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Conte, arimanni e signoria monastica nell’Imolese in un placito del

VIII. ARIMANNI IN ROMANIA FRA CONTI E SIGNORIE ECCLESIASTICHE (SECOLI X-XI)

8.5. Conte, arimanni e signoria monastica nell’Imolese in un placito del

Nell’anno 1005, nel castello di Lauviniano, in territorio imole- se (57), alla presenza di una contessa Imma e del giudice Vitale, un conte Teodorico – né di lui né della contessa Imma sono indicate specificazioni ulteriori della funzione comitale in rapporto a terri- tori determinati –, a mezzo del suo gastaldo Dodo – si noti la com- parsa di un termine di tradizione longobardo-franca che indica un amministratore di beni, in questo caso forse un amministratore pubblico, dei redditi cioè fiscali spettanti al comitato – e di un avvocato, al cospetto del collegio giudicante, del quale non cono- sciamo la composizione specifica per una lacuna del testo, muove lite contro l’abate del monastero di S. Maria in Palazzolo e il suo avvocato per rivendicare a sé il suffragium – probabilmente un censo pubblico in denaro (58) – e la publica actio ovvero tributi e prestazioni di natura fiscale – il significato è equivalente a quello di publica functio –, obblighi pubblici che egli sostiene debbano gravare su tre «arimanni nostri», singolarmente nominati, come gravano sugli altri arimanni: «... nobis facere debuerunt sicuti et alii arimanni faciunt».

(54) Fasoli, Il dominio cit., pp. 122-123 e passim. (55) Cfr. sopra, nota 46.

(56) Cfr. sopra, nota 45.

(57) Fantuzzi, Monumenti ravennati cit., V, n. 37, 1005 luglio 3. (58) Castagnetti, Società e politica cit., p. 27.

Il tentativo non poteva non essere destinato al fallimento, dal momento che l’istituzione, alla quale si ricorre, è già in crisi nello stesso Regno Italico, ove le condizioni per il suo funzionamento pur esistevano e dall’autorità centrale, almeno per tutto il secolo IX, erano state difese con tenacia, anche se non senza atteggiamen- ti contraddittori, soprattutto nei confronti delle richieste dei nuovi potentati costituiti dalle chiese e dai monasteri maggiori. Lo sfor- zo, impegnativo, non fu privo di risultati pratici, dal momento che la tradizione degli uomini liberi, dotati di terra sufficiente per l’as- solvimento degli obblighi pubblici, non si spense di un sol colpo, ma rimase viva nella persistenza stessa del nome di arimanno, anche se nel periodo successivo, a partire proprio dalla seconda metà del secolo X, in età ottoniana, la dipendenza dei gruppi ari- mannici dal potere pubblico, per primo da quello regio, iniziò ad essere concepita in modi analoghi alla dipendenza da un potere signorile: diritti sugli arimanni, gli arimanni stessi e le loro terre possono essere e sono ceduti dal potere regio ad incipienti forma- zioni signorili (62). In tale prospettiva anche i diritti dei conti sugli arimanni, quando sopravvivano, vengono concepiti e richiesti in forme che si avvicinano a quelle esercitate dai detentori delle signorie di banno fino a porsi in concorrenza con quelle esercitate da singoli proprietari (63).

Le rivendicazioni avanzate dai conti della Romania sulle pre- stazioni pubbliche degli uomini liberi, che essi insistono a chiama- re arimanni, non servono solo a fare funzionare l’istituzione comi- tale secondo i modelli dell’età carolingia, ma giungono anche a sottrarre ai signori prestazioni e obblighi pubblici degli uomini liberi, che abitano e coltivano le loro terre, diritti che i signori ormai pretendono per sé, siano gli uomini liberi inseriti in domina-

(62) Tabacco, I liberi cit., p. 148; si vedano le esemplificazioni sopra, capp. I-III.

(63) App., n. 18, doc. dell’anno 1086 relativo al conte di Bergamo; cfr. sopra, par. 4.2.

originaria, prima cioè dell’impegno assunto con la cartula promis-

sionis, dei tre uomini, definiti arimanni e le cui prestazioni costi-

tuiscono l’oggetto della lite, non con uomini liberi provvisti di beni propri, anche se modesti, ma con uomini liberi risiedenti su terra ecclesiastica, forse, per impiegare i termini ‘romanici’, nella condizione di coloni. A riprova osserviamo che nel placito non viene mai affermato, né in modo esplicito né implicito, che i tre abbiano ceduto la loro terra al monastero; l’azione da loro compiu- ta non riguarda beni eventualmente detenuti, ma la condizione giu- ridica delle loro persone: da liberi a servi. Che si trattasse poi di un espediente, come la parte comitale sostiene, appare evidente, a parer nostro, anche dalla durata limitata dell’obbligo assunto: solo finché vivrà l’abate; alla morte di questo, essi potranno – in linea di principio, almeno, anche se con difficoltà nella pratica – tornare nella condizione giuridica originaria; nel frattempo essi si sono sottratti con successo alle richieste del potere comitale: non dovranno pagare il suffragium né svolgere publica actio o publica

functio, in altre parole non dovranno corrispondere censi e presta-

zioni a titolo di arimannia, quel tributo pubblico o meglio quell’in- sieme di tributi pubblici che i conti pretesero nella Romania, come abbiamo visto, fin dalla prima comparsa dell’istituzione comitale.

Ancora una volta un collegio giudicante – non è detto, anche in questo placito, come in altri, da quale potere pubblico esso traesse la propria autorità: forse dalla chiesa ravennate; ma alla fin fine non si tratta di un aspetto essenziale, stanti i risultati identici degli altri processi considerati – emette sentenza favorevole ad un ente monastico contro i rappresentanti dell’autorità pubblica, sin- goli membri o gruppi appartenenti a famiglie comitali. La caratte- ristica di questi processi è costituita dallo sforzo compiuto dai rap- presentanti dell’istituzione comitale di costituire una base solida ed ampia di diritti pubblici al loro potere, utilizzando una istituzio- ne tradizionale, quella dell’obbligo dell’assolvimento dei doveri pubblici da parte degli uomini liberi nei confronti degli ufficiali comitali.

toriali della Romania a quelle della Langobardia (67). La menzio- ne della terra arimannorum va anzitutto situata in questa prospetti- va: il notaio o chi gli suggeriva il contenuto dell’atto si trova in presenza di una terra, costituita probabilmente da una zona incolta, di possesso comune degli uomini o di gruppi di uomini liberi di Sariano; spontanea poté apparire la definizione di «terra degli ari- manni», secondo schemi diffusi nell’area longobardo-franca, le cui influenze, d’altronde, si facevano sentire nella regione anche per molte altre vie e da tempi ben anteriori.

Quanto ora osservato rende infine ragione di un fatto, appa- rentemente singolare: nel naufragio generale, dopo il terzo decen- nio del secolo XI, delle testimonianze relative ad arimanni ed ari- mannia nella Romania, scomparsa che sembra da imputare, in con- seguenza diretta dei tentativi compiuti dai conti, alla volontà dei grandi proprietari, dotati di poteri signorili limitati o territoriali, come gli arcivescovi di Ravenna, che per primi avevano rifiutato decisamente l’impiego dei termini nel placito del 970, gli ariman- ni, apparsi ancora nella Traspadania ferrarese nel documento canossiano dell’anno 1017, torneranno ad apparirvi fra XII e XIII secolo. Tali presenze sono da attribuire alle influenze dei Canossa, soprattutto, e degli Estensi, e ad altre precedenti.

Nella zona sussiste una lunga tradizione di presenza ‘longo- bardica’, politica ed economica. Ricordiamo, dall’età postcarolin- gia, gli ampi domini nella zona dei marchesi Almerico I e Almerico II e dei duchi di Toscana (68), i possessi fiscali dell’im- peratrice Adelaide, donati poi al monastero pavese di S. Salvatore, i possessi del monastero di S. Maria di Pomposa (69).

(67) Castagnetti, L’organizzazione cit., pp. 316-317. (68) Castagnetti, Tra ‘Romania’ cit., pp. 40 ss.

(69) Documentazione e bibliografia in Castagnetti, Arimanni in ‘Romania’ cit., pp. 53-54.

zioni pienamente signorili, come quella della chiesa ravennate, o nell’ambito di strutture che potremmo definire di ‘signoria fondia- ria’, le più diffuse nella Romania (64).

Un’ultima annotazione. L’azione del conte nel 1005, come per altri casi, non si esplica solo nei confronti di singole persone o di singoli gruppi, ma vuole affermare un principio generale: nel momento in cui i rappresentanti della parte comitale rivendicano gli obblighi dei tre arimanni, giustificano tale pretesa con il riferi- mento a quanto fanno tutti gli altri arimanni, sottintendendo che, secondo loro, si tratta di obblighi generalizzati, da compiersi secondo modalità fissate dalla consuetudine, affermazione che poteva essere considerata valida – anche se in molti casi non più effettuale – per il Regno Italico, non per la Romania, ove di ari- manni si poteva parlare solo da un periodo recente (65).

8.6. Gli arimanni di Sariano e le influenze ‘longobardiche’

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