaglia, dell’inestricabile, del disordine, dell’ambiguità, dell’incertezza. Di qui la necessità, per la conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni respingendo il disordine, di allontanare l’incerto, vale a dire di selezionare gli elementi di ordine e di certezza, di depurare dall’ambiguità, di chiarire, distinguere, gerarchizzare. Ma simili operazioni, necessarie ai fini dell’intellegibilità, rischiano di rendere ciechi se si eliminano gli altri caratteri del complexus» (Morin,1993, p. 10).

La complessità ha bisogno di essere intellegibile, ha bisogno che ci sia un cervello che possa coglierla, mantenendone comunque le diversità. Berthoz, cosciente delle difficoltà alle quali si incorre nel considerare la realtà come complessa, all’interno della quale, come nel vecchio modo autoritario della scienza, è necessario stirare le pieghe di quel tessuto cum-plexus, fa luce su tutti quelle strategie del nostro cervello che, in maniera evolutivamente biologica, sono naturalmente e semplicemente risposte alla complessità circostante. L’ipotesi semplessa consente di guardare ad un organismo vivente come capace di rispondere e, quindi, di agire in modo efficiente ed efficace, plurimo e vicariante, ai problemi della realtà complessa.

Il termine semplessità rimanda all’unione della risposta semplice dell’organismo alla domanda complessa dell’ambiente che lo circonda. Tutti gli organismi hanno trovato una serie di soluzioni per semplificare la complessità. Nell’interazione continua con l’esterno e nella necessità biologica di elaborare le informazioni che provengono dall’esterno al fine di performare azioni, il soggetto, come organismo vivente, deve scegliere come agire e quali comportamenti mettere in atto, dalla strategia di predazione alla composizione di opere musicali.

A fronte di problemi complessi, il cervello non può adottare né soluzioni troppo semplici perché non risolverebbero le necessità, né troppo sofisticate perché rallenterebbero e renderebbero troppo costosi i processi neuronali. La soluzione passa invece attraverso chiare deviazioni dalla strada maestra della logica, in grado di organizzare con originalità, eleganza e creatività la complessità del mondo e dei processi naturali che lo regolano.

Vediamo più da vicino quali sono le intuizioni del fisiologo francese. Berthoz individua alcuni principi utili ad abbozzare una teoria della semplessità. Egli stesso parla solo di abbozzo di teoria, poiché molti studi e molti approfondimenti devono ancora essere condotti, al fine di comprendere le potenzialità della teoria stessa. Secondo il fisiologo francese, l’inibizione è il primo di questi principi, che non sono mai successivi e dipendenti, ma sono messi in atto tutti, in maniera parallela e, a volte, ricorsiva. Il meccanismo dell’inibizione è una delle maggiori scoperte sull’evoluzione e una della più importanti proprietà di funzionamento degli organismi. L’inibizione è utilizzata dal cervello per operare una scelta nella complessità e garantisce la libertà dell’uomo dalla complessità stessa. Berthoz mette in evidenza che nelle zone del cervello preposte alla coordinazione dei movimenti, alla selezione di azioni, alla previsione di azioni e alle decisioni sull’azione sono attivi meccanismi di inibizione che permettono al soggetto di non perdersi nella complessità del reale e non divenire schiavo della realtà stessa. L’inibizione permette di bloccare alcune strategie cognitive primitive e condizionamenti innati naturali. Pensare diventa così inibire e disinibire qualcosa, e, di conseguenza, agire significa inibire tutte le azioni che non compiamo.

Il secondo principio che caratterizza la bozza di Berthoz è il principio della specializzazione e della selezione, quello che, in una sola parola, potrebbe dirsi Umwelt. Secondo questa caratteristica, che riprende l’intenzionalità, per come è stata analizzata nei capitoli precedenti, la selezione delle informazioni che ogni specie opera in funzione della sopravvivenza, non risponde soltanto a istanze di parsimonia ed economicità dell’azione da mettere in atto, ma anche e soprattutto, alla capacità di specializzare la selezione stessa. In questo meccanismo e secondo questo principio, l’uomo è, in una certa misura, agevolato, poiché può creare, con

l’immaginazione, mondi diversi da quello contingente o, per lo meno, attraverso la specializzazione può creare illusioni per sfuggire al proprio Umwelt.

Terzo principio, forse quello più importante ai fini di questo lavoro e cardine nelle applicazioni della didattica, è la previsione. La previsione o anticipazione probabilistica consente di confrontare i dati dei sensi con le conseguenze delle azioni, scelte e compiute, nel passato, e rispetto a questo confronto, permette l’elaborazione probabilistica di conseguenze dell’azione in corso. La semplessità, in direzione contraria, rispetto a tutto il pensiero e le teorie epistemologiche tradizionali, si adatta alla incertezza. Con buona pace di Cartesio, la semplessità ci permette di pensare in termini di probabilità contro l’evidenza e la certezza. Questa è una delle caratteristiche più rivoluzionarie della semplessità. Berthoz introduce con straordinaria congruenza un margine di libertà all’azione umana, non sottostante alle rigidità fasciste, ma di stampo democratico. La semplessità, come dice il suo ideatore, non è gerarchica, bensì eterarchica. Il semplesso ci permette di denudarci di quel determinismo obbligante per definirci in base ad un caso, non demonizzato, ma strutturante. C’è l’idea che dal disordine della complessità possa nascere l’ordine semplesso, che è insieme razionale e fantasioso.

Questo passaggio è garantito dal quarto principio della semplessità: il principio della deviazione. Cos’è la deviazione? È la possibilità degli organismi viventi di risolvere problemi, proprio attraverso una deviazione rispetto alla logica usuale, con la creazione di nuove soluzioni. Berthoz prende come esempio le operazioni chirurgiche robotizzate, che oggi sono condotte non direttamente sull’organo, ma sull’immagine dell’organo trasmessa da una telecamera dall’interno del corpo del paziente. Trovare soluzioni inedite, attraverso deviazioni, attraverso specializzazioni di campi e meccanismi non usualmente preposti alla risoluzione di un determinato problema, permette a Berthoz l’elaborazione del concetto cardine di vicarianza, al quale è dedicato il prossimo paragrafo che vivifica e verifica la stessa semplessità.

Il principio della selezione e della specializzazione ha un prezzo assai alto: la mole corposa di informazioni da selezionare nella nostra risposta operante all’Umwelt. Accade spesso che le informazioni investano campi sensoriali diverse e che il nostro cervello debba selezionare quali, tra queste informazioni, sia utile, e,

quindi, selezionabile, e quale condurrebbe ad azioni da inibire, mancando così l’obiettivo del cervello semplesso di elaborare semplicemente la complessità. Il quinto principio della cooperazione e della ridondanza ha proprio a che fare con questo problema ed è altresì collegato al principio della deviazione.

La cooperazione e la ridondanza non consistono soltanto nella combinazione dei recettori sensoriali, ma hanno anche altri campi di applicazione. Per esempio, l’evoluzione ci ha dotati di meccanismi che permettono di immaginare la città dove ci troviamo in modo egocentrato, cioè in prima persona, in funzione della strada che seguiamo da un punto di vista locale, oppure in modo allocentrico, cioè immaginando una mappa della città da un punto di vista globale, cartografico, che ha il vantaggio di consentirci operazioni mentali indipendenti come confrontare una serie di distanze o cercare tragitti alternativi (Berthoz, 2015, p.19).

In altre parole, la ridondanza come meccanismo dell’organismo vivente, ci permette di cambiare punto di vista. Senza la necessità di dover adottare per le nostre scelte e le nostre risposte solo la visione egocentrata o soltanto la visione allocentrica, ma con la possibilità di avere una alternativa semplessa e democratica, con la possibilità effettiva di usare, nelle nostre strategie di scelta e di azione nella complessità del reale, una visione complementare e simultanea, ego-allocentrica. Sesto principio della semplessità è il principio di senso. Per opera di tutte queste proprietà, la semplessità non è semplificazione. I sei principi della semplessità non fanno altro che indicare quali siano le soluzioni che il nostro cervello dà al reale, soluzioni di senso perché orientate verso il raggiungimento semplice di un fine, guidate proprio dall’idea di un funzionamento. Il sesto principio comunica proprio questo senso che la complessità ha minacciato e che, attraverso le indagini sperimentali della neurobiologia, possiamo difendere come senso umano della cognizione.

La Semplessità trova applicazione in molti settori delle scienze umane, delle neuroscienze e della matematica. Oggi, mentre le ricerche in questi ambiti si specializzano, il paradigma sta dilagando anche nei settori legati al mondo dell’economia, della psicologia del lavoro, e in maniera importante, sta prendendo piede in informatica. I robot e le intelligenze artificiali stanno diventando sempre più complessi; la grande diffusione di questi artefatti tecnologici e della possibilità - immaginativa e reale - di far svolgere loro dai compiti più semplici, come afferrare

una maniglia e aprire una porta, a compiti più complessi, costringe chi si occupa di cibernetica ad indagare il cervello dal punto di vista della semplessità per riuscire a rendere l’intelligenza artificiale sempre più declinata a partire da quei principi, delineati da Berthoz, che caratterizzano primariamente l’intelligenza umana e quella degli esseri viventi.

Un'altra scienza in cui la semplessità trova terreno fertile per le proprie radici è la pedagogia. Nel senso di questo lavoro, nei prossimi paragrafi, proveremo ad indagare come il concetto di vicarianza, finora semplicemente accennato, costituisca un fulcro nuovo e stimolante per le teorie pedagogiche e le metodologie didattiche più innovative. Nel senso della innovazione e della innovazione tecnologica, anche in pedagogia, la semplessità permette l’apertura di campi di indagine e di riflessioni importanti, come quelle del corpo-protesi, in contesti di disabilità, disturbi dell’apprendimento o dei bisogni educativi speciali. Prima, però, di esaminare l’approccio della semplessità e della vicarianza sul fronte pedagogico, occorre indugiare ancora sul concetto di vicarianza.

4.2. La vicarianza

Nella Dichiarazione universale sulla diversità culturale (UNESCO, 2001) si legge:

Tenere conto della diversità culturale significa considerare la diversità delle genti, oltreché la diversità dei modi di insegnamento e di apprendimento […]. In questo spirito converrà analizzare il passaggio da una pedagogia differenziata a un differenziamento della pedagogia. E sempre in questo spirito ci soffermeremo sulla distinzione fondamentale tra una strategia per definizione di categorie e di profili, a scapito del principio di variazione tramite il concetto di vicarianza […]. Differenziamento dell’apprendimento, ma anche del percorso personale, delle esperienze extrascolastiche, delle conoscenze personali: tutte differenze che la scuola non può più ignorare.

A cosa si riferisce l’Unesco quando nomina il concetto di vicarianza? A differenza del neologismo semplessità, la storia del concetto di vicarianza è una storia più datata, che trova la sua origine nella parola latina vicarius, supplente. Il termine ha poi indicato nel corso dei secoli, soprattutto tra le gerarchie ecclesiastiche, il sostituto del curato o del vescovo. Tuttavia, il significato non è

solo quello che indica la sostituzione. Con il termine vicarianza sono state indicate anche tutte le varietà di forme assunte dal vivente, dalla semplice copia della mitosi fino alle variazioni generate nei processi biologici. Cosa lega, allora, la dichiarazione dell’Unesco a riguardo di un apprendimento vicariante all’ampio spettro di significati che lo stesso concetto assume nella storia? Cerchiamo di rispondere a queste domande seguendo il percorso che lo stesso Berthoz ha elaborato. Come abbiamo già detto, la vicarianza è un principio semplesso, una di quelle deviazioni della normalità e dalla logica, tradizionalmente intesa, per la quale possiamo affermare, in linea con il paradigma della semplessità, che il cervello sia inventore di mondi. Quella diversità a cui accenna l’Unesco è quella che deriva all’umanità, nel corso della sua evoluzione, dalla capacità di sopravvivere alla realtà, capacità di tutti gli organismi viventi di sfuggire al vincolo della norma e trovare soluzioni ai problemi che sorgono dal contatto con l’ambiente o con gli altri per creare nuovi mondi possibili. La vicarianza è molto di più del semplice processo biologico di duplicazione; è la forza inventrice della vita, forza che dona nome a spazio a quei processi semplessi, che abbiamo già indagato, e che fanno del cervello un inventore delle azioni istantanee e uno scommettitore sulle azioni future. Per Berthoz, vicarianza e semplessità hanno a che fare con la dinamica di universale e particolare. Grazie a questo paradigma, si può indagare e riabilitare quella particolarità delle scelte dell’individuo, tutto l’universo della singolarità, da sempre messo a processo e condannato. In questo senso, si muovono anche la medicina, l’economia, la psicologia e la pedagogia che riabilitano la posizione di un’azione scientifica, centrata sulla persona singola ed individuale e non per la persona, come categoria generale. Nell’ottica particolare della pedagogia, questa operazione consiste nella critica ai sistemi teorici e alle strategie astratte, per le quali sembra che l’uomo sia una monade fuori dal mondo e dalle quali l’individuo e l’individualità sono dimenticati, a favore di approcci e strategie individuale e incentrate sulla singola persona e, a volte, sul singolo bisogno. La ricerca spasmodica di sistemi normativi universali ha ridotto la capacità creativa, ha ridotto la possibilità di una potenzialità individuale, che normata e processata, perde la sua capacità vicariante. Questo è quello che succede oggi nel mondo dell’educazione e della scuola, in particolare. Fenomeno che mette in crisi quegli aspetti

fenomenologici della cura, della vicinanza, della presenza, della relazione che, proprio perché fiorenti dall’individualità e dal confronto di individualità, sono compressi, se non annullati, dalla normalizzazione e dalla generalizzazione. Con l’obiettivo di definire la vicarianza e il binomio vicarianza-creazione, è utile prendere in esame tutti i sensi in cui si può parlare di vicarianza e che ci provengono da diversi ambiti disciplinari.

Nel Novecento, l’idea di vicarianza ha interessato il campo della medicina e della psicologia differenziale. In questi ambiti, la vicarianza si declina come funzionale, ovvero, indica la sostituzione vicendevole di comportamenti la cui funzione è identica o simile. Tutti gli individui hanno a disposizione più processi vicarianti per rispondere ed adattarsi a situazioni diverse. La gerarchia di questi processi non è generalizzabile perché, diversa da persona a persona, dipende dal vissuto esperienziale. Questa accezione di vicarianza è rivalutata dalla neurobiologia, attraverso la neuroimagery, la quale ha mostrato che persone diverse hanno diverse configurazioni di reti neuronali, che utilizzano in maniera diversa per la risoluzione di uno stesso problema. Le neuroimmagini hanno mostrato anche che la stessa persona, dipendentemente dal contesto o dall’intenzione, usa reti neuronali diverse per svolgere uno stesso compito. L’approccio differenziale, più determinante nella psicologia, ha, quindi, aperto la strada al ritorno del soggetto individuale.

Altra importante accezione della vicarianza è legata al nome dell’etologo Jakob von Uexküll (2013), il quale definisce ciò che Berthoz chiama vicarianza d’uso. Secondo questa accezione, la vicarianza è la capacità degli organismi viventi di “sfruttare” il mondo in maniera molto particolare, a partire dagli obiettivi e dai limiti del loro Umwelt. L’esempio più tipico di questo tipo di vicarianza è la percezione del fiore che determina ben cinque ambienti diversi in relazione all’organismo vivente di riferimento: una donna, una formica, una larva, una cicala e una mucca. Ognuno di questi organismi trova nel fiore un vettore di significato diverso, per cui la donna lo vedrà come un oggetto, un dono del corteggiatore o un ornamento, una formica lo vedrà come un percorso, una larva lo userà come base, come una casa e una mucca lo vedrà come nutrimento. Non è l’oggetto a cambiare, a sdoppiarsi o ad essere sostituito. Il fiore è sempre il fiore, ma viene percepito in

maniere diversa e usato in maniera vicariante, per finalità differenti. Altro esempio che Berthoz riporta è quello della zecca, che gli permette di riflettere sul significato della traduzione erronea in italiano del termine Umwelt, che non starebbe più a significare letteralmente l’ambiente in cui il soggetto, come organismo vivente si trova a vivere, ma, in maniera più esatta, indicherebbe l’uso che l’organismo vivente fa del proprio ambiente, a partire da un preciso interesse o obiettivo, come l’acido butirrico per la zecca. Attraverso questa traduzione, possiamo recuperare una vera e propria natura intenzionale delle azioni e delle scelte degli organismi viventi che, secondo la teoria della semplessità, dà senso agli oggetti del mondo, proprio rispetto all’uso che ne facciamo. Qui si apre un riferimento molto importante per alcune riflessioni, che nel campo della pedagogia e della didattica, sono portate avanti da Rossi e Rivoltella (2019) a riguardo del corpo e della macchina, nella dialettica tra l’artefatto processo e l’artefatto prodotto, e che cercheremo di indagare nelle pagine successive. In definitiva, la vicarianza indica processi diversi ma molto creativi. Il primo, che chiamiamo vicarianza funzionale, indica che l’organismo vivente è capace di svolgere lo stesso lavoro, lo stesso compito in molti modi diversi; il secondo, che indichiamo come vicarianza d’uso, indica che l’organismo vivente può percepire uno stesso oggetto e, finanche una stessa parte del proprio corpo, atti a adempiere ruoli molto diversi. Nell’una e nell’altra determinazione di vicarianza, a volte gestite dall’organismo vivente anche simultaneamente, quello che è evidente, è l’intenzionalità che determina e dà forma e significato all’azione.

Se fiamma non potesse designare al contempo il fuoco che brucia nel focolare e la passione dell’amore, se noi fossimo privati delle metafore, se i fiumi non potessero placare la nostra sete, trasportare le nostre barche, ospitare la nascita dei salmoni, alimentare con il loro potente corso le turbine delle centrali idroelettriche, ispirare Rimbaud nella folle deriva del battello ebbro, o prendere con sé Euridice verso il tormento degli Inferi: come sarebbe triste il mondo! (Berthoz, 2015, p.14)

Dal mondo degli studi sull’evoluzione pervengono altre sfumature di significato per il concetto di vicarianza, che ne allargano il bacino di applicabilità. La paleontologia biogeografica, infatti, utilizza il concetto di vicarianza per indicare

tutte quelle varietà di specie animali, che seppur simili, si sono adattate al loro