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La posizione di Adorno nella diatriba tra Kant e Hegel sul tema del limite del pensiero e della possibilità di una metafisica ruota attorno alla figura della speranza. In Hegel, il soggetto finito era in grado di trascendere se stesso attraverso un toglimento dialettico. Conoscere i propri limiti significherebbe, infatti, osservarli dall’esterno, averli già superati: così la consapevolezza della finitezza sarebbe al contempo il suo toglimento in base alla forza dialettica immanente a ogni finito.

come rudimento acritico e infantile, è quella che, in realtà, stabilisce il rapporto tra gli oggetti, in cui ha origine, per forza di cose, ogni giudizio: espulsa la fantasia, è esorcizzato anche il giudizio, il vero atto conoscitivo» (Th. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 142). Già Hume aveva riconosciuto la necessità della fantasia nel processo conoscitivo, anche se, anticipando il positivismo, aveva indicato in quella ne- cessità un ostacolo alla conoscenza vera. La dialettica ribalta questo giudizio: in base alla sua natura nega- tiva, essa lavora proprio sui rapporti tra gli oggetti, e lì cerca una verità che non sia parvenza. È solo inda- gando quei rapporti che il pensiero può superare la semplice registrazione del dato, e porsi le domande sul vero e sul falso, sul giusto e sull’ingiusto. La critica dialettica eredita così la funzione della fantasia, che la spinge a ricercare il senso dell’esistente proprio guardando oltre all’esistente stesso.

95 Si suole in primo luogo fare un gran caso dei termini del pensiero, della ragione etc., affermando che il termine non si possa sorpassare. In una tale affermazione si è inconsa- pevoli di questo, che appunto in quanto qualcosa è determinato come termine, è già sor- passato. Perocché una determinatezza, un limite, è determinato come termine solo in op- posizione contro il suo altro in generale, come contro il suo illimitato. L’altro di un ter- mine è appunto l’oltre a questo termine.1

Ma per Adorno questo superamento non è per nulla scontato. Solo un soggetto assoluto sarebbe in grado di prendere assolutamente consapevolezza dei propri limiti, e in questo modo superarli. Non per nulla, il cammino col quale lo spirito giunge a se stesso è la comprensione di una totalità che già era presente: essa diviene concreta solo perché finalmente autocosciente. Il soggetto assoluto, cioè, non può che essere il fondamento del proprio movimento, e dunque anche dei limiti – ormai superati – nella conoscenza di sé. Alla fine l’Aufheben hegeliano è un passar oltre i cui traumi vengono dissolti una volta ottenuta la prospettiva dell’assoluto: esso è possibile solo a un soggetto che si scopre limitato unicamente da se stesso.

La presupposizione dell’assoluto è alla base della dialettica hegeliana, la quale dunque non affronta mai davvero il problema della finitezza in tutta la difficoltà che essa comporta per la stessa riflessione filosofica. È questa la difficoltà che Adorno pone in primo piano. La finitezza comporta anche l’imperfezione e la dimenticanza: ciò significa che la consapevolezza che un soggetto finito ha delle proprie mancanze non è mai defi- nitiva né indolore, e proprio perciò il loro dichiarato superamento suona sempre sospetto. C’è qui la critica psicanalitica alla trasparenza della coscienza a se stessa, ma pure l’am- missione kantiana della recidività con cui la ragione continua a puntare all’incondizionato dopo anche dopo aver preso coscienza della falsità delle antinomie.

Eppure, se Adorno recupera contro l’idealismo il limite della cosa in sé kantiana, ciò non significa che la brama metafisica che muove la ragione debba essere bollata come vana e illusoria. Il divieto che Kant imponeva alla metafisica non può essere giustificato, perché a ben guardare nega se stesso: «Pensata fino in fondo, anche quella Critica che contesta la conoscenza oggettivamente valida dell’assoluto giudica proprio perciò su un

96 assoluto»1. In altri termini, un soggetto che prenda coscienza dei propri limiti, proprio perché limitato, non può porre un limite assoluto; se lo facesse, questo si toglierebbe da sé.

Dunque, nonostante la contrapposizione critica della filosofia kantiana all’ideali- smo di Hegel, Adorno non approva il blocco che la Critica della ragion pura imponeva alla filosofia, costringendola a rivolgersi unicamente alla realtà finita e ad abbandonare la ricerca dell’incondizionato. La verità del particolare può emergere solo nel suo rapporto con l’universale, e dunque il pensiero che accettasse il limite e rinunciasse a lottare contro di esso non sarebbe più vicino alla verità delle vuote divagazioni in cui secondo Kant finisce per perdersi la ragione.

La riserva immediata della relatività, il pensiero che limita e si mantiene in un ambito concettuale ogni volta circoscritto, si sottrae, proprio attraverso questa cautela, all’espe- rienza del limite, pensare il quale e oltrepassarlo è – secondo la grande intuizione di Hegel – la stessa cosa. […] Solo la pretesa dell’incondizionato, il salto sulla propria ombra, rende giustizia al relativo.2

Per questo nella filosofia di Adorno il limite alle pretese del soggetto non è un limite assoluto, ma è relativo al soggetto stesso. Rimane, in altre parole, la speranza che se il soggetto si dimostrasse in grado di comprendere davvero il limite, questo potrebbe venire superato. Decretare l’assoluta impossibilità di questo superamento non si addice a un soggetto finito. Per questo Adorno non è disposto a rinunciare al salto hegeliano oltre al limite, ma lo conserva nella negatività della contraddizione come speranza innegabile, seppur mai sufficientemente salda da trasformarsi in certezza.

1 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 343. 2 Id., Minima moralia, cit., pp. 148-149.

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L’immediato nella critica