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DAGLI ATTI INCARNATI DELLA DIDATTICA ALLA NEURODIDATTICA

5.1. Neuromitologie e cantastorie

Abbiamo più volte fatto cenno, nei capitoli precedenti, a una possibile rivoluzione epistemologica caratterizzata dall’abbandono della visione lineare del corpo. Senza riprendere tutto il sistema di idee che si sono alternate, in sintesi, l’abbandono della visione lineare è la negazione di una sola identità singolare del corpo. Il corpo è perché è in relazione con l’ambiente, con l’altro e la mente è incarnata perché, come abbiamo visto, attraverso il sistema senso-motorio è in comunicazione con il mondo. Il corpo, come direbbe Merleau-Ponty (1979), è il veicolo dell’essere al mondo. Gamelli definisce il corpo come un cantastorie, poiché il corpo parla, ci racconta le cose del mondo e si racconta al mondo. È un indefesso cantastorie che dichiara se stesso e la propria storia a chiunque gli presta sufficiente attenzione (Gamelli, 2012, p.45). Su questo corpo che racconta è imperniato il ruolo del docente, che nell’ambiente dell’aula, deve orchestrare una armonia di canti del corpo, di corpi cantastorie che suonano in maniera diversa e raccontano vissuti diversi.

Su questa rivoluzione, messa in atto dal paradigma neuroscientifico, prima di strutturare una pedagogia del corpo, bisogna fare attenzione. Non solo Pier Cesare Rivoltella ci informa sul pericolo della neuromitologie (2012), ma molti altri autorevoli scienziati mettono in guardia da un intendimento troppo semplicistico delle determinazioni stesse del suffisso neuro. Accade come se tutte le scienze,

quando assumono il suffisso neuro riescano a rifondare la propria validità proprio in funzione, e, a volte, solo in funzione, di quello stesso suffisso. Questo aspetto è analizzato da Rivoltella, rispetto a diversi esempi di neuromitologie tratti dal panorama scientifico internazionale. Una diffusissima neuromitologia, che trova espressione ad ogni livello, dall’accademico al mondo della pubblicità, fino alle condivisioni sui social network, attraverso giochi e quiz, è quella che vede l’identità personale umana divisa in due parti determinate: esistono persone cerebrodestre e cerebrosinistre. Seppure esistano dati scientifici sulla divisione del cervello in aree e comprovati esperimenti che locano determinate attività in precise zone cerebrali, non è possibile determinare, come succede, che le persone cerebrodestre abbiano una notevole e smisurata creatività e che le persone cerebrosiniste, al contrario, siano annoiate dalla loro tendenza alla metodicità rigorosa.

Altra neuromitologia, propagata a suon di articoli pseudoscientifici, è quella che teorizzerebbe, a partire dal lavoro di Marc Prensky (2001), una trasformazione genetica, o meglio una trasformazione epigenetica, la nascita di una nuova specie umana, quella dell’homo sapiens tecnologicus, riferita a quelli che Prensky stesso chiama nativi digitali. Numerosi studi dimostrano, attraverso la scansione del cervello con la metodologia fMRI, come non è pensabile, almeno non in questi termini, parlare di nascita di una nuova specie. Gli esperimenti hanno registrato soltanto una diversa organizzazione sinaptica. La nuova organizzazione sinaptica non dipende, però, da caratteristiche genetiche nuove, quanto dall’esposizione a tecnologie e media. Gli esperimenti hanno riguardato, infatti, non solo i cosiddetti nativi digitali, ma anche una serie di immigrati digitali, come è definita la generazione precedente a quella dei nativi. Gli esperimenti hanno registrato cambiamenti nell’organizzazione sinaptica sia nei nativi sia negli immigrati digitali. Bisogna procedere con cautela. Non bisogna cedere alla tentazione di poter spiegare tutto su base neuroscientifica.

Il rischio di pensare che su base neuroscientifica si possa spiegare tutto, il rischio di credere di poter comprendere riduzionisticamente l’individuo a partire dai processi biochimici ed elettrici che intervengono tra i suoi neuroni, il rischio di generare neuromitologie […]. Occorre tenerlo presente se si vuol trarre dall’approccio neuroscientifico quanto, ne siamo convinti, di interessante esso può offrire alla ricerca di scienze

morbide come sono appunto quelle che si occupano di educazione (Rivoltella, 2012, p.21).

Abbiamo fatto iniziare la nostra interrogazione dal testo di Antonio Damasio del 1994; ci siamo mossi nell’ambito delle teorie del corpo e della mente dalla filosofia greca fino alle moderne teorie della mente, fino a Gallagher e Zahavi (2009). Gli autori citati, in linea con le loro epoche, hanno fornito filosoficamente e scientificamente, le loro teorie. Nella storia della pedagogia si registra, invece, una trasversale, seppur timida, attenzione al corpo, come a quel luogo da curare per l’integrità della persona. Wolfgang Goethen (1749-1832) parla, con straordinaria modernità, di affinità elettive, che sono elettive proprio perché si manifestano attraverso una azione inconsapevole e in mancanza delle forme percettive; Piaget (1869-1980), di più, come già ha messo in evidenza Berthoz, s’occupa del rapporto mente-corpo, attraverso gli stadi evolutivi, aprendo la strada a quelle particolari discipline che legano l’educazione e la rieducazione all’aspetto psicomotorio, proprio perché per la sua teoria psicopedagogica, il bambino inizia, nello stadio senso-motorio (0-2 anni), a rappresentare il mondo tramite l’azione.

Molti esempi si potrebbero avanzare, ma ciò che qui è necessario sottolineare è come nel settore pedagogico una qualche istanza corporea, legata a volte al sentimento, all’emozione, agli stati interni, altre volte al sistema cognitivo e alla sua evoluzione, è sempre posta.

In virtù di questo è utile guardare quali metodologie hanno in nuce un approccio, per così dire embodied.

5.2. Il laboratorio e l’intelligenza corporea-cinestetica

Nell’ottica della flessibilità, della modularità e di tutte le proprietà semplesse che Sibilio ha voluto calare nella didattica, è possibile leggere una delle teorie più influenti di Howard Gardner (2005). Lo psicologo statunitense espone la teoria delle intelligenze multiple, per la quale non si può immaginare l’intelligenza come fissa, singolare, immutabile e posta nel cervello. L’intelligenza non è unica: le intelligenze sono multiple. Tra le intelligenze individuate da Gardner, una, in particolare, è di nostro interesse: l’intelligenza corporeo-cinestetica. Fermo

restando che tutte le altre costituiscano l’effettivo colpo di grazia a tutte le teorie d’apprendimento che si radicano nelle sole funzioni della mente.

L’intelligenza corporea cinestetica rappresenta una riproposizione di tutte le caratteristiche semplesse, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. È quell’intelligenza che, attraverso la mimica e la gestualità, riesce a veicolare significati, riesce a favorire il controllo del corpo e la coordinazione dei movimenti, non solo in una dimensione propriocettiva, ma anche interocettiva. Sibilio la definisce come:

la capacità del corpo di esprimersi, governarsi, manipolare le cose, orientarsi in maniera precisa, rispondere costantemente ed efficacemente ai problemi motori che si manifestano nelle forme più diverse (Sibilio, 2002, p.41).

Nel rispetto delle diverse intelligenze di Gardner e dei differenti modi di esplicarsi di ogni singola intelligenza, è debito che la ricerca didattica, in accordo con le neuroscienze, offra degli strumenti perché l’intervento nel processo di apprendimento, sia funzionale e semplesso.

La flessibilità è la caratteristica di cui gli ambienti educativi, convenzionali e non, hanno più bisogno. Come caratteristica semplessa, la flessibilità permette di trovare soluzioni diverse a problemi sempre nuovi e rispondere a bisogni sempre differenti. La modalità didattica che invera concretamente la flessibilità è proprio la didattica laboratoriale. Il laboratorio, la classe-laboratorio, è quello spazio in cui il rapporto docente-alunno prende forme collaborative e flessibili, che garantiscono sia la conoscenza disciplinare, comunemente intesa, sia la dinamica procedurale, inerente alla pratica, e quindi una abilità critica, riflessiva e metacognitiva.

La didattica laboratoriale non è certamente la scoperta d’avanguardia della didattica, anche se, oggi, dopo la convalida da parte degli studi neuroscientifici, trova maggiori applicazioni e specificazioni metodologiche. Figlia del learning by doing di John Dewey (1859-1952), la didattica laboratoriale pensa alla scuola come una scuola laboratorio in cui è sostenuta l’importanza dell’apprendere per mezzo del fare. Ancora una volta e in accordo con tutte le teorie analizzate, il corpo che fa è il veicolo della conoscenza. Nella scuola laboratorio di Dewey, l’educando non solo impara facendo (1968), ma prende parte attiva alla costruzione della coscienza

sociale della comunità di cui fa parte. Dewey e la sua scuola laboratorio a Chicago modificano davvero i paradigmi pedagogici, spostando il fulcro, l’obiettivo dell’atto educativo, dall’interno all’esterno, in uno spazio condiviso, in cui le acquisizioni si sviluppano praticamente con l’educando, non sono elaborate da qualcuno, più in alto e calate, impartite, da un di più a un di meno. L’educazione è relativa al bisogno proprio del soggetto nel momento in cui apprende. La straordinarietà e la valenza contemporanea del credo pedagogico di Dewey (1968) risiedono nell’aver compreso ante litteram che l’apprendimento si realizza a pieno solo per mezzo della mano che fa e del corpo che prova, che l’apprendimento è tale solo se la conoscenza per mezzo della esperienza laboratoriale, nella quale il soggetto con tutto il corpo è immerso, si trasforma in competenze e in abilità. Il laboratorio è il luogo in cui l’educazione è calata in situazioni problematiche, in cui il discente impara, singolarmente, a risolvere, secondo il suo modo, il problema posto. Il laboratorio, non è, come ancora si crede, il luogo anarchico, in cui il discente è libero. L’insegnante e il corpo stesso dell’insegnante sono fondamentali per attivare nel discente il libero processo di problem solving. L’insegnante sostiene e guida questo processo e attiva quei meccanismi di apprendimento vicariante per simulazione. In questo senso, il laboratorio diventa un contesto formidabile per lo sviluppo delle capacità relazionali, non solo per la funzione dell’insegnante, ma, soprattutto, per la libera cooperazione del soggetto con gli altri.

Per tutti questi motivi il laboratorio, più che un luogo fisico, dovrebbe essere interpretato sempre come una vera e propria metodologia didattica. Oggi si insiste molto su questa possibilità: l’idea di pensare un nuovo luogo in cui il corpo può esprimersi liberamente, nelle sue esperienze d’apprendimento e di relazione, è alla base di un ri-arredamento dello spazio educativo, a partire da quegli spazi liberi da ostacoli per il corpo di Don Lorenzo Milani, fino alle innovative ricerche dell’Universal Design for Learning.

La didattica laboratoriale consente la trasferibilità dei saperi impiegando il corpo come canale apprenditivo, attraverso cui fare acquisire quelle conoscenze e abilità che altrimenti resterebbero inaccessibili, ma anche come un vero e proprio canale comunicativo, in grado di veicolare emozioni e sentimenti (Sibilio, 2002, p.15).

Il laboratorio disegna la maniera giustamente semplessa di intendere il processo d’apprendimento nella dimensione della relazione del soggetto con gli altri e con il conduttore del laboratorio. In questa dimensione di passaggio da un nozionismo verticale ad una orizzontalità pratica del sapere, il laboratorio é garanzia della vicarianza. Nel rispetto dell’apprendimento, in funzione della diversità delle soluzioni possibili trovate da ogni singolo, e in funzione di una comunità, che in quanto complesso di singole intelligenze multiple, co-emerge e dona significati nuovi ad esperienze diverse.

Il laboratorio motorio è l’emblema delle possibilità finora espresse: opera quella unione, fondamentale, per l’embodied cognition, di esperienze sensoriali e motorie e di esperienze simboliche, attraverso l’azione stessa. Il laboratorio motorio può essere declinato in vari percorsi, diversi per la finalità che voglia essere raggiunta. Si avranno così laboratori con percorsi didattici, finalizzati al potenziamento dell’esperienza simbolica e laboratori con percorsi didattici e media, diretti a sviluppare la padronanza del corpo e di oggetti dell’ambiente, (dalla penna al computer); laboratori espressivi, per il potenziamento della capacità espressiva e comunicativa, verbale e non verbale; laboratori espressivi, volti al miglioramento delle capacità intersoggettive.

Quello che qui, in poche pagine s’è cercato di analizzare è la possibilità di guardare alle dinamiche laboratoriali, correttamente intese, come ad un atto didattico incarnato, uno fra i tanti possibili. Purtroppo, non è possibile analizzare nello specifico quante scoperte e chiarimenti riesca oggi a fornire la ricerca educativa, perché una indagine di questo tipo porterebbe alla valutazione analitica di specifici orientamenti degli insegnanti nella scuola, alla comprensione della diversificazione dell’uso del corpo nei docenti di differenti ordini scolastici e alle formulazioni empiriche di statistiche utili ai singoli docenti, ma soprattutto alle classi politiche per la formulazione di indicazioni ministeriali per un’educazione ed un sistema di istruzione veramente semplesso.

Al fine di rendere una prova di quanto l’educazione attraverso il corpo sia ancora oggi sottovalutata o limitata a quei campi di applicazione immediata come l’educazione musicale, attraverso la danza e i movimenti ritmici del corpo, si prende in esame una ricerca esplorativa, condotta nell’a.a. 2019-2012 dall’Università degli studi di Reggio Calabria. La ricerca in esame prende in considerazione le risposte, le credenze e le rappresentazioni del corpo di 197 docenti, vincitori del concorso per la partecipazione al Corso di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità. Attraverso la somministrazione di un questionario, incentrato sulla concezione che i docenti hanno del corpo inteso come mediatore, le dottoresse Viviana Vinci e Rosa Sgambelluri, ricercatrici di Didattica e pedagogia speciale, mostrano quale sia l’emergenza e la necessità di fornire il sistema universitario di corsi che valorizzino il corpo e quelle metodologie che nel corpo trovano un mediatore importante di significati e inclusione. Dei 197 docenti frequentanti, 136 hanno dato risposta: tra questi ci sono docenti di scuola dell’infanzia, di scuola primaria e di scuola secondaria di primo e secondo grado. Al di là delle percentuali diverse di partecipazione, dato importante in una ricerca più ampia, quello che qui interessa è mettere in evidenza come ad alcune domande aperte per comprendere se gli insegnanti considerino la possibilità di utilizzare il corpo come mediatore, e nel caso specifico della ricerca in oggetto, come mediatore didattico, una altissima percentuale, che si aggira intorno al 65% dei rispondenti, riporta esito negativo. Il dato appare, come dicono le ricercatrici, ancora più sconfortante, se si prendono in esame le percentuali di risposte ad alcune domande sulla realizzazione di attività motorie. Ben il 39,7% dei docenti coinvolti rispondono “mai” e un buon 25% dei docenti risponde con un generico “qualche volta” contro una percentuale bassissima di risposte, circa il 5%, che riporta un poco rassicurante “sempre”. Quello che emerge da questi pochi dati è un quadro problematico. Se è vero, infatti, che occorre rendere vicariante il nostro agire didattico ed offrire la possibilità semplessa di costruire soluzioni alternative, proprio a partire da esperienze sensomotorie, queste percentuali indicano un ruolo assai marginale del corpo nelle comuni pratiche di insegnamento.

Tuttavia, la ricerca non restituisce solo dati sconcertanti. Una domanda aperta, in particolare, è finalizzata a comprendere quale significato i docenti diano

all’espressione “corpo in movimento”. La quantità e la varietà delle risposte, che contengono associazioni con parole come libertà, comunicazione, espressione, conoscenza, apprendimento e molte altre ancora, organizzate secondo il calcolo di co-occorrenza, indica che le rappresentazioni dei docenti sono certamente robuste e differenziate.

Cosa indica questa discrepanza tra la ricchezza d’associazioni attraverso la figura del corpo e la mancanza di attività motorie, dirette e trasversali, nel quotidiano agire didattico degli insegnanti in questione? Secondo Vinci e Sgambelluri, che nel questionario provano ad indagare questa discrepanza e il giudizio, appena sufficiente di una autovalutazione dell’azione didattica come corporea di questi insegnanti, la motivazione è da ricercarsi proprio in una mancata specifica formazione dei docenti stessi, sicuramente eredità di quel sistema scolastico ed universitario che non ha ancora fatto i conti con il potere del corpo. Progettare un percorso laboratoriale, infatti, non è cosa semplice. Ribadito che il laboratorio non è lo spazio di sgambamento o l’ora d’aria dopo le ore di stereotipate lezioni frontali, bisogna porsi, nella progettazione di una ricerca- azione, nell’ottica del piacere del sapere, del saper fare e del sapere essere (Gomez Paloma 2013).

Proprio come un percorso circolare, il docente presuppone ipotesi di risoluzione coerenti alle problematiche presenti e, vivendo in prima persona il confronto, le riflessioni con sé e con gli altri, raccoglie e analizza dati per meglio adattare le proposte, rivisitando giorno dopo giorno le consegne offerte e i sistemi di monitoraggio utilizzati. (Gomez Paloma 2013 p.65).

Nel laboratorio co-emergono, come abbiamo visto, più identità: l’identità singola del docente, l’identità singola del discente, l’identità plurale della relazione tra i discenti e l’identità plurale della relazione dei discenti con il docente- conduttore del laboratorio. In questa molteplicità di relazioni bidirezionali nascono e si sviluppano sempre nuove identità vicarianti di sensi e significati. Proviamo a indagare adesso come il corpo si caratterizzi nelle dinamiche didattiche nelle due affezioni di corpo-docente e di corpo-discente.

5.4. Tutti i corpi della didattica

Come si evince dalle pagine precedenti il corpo deve stare al centro. Abbiamo visto che il corpo, nella relazione umana e, in particolare nella relazione educativa, è corpo tra corpi. Bisogna indagare quale sia il significato del corpo-docente. Occorre abbandonare la vecchia direzionalità verticale e univoca che prevede che l’insegnante debba dare e l’alunno ricevere. Berthoz e Sibilio hanno mostrato come il corpo porti con sé una capacità comunicativa immediata, che non ha bisogno di alcuna traduzione, come un linguaggio muto dei corpi. Bisogna che l’insegnante sia educato alla comprensione di questo linguaggio, che la sua stessa presenza corporea parla. Proprio questo linguaggio influenza, in maniera importantissima, la relazione con il discente e con tutto il gruppo degli educandi. Deve sapere che il suo corpo è portatore di significati che comunicano una funzione originaria, precedente alla funzione cognitiva stessa. L’insegnante deve riconoscere che il suo corpo determina la relazione con il gruppo, ancora più delle sue parole. Il movimento, la postura, la mimica, i gesti comunicano una dimensione affettiva che neppure l’insegnante più esperto di comunicazione verbale e cognitiva può colmare. È necessario che l’insegnante prenda in considerazione l’uscita dallo stereotipo che lo lega alla cattedra e definisce limiti geografici escludenti; è necessario che, di volta in volta l’insegnante e il suo corpo siano tradotti in condizioni personali e trovino una declinazione accordata da e ad ogni singolo alunno, non solo attraverso la dimensione normata di specifici percorsi dedicati e personalizzati, ma in una relazione autenticamente intersoggettiva.

Come affermano Sibilio e Gomez Paloma occorre educare il corpo, ma soprattutto attraverso il corpo, poiché il corpo rappresenta:

la costruzione di un sistema di sapere personalissimo e singolare che è inscritto nelle nostre mani, nelle nostre gambe, nei nostri occhi, nelle nostre capacità di resistenza fisica alle sollecitazioni quotidiane, nel nostro sistema cardiovascolare e motorio, nella nostra capacità di coordinazione e di controllo maturo che interviene nel nostro agire nello spazio (Sibilio, Gomez Paloma, 2007, p. 41).

Se tutto è valido quanto finora detto, occorre istituire una pedagogia del corpo che garantisca la giusta formazione del corpo-docente della scuola italiana ed internazionale perché sia garantita una educazione del corpo e attraverso il corpo in

tutte le aule del mondo. Con questo scopo alcune università italiane hanno caratterizzato alcuni corsi con moduli laboratoriali di educazione corporea e motoria e, altre hanno istituito l’insegnamento di Pedagogia del corpo, che come dice Ivano Gamelli, professore di Pedagogia del corpo dell’Università di Milano- Bicocca è

un territorio aperto, costitutivamente trasversale, disponibile al confronto e alla contaminazione con altri saperi sensibili, a un’autentica messa in gioco dei soggetti e al superamento gerarchico dei linguaggi all’interno della relazione educativa (Gamelli, 2012 p.9).

Tutti, nell’esperienza scolastica, da alunni, hanno avuto l’impressione di provare un bisogno relazionale nei confronti di un determinato insegnante. Questo bisogno non è collegato alla sola sollecitazione cognitiva, anzi quasi mai. Il bisogno vero è quello che l’insegnante riconosca il sentire dell’alunno, riconosca empaticamente la sua istanza di cuore, di emozione e di affettività.

Perché l’abusata espressione “rendere vivo l’insegnamento” abbia veramente un peso bisogna tenere presente la domanda dell’educando. L’educando chiede sempre di essere riconosciuto nella dimensione dell’affettività. Il rapporto educativo autentico deve significare presenza esistenziale dell’educatore per l’educando (Goleman, 2000). Occorre che l’educatore sia empatico. A questo punto occorre, con Gallese, definire il rapporto educativo come un rapporto empatico. In questo rapporto si trasferiscono significati da una persona all’altra e, questo trasferimento è operato dal corpo stesso, che diventa il medium delle due istanze, entrambe corporee ed entrambe coinvolte empaticamente, quella del docente e