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Particolarmente rilevante è il fatto che, con un’unica eccezione,

3

tutte que-

ste rime manchino non tanto in Petrarca – notoriamente lontano dalla rima

sdrucciola – ma anche in Dante.

4

In generale, comunque, l’impiego di propa-

rossitone da parte di Fregoso risulta nella Cerva bianca fortemente limitato,

quasi sempre relegato al distico conclusivo delle ottave (che, richiedendo due

parole-rima anziché tre, comportano un minor sforzo compositivo), e limita-

to a occorrenze non particolarmente peregrine, spesso attestate nella poesia

pastorale contemporanea.

9.2

Contenuto

La vicenda prende le mosse in primavera, «quando in un bel verzer» Fileremo, Canto i

cacciatore accompagnato dai due fedeli cani Pensiero e Desio, sta placida-

mente riposando. Improvvisamente fa la sua comparsa sulla scena la «cerva

candida e fugace», venuta ad abbeverarsi alla stessa fonte dove il protagonista

aveva trovato ristoro; dopo un’iniziale illusione di cattura in una delle proprie

reti, questi lancia i cani all’inseguimento dell’animale, perdendoli rapidamen-

te di vista «in un bosco ombroso e denso». Rimasto solo, e spaventato per

l’inospitalità del luogo in cui si è suo malgrado trovato, Fileremo cerca riparo

su di un «faggio ombroso e erto», dalla sommità del quale vede «apparer un

lume e non lontano»; dopo l’iniziale esitazione – non sapendo se si tratti di

amici o nemici – decide di manifestarsi, gridando a gran voce in direzione

della lanterna. La risposta giunge tranquillizzante, e Fileremo (nel frattem-

po sceso dal faggio) fa così la conoscenza di Eubulo, sacerdote di Minerva ed

eremita in quei boschi; una volta condotto nella sua dimora, il cacciatore si

rallegra che la caccia alla cerva, se non alla preda, lo ha per lo meno portato

a fare la conoscenza del sant’uomo. Una volta cenato, Fileremo si appresta

ad ascoltare il discorso di Eubulo, incentrato sulla caducità dei beni terreni

e sui «vari diletti [che] sono infra gli umani»: la vita di corte, «l’amoroso

gioco», la ricchezza, l’ambizione, l’onore e viaggiare; segue un’esortazione a

condurre «vita modesta e virtüosa». Fileremo risponde minimizzando, e so-

stenendo che quanto condannato dal saggio eremita in realtà viene perseguito

dall’uomo per istinto, il quale non va represso in quanto prodotto di Dio e

di Natura; sdegnato, Eubulo lo invita ad abbandonare «questa opinion vana

3

Dante,If. xxiii 32-36.

4

Ho effettuato il controllo sulRimario della Divina Commedia di Dante Alighieri, Fi- renze, Le Monnier, 1853 e sul Rimario del Canzoniere di Francesco Petrarca, a c. di G. Coen, Firenze, Barbera editore, 1890.

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La Cerva bianca

epicura», opponendo alla tesi dell’interlocutore il ricorso a Ragione, attributo

umano che permette, unitamente a Pazienza e Astinenza, di percorrere la via

verso la Virtù. Fileremo loda le parole del saggio e si impegna a mettere in

pratica i suoi insegnamenti; all’esaurirsi della candela sulla tavola si chiude

il primo canto, con i due dialoganti che, con «la luna alzata a mezzo il celo»,

pongono fine alla conversazione e si coricano.

All’alba del giorno seguente Fileremo, desideroso di mettersi alla ricerca

Canto ii

dei propri cani, si congeda dal proprio ospite ringraziandolo per i preziosi in-

segnamenti e promettendo, come la petrarchesca ape «carca di dolce mele e

grato odore», di farne tesoro; nuovamente addentratosi nella selva, vagando,

a un certo punto al cacciatore capita di ritrovarsi «a canto il bosco, in un bel

prato», dove vede «un seder da me non lontan molto, / che in vista mi parea

tutto turbato». Salutatolo, questi risponde in preda alla disperazione, asse-

rendo di essere inconsolabile; Fileremo, appurato di non poterlo aiutare in

alcun modo, decide di lasciarlo solo, ma non prima di aver chiesto se per caso

avesse «sentito o visto doi cagnoli in caccia, / rossi, drieto a una cerva bianca

e pura». All’immediato impallidire dell’interlocutore il protagonista si rende

conto di aver toccato un nervo scoperto, e se ne andrebbe se lo sconosciuto,

sospirando, non cominciasse il proprio racconto. Dopo aver informato Filere-

mo di aver sentito (non visto) due cani latrare in caccia il giorno precedente,

questi avvisa il cacciatore di trovarsi in luoghi cari a Diana, e lo invita a

fermarsi con lui per dargli informazioni sulla cerva. Lo sconosciuto racconta

di aver trascorso la giovinezza in città, conducendo una vita agiata; una volta

stancatosene, questi si ritirò in campagna, «in un palaggio ameno», «in loco

solitario [. . . ] / ché ’l spirto in simil lochi è più sereno». Fattosi servitore

di Apollo e Diana, condusse una vita solitaria e devota, finché una sera, tro-

vandosi «in un pratello» dove «un fonte sorge con sì chiara vena, / che non

vedesti mai forse il più bello», cadde vittima di Amore per una ninfa di Diana

che vide fare il bagno nuda nella sorgente. Dopo il cortese rifiuto da parte

della ninfa, l’uomo decise di rivolgersi a tale Mammia, moglie di un pescatore

e «medica avantegiata» ai dolori amorosi; dopo un’iniziale riluttanza, questa

acconsentì ad ascoltare il povero amante e, dopo aver udito la descrizione

della ninfa, affermò di conoscerla, e che ella rispondesse al nome di Mirina.

Passato del tempo crogiolandosi nel fuoco di Amore, un giorno il narratore

vide Mammia correre nella sua direzione, affermando che il suo sentimento

era stato scoperto e che Diana aveva deciso di punire Mirina: questa perciò

si era data alla fuga, e per questo era stata tramutata in cerva. Lo sventura-

to invitò allora Mammia a scappare, e maledicendo le malelingue si diresse

verso il rifugio di Eubulo, il sant’uomo già incontrato nel primo canto che si

scopre essere suo zio, affinché lo aiutasse visti i buoni rapporti con Diana.

Grazie all’intercessione del saggio Eubulo non solo la dea decise di cessare le

9.2 Contenuto

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ostilità nei confronti del nipote, ma decise anche di revocare la condanna a

morte di Mirina, pur lasciandola in sembianze di cerva. Concluso il proprio

racconto, lo sconosciuto narratore invita Fileremo nella propria dimora per

stringere amicizia, offerta accettata di buon grado dal protagonista.

Il terzo canto si apre con la rivelazione (senza nessun preambolo) del no- Canto iii

me dello sconosciuto, che si scopre chiamarsi Apuano, e con la descrizione

del palazzo dove questi abita con l’amico Filareto, edificio che presenta le

caratteristiche tipiche dell’hortus conclusus. Appurato come Apuano e Fila-

reto conducano vita solitaria e dedita allo studio e alla letteratura, comincia

una discussione sul perché Amore abbia deciso di colpire Apuano da vecchio

anziché da giovane, discussione nella quale il protagonista viene per la prima

volta chiamato Fregoso. Apuano sostiene che non vi sia uomo che non sia

frutto di Amore, e che «ogni amara passion che in Amor viene, / già non si

chiama Amor, ma turbazione / de Amor [. . . ]», e argomenta che Amore non

è malvagio di per sé, ma come piuttosto il suo esito dipenda da soggetto a

soggetto. Inizia poi in questa sede la distinzione fra varie tipologie di amo-

re, con il paragone secondo cui il fuoco può allo stesso tempo far esplodere

una torre piena di polvere da sparo o bruciare del ginepro rendendo grade-

vole l’ambiente di una stanza. Fileremo chiede allora come sia possibile un

amore fra un vecchio come Apuano e una giovane come Mirina, e a questo

punto si inserisce nella conversazione Filareto, rimasto in silenzio fino a quel

momento: dopo aver raccontato della propria giovinezza, trascorsa immerso

nello studio a Milano e Pavia, questi racconta di essersi imbattuto in un libro

di pregio purtroppo per lui intraducibile, ma decifrato grazie ad un egizia-

no (Nilotico). Grazie alla sapienza contenuta in tale libro Filareto distingue

quindi la magia in divina, profana e naturale, dove quest’ultima è quella che

più interessa agli uomini. Nella dotta disquisizione trovano posto dunque i

«ministri de le dive stelle», ovvero i demoni che modificano, col loro influsso,

la condotta dei mortali: Fregoso coglie dunque qui l’occasione per citare i

colleghi «infelici cortegian» che tanto si sforzano nella propria arte per far

felice un signore che, essendo nato “sotto una cattiva stella”, non li apprezza e

li fa stare in pena. Allo stesso modo, sotto lo stesso influsso si trovano anche

gli amici, le cui menti consuonano in modo analogo all’armonia delle sfere;

per giungere alla fine del discorso, l’amore tra Mirina e Apuano è giustifi-

cato dalla consonanza dei propri geni. Fregoso interroga allora nuovamente

Filareto, chiedendo se «chi ’l demon suo ben cognoscesse,/credi tu che costui

mirande cose / per questo più che uno altro far potesse?»; l’amico risponde

allora «ch’ognuno a qualche effetto al mondo è nato», e lo invita a seguire il

proprio genio «dove serena hai più la mente, / dove rïesce meglio quel che fai,

/ dove più sano sei continuamente»; su un’ultima riflessione, poi, in merito

ai geni malvagi, si chiude il discorso di Filareto e il terzo canto.

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La Cerva bianca

Felice per la spiegazione della natura dell’amore di Mirina, il protagonista

Canto iv

ringrazia gli amici e si dirige verso la cena in loro compagnia. Apuano fa no-

tare come a tavola sia ideale che i commensali siano tre (numero delle Grazie)

o nove (numero delle Muse), e pertanto per rispettare la perfezione numerica

raggiunta dalla compagnia invita Fregoso a trattenersi presso di lui e Filareto

per tre giorni, proposta accolta di buon grado dal protagonista. Trascorso

il breve periodo Fileremo prende commiato e, accompagnato da un servito-

re degli amici (Ergotele), si avvia verso il regno di Diana. Montati su una

barchetta per seguire il corso del fiume, Ergotele espone la propria bizzarra

teoria in merito a quanto discusso dal protagonista con Apuano e Filareto il

giorno precedente, ovvero che in realtà la condotta umana non dipende tanto

dall’influsso celeste, quanto piuttosto dalle situazioni contingenti (soprattut-

to la fame). Di fronte a una tale bonariamente incolta riflessione Fregoso

non può fare a meno di ridere, ed Ergotele rincara la dose, sostenendo che

senza cibo non vi può essere vita, e pertanto l’origine di «quell’ingegno, quale

in ognun viene» va ricercata nella terra e non nel cielo. A questo punto il

protagonista lo riprende, mettendolo in guardia dall’addentrarsi in riflessioni

che vanno al di là delle sue capacità intellettuali, e per proseguire il discorso

gli domanda se egli sia innamorato. Ergotele quindi risponde di sì, e Fregoso

inizia a interrogarlo sulla natura di questo amore: il servo afferma sì di ama-

re la propria donna più di sé stesso, ma che non vorrebbe mai che ella fosse

elevata socialmente da Fortuna (o perderebbe interesse in un incolto quale

lui è), che per lei farebbe qualsiasi cosa e che avrebbe la sua vergogna in gran

dispiacere. Fileremo risponde quindi che questo non è vero amore, poiché

Ergotele ama solo per proprio diletto; questi oppone un blando tentativo di

difesa, ma non avendo argomenti a proprio favore cambia argomento e, per

rispondere a un quesito dell’interlocutore (sul perché egli non sposi l’ama-

ta), domanda a Fregoso «qual opra meglio: o la Natura o l’Arte», quesito

in seguito al quale il protagonista si schiera immediatamente a favore della

Natura. Ergotele allora sostiene che il matrimonio è un evento artificiale, e

che ad esso preferisce di gran lunga il proprio amore naturale. Fregoso allora

gli chiede che cosa farebbe qualora «diventasse / la tua ninfa gentil tanto

deforme, / quanto altra che qua intorno si trovasse», e il povero Ergotele,

andato in crisi, si lamenta del fatto che il protagonista voglia affrontarlo su

un campo (quello del ragionamento) che per la propria ignoranza non gli è

congeniale. Fileremo ride allora comprensivo e sostiene invece il «sublime

ingegno» del servo, e si offre poi di metterlo sulla «dritta via» dell’«amoroso

regno»: nel proprio discorso egli riprende quello di Pausania nel Simposio

platonico, distinguendo tra la Venere celeste e quella terrena e dai due figli

da loro nati: da un lato il figlio della Venere volgare e portatore di «oscura

fiamma» e «volgare ardore», nonché animatore del sentimento di Ergotele;

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dall’altro il figlio della Venere celeste, che «con divina vampa il cor ne ac-

cende», e fa amare non tanto il corpo («cosa terrena e putrescibile») quanto

«quel che ha chiuso dentro il bianco petto»; Fregoso appunta quindi che il

padrone di Ergotele, Apuano, è stato trafitto dagli strali di entrambi nelle

due fasi del proprio innamoramento.

Improvvisamente i due sentono il suono di un corno accompagnato da un Canto v

latrare canino, e – convinti che si tratti della dea in caccia – ormeggiano la

barca e si inoltrano nel regno di Diana. Incontrato un pastore (riconosciuto

però come nobile dal modo di parlare) essi domandano indicazioni, e que-

sti li conduce sulla sommità di un poggio dal quale si osserva, nella «fredda

valle», il castello di Diana, dalle mura di topazio per resistere alle continue

scorrerie di Amore. Compresa la strada, i due si congedano e si avviano per

l’inospitale sentiero verso la rocca; a poca distanza da questa però sentono

giungere un suono di campane a guerra, e vedono un gruppo di vecchi e ra-

gazzi correre verso il castello, inseguiti da un gruppo di cavalieri appartenenti

(come scoprono dai fuggiaschi) alle schiere di Amore. I due si danno allora

alla fuga, ma vengono in breve raggiunti da quattro armati dai quali vengono

fatti prigionieri. Fregoso cerca allora di convincere il sopraggiunto capitano

(Dolce-risguardo) e il suo luogotenente (Soave-parole) a liberare almeno il

servo raccontando la storia del loro viaggio, ma il tentativo si rivela infrut-

tuoso e i due, legati, vengono condotti a forza nel regno di Amore. Tale luogo

viene descritto come florido, variopinto e gioioso, e dopo aver scoperto da dei

mercanti che Ozio foraggia le truppe di Amore con vettovaglie, una matrona

si avvicina ai due prigionieri e si rivolge al capitano chiedendo la liberazione

del protagonista promettendo di portarlo di persona davanti ad Amore. La

risposta di Dolce-risguardo (in cui si scopre che la matrona è Ragione) dice

che i due furono fatti prigionieri da «quattro gran dame a la leggera armate»:

Bellezza, Virtù, Maniera-accorta e Leggiadria, le quali vengono convocate da

Fama. Queste in un primo momento si rifiutano di liberare i prigionieri, ma

davanti al turbamento di Ragione acconsentono di malavoglia; i due allora,

in compagnia della donna, si siedono a prendere ombra e conversare sotto un

olmo. Ragione mette allora in guardia Fregoso dai pericoli che corrono nel

regno in cui si trovano, e racconta l’origine di Antero, signore di quelle terre

e figlio del rapporto adulterino di Venere e Marte, dal quale ha ereditato i

tratti bellicosi che lo contraddistinguono e che occupò parte dei domini di

Amore per farne il proprio regno. Tra i pericoli descritti c’è Ormi, «una

che de cangiante va vestita, / con vaso d’or in man de liquor pieno, / con

qual ciascun che passa a bere invita». Da questa «blanda adulatrice» Ra-

gione mette in guardia i due pellegrini. Avviatisi lungo il percorso, i tre si

ritrovano in breve dinanzi a questo pericoloso ostacolo: affascinato da Ormi,

che promette «se la pozion soave beverai, / prima che al suo fin giongan gli

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La Cerva bianca

anni toi, / ogni piacer mondano gusterai», Fregoso porta alle labbra il calice

e ne beve un sorso, smettendo però di bere alla vista dello sguardo severo

di Ragione; riavutosi dal breve momento di ebbrezza, il protagonista cerca

con lo sguardo Ergotele, trovandolo «con il torto passo / andar come ebro al

quale il capo pesa». Fregoso allora lo prende di peso e lo volta verso Ragione,

la quale lo fa riavere: rimessosi il povero servo, i tre riprendono il sentiero

mentre la matrona spiega che stanno per entrare «[. . . ] per più stretta parte

/ ch’abbia il rio stato dil figliol di Marte»: abitanti di questo paese sono gli

«infelici amanti», disperati per la loro condizione. I tre si avviano dunque per

strada, finché Ragione non si blocca spaventata per aver visto «[. . . ] gente

sì malvagia e ria, / quanto altra fra costor trovar si possa»: si riferisce a

Pantolmo e Imero, sui quali neppure lei ha potere poiché è impossibile ra-

gionarci. Ragione invita quindi Fregoso ed Ergotele a trovare riparo in un

vicino boschetto di allori, dove attenderanno che passi il pericolo e, dato che

si è fatta sera, che giunga l’alba.

Il sesto canto si apre con un’invocazione ad Erato, Musa alla quale l’au-

Canto vi

tore chiede di accompagnarlo per quanto rimane del proprio viaggio, ora che

si avvia verso la conclusione; al contempo, la seconda richiesta è di riportare

alla mente «il gran camin de’ dolci mei primi anni / quando ebbe Amor di

me prima vittoria». Giunta l’alba, Fileremo ed Ergotele escono dunque dalla

selva per riprendere il cammino, rassicurati da Ragione sul fatto che ormai

ben poco troveranno del regno di Antero (affermazione confermata dal pia-

cevole clima che si viene creando via via). Bloccati i tre presso un torrente

dalle acque apparentemente limpide, Fileremo decide di prenderne una sor-

sata, solo per scoprire che il fluido è fortemente amaro; chieste spiegazioni a

Ragione, questa afferma che si tratta del fiume che sgorga da un «claustro

là sotto il gran monte» dove coloro che bevvero dall’otre di Ormi piangono

incessantemente; non solo, ma il corso d’acqua segna anche il confine tra i

regni di Antero e di Amore. Mentre i tre attendono pazientemente l’arrivo di

un’imbarcazione che li traghetti «in el regno de Amor fiorito e bello», intorno

a loro si crea un capannello di aspiranti passeggeri, dai quali Ragione mette in

guardia il protagonista: si tratta infatti di Levità, Temerità, Pigrizia, Felonia,

Avarizia, Villania, Tristizia e Dispetto, con i quali Fileremo dovrà ovviamen-

te evitare di compiere la traversata; Ragione aggiunge poi che il nocchiero

è di solito recalcitrante a far salire lei stessa, sicché dovrà poi ingegnarsi a

trovare una via alternativa. Giunta infine «una leve gondoletta / . . . / retta

da una leggiadra giovenetta», Ragione si vede puntualmente negata la traver-

sata a causa della piccola capacità di carico della barca (che non reggerebbe

il suo peso); a parziale risarcimento, la giovane traghettatrice (che si scopre

essere Gioventù) promette di scortare personalmente Fileremo ed Ergotele,

non senza polemiche da parte di Ragione. Dopo aver riassunto la propria

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vicenda alla nuova guida, il protagonista viene rassicurato sul fatto che dove

stanno andando ritroverà sia la cerva che gli amati cani: Gioventù racconta

infatti di aver visto, sei giorni prima, la «bella caccia» dei due cani vermigli

all’inseguimento della candida cerva attraverso lo stesso fiume su cui si trova

ora Fregoso. Rallegratosi per la notizia, questi mette dunque piede nel regno

di Amore. A un certo punto il gruppo si trova davanti ad una colonna sulla

quale è inciso – a lettere d’oro – un editto di Amore che mette in guardia

i viandanti dal condurre Gelosia per quelle terre, sia clandestinamente che

alla luce del sole. Perplesso, Fileremo chiede il perché di simile avvertimento,

dato che Gelosia è tradizionalmente considerata sorella di Amore; per tutta

risposta, Gioventù riconduce il dubbio ad un fraintendimento umano, dato

che Gelosia non è sorella di «Amor vero» bensì del «fallace Antero». Pro-

seguendo, i tre giungono al tempio di Letizia, nel quale vengono invitati ad

entrare da un gruppo di fanciulle danzanti nei pressi. Esortati da Ergotele i

tre entrano, e vi trovano giovani che ballano e banchetti imbanditi, davanti ai

quali il servo si siede senza esitazione. Non trovandolo conveniente, Fileremo

lo riprende, ma viene in questo fermato da Gioventù, che gli consiglia bene-

vola di lasciarlo lì e proseguire il viaggio solo con lei. Ripartiti dunque in due,

in breve tempo il protagonista riesce a scorgere in lontananza la magnifica

meta, Erotopoli, splendente in mezzo alla campagna con il tempio principale

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