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Contro la filosofia della disillusione

Nella lettura di Adorno, questa oggettività della speranza deve essere intravista sullo sfondo di ogni passaggio, perché chiarisce la prospettiva da cui viene mossa la sua critica alla modernità. Se non le viene dato il giusto peso, l’intera opera di Adorno non può che essere fraintesa e ricondotta a correnti romantiche e antimoderne, dalle quali in- vece si distanzia proprio grazie alla tensione tra esistente e possibile che la dialettica rie- sce a intravedere oggettivamente inscritta nelle cose.

Questo errore sta alla base, ad esempio, dell’analisi proposta da Giangiorgio Pa- squalotto. Nel suo Teoria come utopia, lo studioso italiano confronta la visione adorniana della modernità con quella di Heidegger, che per molti aspetti è simile, ma differisce proprio nell’abbandonarsi alla rassegnazione dove invece Adorno mantiene un inestin- guibile barlume di speranza. Pasqualotto loda l’approccio positivista di Heidegger, che di fronte ai fatti prende atto dell’irrimediabile fallimento della ragione.

Nessuna nostalgia in Heidegger, nessun progetto di Sintesi, di ricostruzione della vita de- gradata, nessuna utopia di Philosophie als Kultur: soltanto “indifferenza”, senza giudizio, senza sentenze, senza rimpianti; soltanto osservazione oggettiva, “scientifica”, positiva, della totalità in fieri della reificazione, della progressiva costituzione assoluta del Sein inautentico, del sistema di “desacralizzazione” come Dato.1

Heidegger non “danneggia” per nulla la reificazione, non intacca in alcun punto la “cattiva realtà”, ma nemmeno si trastulla con l’illusione di poterlo fare. Anzi, ed è qui la sua for- midabile forza di Aufklärung, dichiara esplicitamente l’impotenza della filosofia a portare a termine simili imprese […]: forse che la critica adorniana “danneggia” la reificazione più dell’ontologia?2

1 Giangiorgio Pasqualotto, Teoria come utopia. Studi sulla scuola di Francoforte, Bertani, Verona

1974, p. 107.

93 L’elemento illuminista in Heidegger starebbe proprio nel riconoscimento del de- finitivo fallimento del progetto illuminista. Questo viene ancora inteso come processo di disincanto e di liberazione da tutto ciò che non viene registrato come dato dalla scienza positiva. In quest’ottica, l’ostinazione di Adorno sembra addirittura un residuo romantico e mitologico, come Pasqualotto non manca di denunciare.

Per contraccolpo, è la posizione di Adorno che regredisce a condanna “romantica” contro la scienza, contro il positivismo e il neo-positivismo, e contro la tecnologia: è Adorno che invoca il ripristino di un’Humanitas che Heidegger sa invece scomparsa; è Adorno che s’illude di poter scongiurare il dominio della reificazione ricorrendo alle armi della dia- lettica negativa […]; è Adorno, infine, che spera ancora nella filosofia e nell’arte come salvezza dall’integrazione razionalizzata.1

Eppure, che Heidegger sappia che la reificazione universale è inarrestabile non ha nulla di obbiettivo. Un approccio veramente positivista non si pronuncerebbe sulla pos- sibilità o sull’impossibilità di una redenzione universale, perché ciò sarebbe metafisica; non si porrebbe nemmeno la domanda, che presuppone inevitabilmente un qualche valore morale. Un positivista ligio ai fatti non pronuncerebbe mai frasi come “Solo un dio ci può salvare”, perché sia “dio” che “salvare” sono termini inammissibili nel sistema scienti- fico. E d’altronde, il dato in Heidegger non è tanto registrato in maniera disincantata, quanto interpretato alla luce di una verità antica e dimenticata, considerata autentica per- ché originaria: il romanticismo del valore, che Pasqualotto rimprovera a Adorno, non è certo estraneo ad Heidegger.

Ma soprattutto, se il presunto disincanto heideggeriano può essere considerato il- luminista, ciò è solo perché anche dopo la critica di Adorno e Horkheimer si continua a far coincidere l’illuminismo con l’aderenza al dato. Invece, la correzione del percorso di liberazione proposta da Adorno sta proprio nello spingere il pensiero oltre ciò che sem- plicemente appare, ciò che è positivamente.

La ragione dialettica, si può dire, aggiunge un ulteriore livello alla conoscenza dell’oggettività: il negativo, la contraddizione che sta dietro alla parvenza2. È lì che si

1 Ivi, p. 106.

2 Contro l’aderenza positivistica ai fatti, Adorno ricorda l’importanza che la fantasia ha anche nella

94 radica la speranza che si oppone al disincanto heideggeriano. Allora, quello che potrebbe sembrare ottimismo ingenuo non nasce dall’ignoranza dei fatti, ma da un loro più pro- fondo esame; non da un residuo mitico, ma dalla voce di ciò che proprio l’illuminismo “disincantato” e mitologico vuole rimuovere. Solo mancando di valorizzare questo aspetto fondamentale della dialettica negativa – il rapporto tra contraddizione e speranza nella parvenza reale – si può accusare Adorno di anacronistico romanticismo.

La speranza rivendicata non è infantilismo o illusione, ma nasce dalla coscienza filosofica della limitazione: proprio perché limitato, il pensiero non può escludere con certezza la possibilità della liberazione. Il giudizio kantiano sull’impossibilità della me- tafisica è metafisico a sua volta; ma l’unità hegeliana di logica ed essenza non è più am- missibile in una dialettica negativa, dove la logica è malaessenza. Schiacciata tra queste due posizioni, la metafisica si salva proprio nell’oggettività della contraddizione, nella parvenza reale che rimanda oltre a sé, verso una verità essenziale ma nascosta al e dal pensiero identificante. La verità, insomma, sopravvive solo come speranza ingiustificata: «La coscienza ingenua, alla quale anche Goethe inclinava: ancora non si sa, ma forse un giorno si decifrerà, è più vicina alla verità metafisica dell’ignoramus kantiano»1.