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La richiesta del fondamento

Di fronte alla contaminazione della dialettica con un elemento ad essa esterno – la sofferenza – sorgono diverse domande. Se alcune sono solo proteste reazionarie di una tradizione che ha feticizzato il proprio metodo razionale divenendo incapace di concepire una filosofia che incorpori elementi esterni ad esso, altre devono essere prese in conside- razione.

La prima riguarda il rischio di un’adesione irriflessa alla sofferenza e della conse- guente legittimazione delle reazioni violente che essa spesso genera; d’altronde la tesi freudiana che un soggetto oppresso reagisce creando altra oppressione viene spesso ri- chiamata nell’opera di Adorno. Per questo bisogna sottolineare che il contributo critico della sofferenza sta solo nel suo significato più immediato e spoglio – la richiesta di un cambiamento –, rispetto al quale qualsiasi reazione vendicativa, per quanto repentina, rappresenta già un passaggio successivo. La critica del sentimento immediato serve ap- punto a distinguere questi due momenti, a non tramutare il dolore in giustificazione di una reazione violenta e irrazionale. La tesi adorniana dell’impossibilità della prassi vieta alla filosofia di legittimare qualsiasi azione concreta, la quale finisce sempre per essere inadeguata e contraddittoria: ciò vale a maggior ragione per un’azione non sorretta dalla riflessione.

Ma una domanda più importante è quella sul rapporto tra sofferenza e critica, se la prima possa fungere da fondamento della seconda. Abbiamo visto che la ragione non è in grado di fornire una giustificazione alla dialettica negativa. Se Hegel poteva contare su un soggetto assoluto capace di presupporre la propria assolutezza, ciò è impossibile per Adorno. Persino la giustificazione di questa impossibilità, ovvero la confutazione dell’idealismo non è interamente immanente alla logica del sistema hegeliano: il soggetto assoluto viene confutato dalla negatività della contraddizione, dal permanere di un acon- cettuale; ma la contraddizione assume questo significato proprio perché a interpretarla non è un soggetto assoluto, il quale potrebbe legittimamente darle un valore positivo. Il fatto che in Adorno la contraddizione non sia un’essenza e quindi non esista in sé, ma sia

121 sempre e comunque una figura logica legata al soggetto, comporta anche che il suo signi- ficato non sia intrinsecamente parte di essa, ma dipende dal soggetto – finito o infinito – che la produce. Questo circolo vizioso all’interno dell’argomentazione logica in favore di una dialettica negativa costringe gli interpreti a cercare altrove una sua giustificazione.

Può l’esperienza del dolore essere la risposta? Sicuramente in essa la critica ha la propria genesi, il momento del proprio cominciamento. Ma che cominciamento e giusti- ficazione siano la stessa cosa non è una tesi che Adorno può sostenere: egli rifiuta come mitologia l’equivalenza di origine e verità, l’idea secondo la quale l’esistente è legittimo semplicemente perché è; di conseguenza, anche la critica non può fondare la propria le- gittimità sul dolore. Il suo fondamento deve essere razionale, ma l’argomentazione, la confutazione immanente alla logica non è in grado di fornirlo.

Un altro modo di porre lo stesso problema è il seguente: legare la verità della dia- lettica al suo parteggiare per gli oppressi non significa forse vincolarla a un dogma, fre- nare quel pensiero che Adorno invita a spaziare fin dove gli è possibile? L’accusa a Hegel di aver interrotto la dialettica per produrre la parvenza della conciliazione non potrebbe essere ribaltata contro la Dialettica negativa, la quale interromperebbe la critica per man- tenere la negatività del tutto?

Non si può negare che in ciò c’è un elemento violento, una censura: il pensiero è costretto a porre un freno alla propria pulsione conciliatrice, a mantenere un immediato che in quanto tale gli sfugge. La dialettica negativa, in altre parole, gli vieta di razionaliz- zare totalmente il dolore, di mediare completamente l’oggetto della critica fino a dissol- vere il suo nucleo aconcettuale; di spiegarlo e giustificarlo fino a che ogni negatività che esso esprime non viene incorporata nel già noto.

Adorno si trova così tra due fuochi. Da un lato se la dialettica criticasse ogni im- mediatezza fino ad annientarla non sarebbe diversa dal pensiero identificante; e per giunta distruggerebbe il presupposto stesso della critica, la quale nasce appunto dall’immedia- tezza del dolore, da ciò che ancora non è stato razionalizzato. Ma dall’altro, conservare un nucleo irrazionale comporta il rischio che la stessa critica ricada nel mito che dovrebbe invece dissolvere.

Nel leggere la Dialettica negativa non si può ignorare questa contraddizione. Si- curamente non si può sorvolare su di essa incorporandola all’interno della teoria come un

122 necessario riflesso della contraddizione reale. Ciò non farebbe giustizia alla filosofia di Adorno, che troppo spesso viene caratterizzata come aporetica solo per interrompere la riflessione su di essa. È invece necessario affrontare questa aporia fino in fondo e giun- gere se non a una soluzione, almeno a pensarne la possibilità.

Per fare ciò bisogna addentrarsi nelle riflessioni di Adorno sulla morale, il cui si- gnificato emerge dal secondo excursus di Dialettica dell’illuminismo, dove viene analiz- zato nel dettaglio il suo rapporto con la ragione. La tesi centrale è che, da un lato, una ragione totalitaria e dunque incapace di autocritica è assolutamente incompatibile con qualsiasi tipo di valore, come dimostra chiaramente la storia della filosofia illuminista; dall’altro una vera ragione, pienamente razionale, non può fare a meno di una componente morale. Proprio in questa dinamica sta allora la possibilità di un fondamento, fornito non dalla ratio, ma da un pensiero morale, capace di conciliare la mediazione logico-razionale con un elemento diverso da essa.